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Vecchio 06-03-2013, 12:01   #101
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A proposito di scatolone e del regionalismo scatolo

Scatolone è un accrescitivo di scatola, così come scatolino un diminutivo; senza con questo escludere che si possa dire e si dica altrettanto spesso scatolona e scatolina. Si sa che negli alterati d'un nome può cambiare tante volte il genere grammaticale; e che nel cambio è favorito più spesso il maschile, così per gli accrescitivi come per i diminutivi. Non ci sono soltanto, per restringersi ai primi, febbrone e parolone accanto a febbrona e parolona, e poi con significati particolari cupolone e pallone e polpettone e seggiolone solo maschili, ma perfino barcone, donnone, salone, scalone, i quali a prima vista potrebbero parere alterati di barco, donno, sale, scalo, che pure esistono, e invece sono una barca, una donna, una sala, una scala fattesi in un tempo stesso più grandi e di genere maschile.


Dunque non è il caso di far leva su scatolone per giustificare l'uso di scatolo. Quanto alla sua struttura, questa variante di scatola è paragonabile a tante altre, come cassetto, tavolo, materasso accanto a cassetta, tavola, materassa; soltanto, è molto meno frequente nell'uso, limitata com'è alle parlate meridionali. Le fanno un posticino alcuni dei dizionari più ricchi. Il Grande Dizionario della Lingua Italiana fondato da Salvatore Battaglia ne riporta tre citazioni: "scatoli mezzi sfasciati", dal siciliano Capuana; "scatoli di carta da lettere, dal Pirandello pure siciliano; "scatoli da conserva", dal napoletano Bernari. Il Vocabolario Treccani di Aldo Duro precisa che questo regionalismo (meridionale) per scatola è usato "soprattutto per indicare scatole di maggiori dimensioni, cioè scatoloni". Un'indicazione, questa, da tener presente nel caso che un domani scatolo potesse fissarsi in un significato più definito e così, riuscendo utile a una qualche migliore distinzione di concetti, finisse coll'affacciarsi nell'uso italiano più comune. Ma è solo un'ipotesi. Per il momento non si può dire che ci sia entrato.


L'uso scritto della parola scàtolo richiederebbe in tutti i modi una certa attenzione, perché certamente si vorranno evitare equivoci con una parola omografa altrettanto rara, scatòlo. È un termine chimico, indica un composto organico dall'odore nauseabondo. Non mette voglia di parlarne di più".

Piero Fiorelli

http://www.accademiadellacrusca.it/i...alismo-scatolo
Vecchio 08-03-2013, 21:32   #102
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Conoscenza linguistica in costante calo

L’ombra dell’analfabetismo di ritorno in Italia


Intervista a Tullio De Mauro: «Non abbiamo alle spalle nessuna età dell’oro da cui siamo decaduti»


Il linguista Tullio De Mauro ha recentemente esternato la sua preoccupazione riguardo al cosiddetto 'analfabetismo di ritorno'. In una società che richiede sempre maggiori conoscenze e competenze, il livello di conoscenza linguistica in giovani e adulti è in costante caduta. Ad aggravare questa situazione l’assenza di infrastrutture -biblioteche, centri di lettura- in grado in garantire alle persone che hanno completato la loro formazione (ad esempio lavoratori che hanno lasciato gli studi da tempo) di ricevere nuovi stimoli alla ricerca e allo studio.



Professore, in che momento le conoscenze linguistiche erano maggiormente diffuse in Italia?

Se “conoscenze linguistiche” si riferisce alla capacità di conoscere, capire e usare la lingua italiana la risposta è: mai. Non abbiamo alle spalle nessuna età dell’oro da cui siamo decaduti. Cinquant’anni fa soltanto poco più d’un terzo della popolazione nel parlare sapeva usare l’italiano, due terzi parlavano soltanto uno dei dialetti, e le capacità di lettura e scrittura erano molto limitate: l’indice medio di scolarità (gli anni di scuola fatti a testa da ciascuno) era di poco superiore a tre. Oggi ha raggiunto i dodici anni e il 95% della popolazione riesce a esprimersi in italiano. Il progresso è stato molto grande. Un problema è che nel frattempo sono cresciute anche le esigenze di comprensione e conoscenza, un altro problema è che al grande sviluppo quantitativo dell’istruzione non ha corrisposto una pari crescita di qualità nella scuola medio-superiore e universitaria. Quel po’ di lingua italiana che si parlava e quel po’ di scuola che si faceva permetteva la sussistenza in una società a base agricola. Oggi abbiamo bisogno di una quantità enormemente superiore di conoscenze e informazioni perfino per fare la spesa senza essere imbrogliati o avvelenati e, insomma, per orientarci nella vita sociale, anche quotidiana. Rispetto a queste crescenti esigenze le nostre conoscenze linguistiche si rivelano troppo povere per gran parte della popolazione.

Quando queste conoscenze sono entrate in crisi?

Con l’entrata del paese nella società della conoscenza, grosso modo tra anni ottanta e novanta del secolo scorso. Come si chiedeva già dagli anni settanta sarebbe stato necessario investire in un adeguato sviluppo dell’istruzione secondaria superiore, dell’istruzione terziaria e della ricerca. Questo non è avvenuto. Inoltre almeno dagli anni novanta ci si rese conto che la scuola ordinaria da sola sarebbe stata impari ai compiti della società della conoscenza e che si sarebbero dovute sviluppare agenzie di cultura (centri di lettura sul territorio, biblioteche ecc.) e istituzioni di educazione degli adulti. Non abbiamo investito né nella scuola ordinaria né in queste strutture collaterali. Il divario tra crescenti esigenze e competenze è andato crescendo, senza che i gruppi dirigenti se ne preoccupassero. L’ascolto televisivo, l’ascolto di una televisione che dai primi anni novanta si è andata sempre più commercializzando, è diventato la principale fonte di conoscenze per la maggior parte della popolazione.

In cosa la tecnologia ostacola l’alfabetizzazione e in cosa potrebbe aiutarla?

«Le tecnologie dell’informazione e comunicazione non creano ostacoli, ma solo grandi opportunità a una popolazione che sappia leggere, scrivere e (fondamentale) far di conto».

La televisione, che fu importante per diffondere l’italiano standard, che ruolo può avere oggi?

Potrebbe tornare a essere un’agenzia di promozione della cultura e delle competenze.

Come la politica può aiutare l’istruzione in un momento così delicato per l’economia?

Investendo in istruzione e ridisegnandola, come avviene in altri paesi europei ricchi e non ricchi, ma anche nell’Asia Orientale, in America Latina e negli USA.

Il livello di istruzione e benessere economico sono direttamente proporzionali?

Sì, secondo gli studi accurati come, per esempio, l’ampia ricerca macroeconomia di Robert Barro e Jong Wh-Lee.

Come creare un circolo virtuoso tra istruzione ed economia?

Orientando le risorse verso l’istruzione anzitutto.

L’informazione giornalistica ha un ruolo in questo processo? Come influisce?

Potrebbe averlo se badasse meno alle proprietà e all’incetta pubblicitaria e più ai lettori o ascoltatori.


http://www.lindro.it/cultura/cultura...orno-in-italia
Vecchio 10-03-2013, 21:02   #103
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"Sono il Re di Roma e sono superiore alla grammatica" (cit.)
Vecchio 10-03-2013, 21:38   #104
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Accordo del participio passato

«Il problema dell'accordo del participio passato è uno dei capitoli più spinosi della sintassi italiana. Le principali incertezze possono essere schematizzate nel modo seguente: 1) accordo del participio d'un verbo composto con l'ausiliare avere col complemento oggetto posposto ("ho scelto le migliori opere" - "ho scelte le migliori opere": nettamente prevalente, e quindi anche preferibile, la prima soluzione); 2) accordo del participio d'un verbo composto con avere con l'oggetto anteposto, costituito da un pronome personale o relativo ("ci ha ingannato" - "ci ha ingannati", "la casa che ho comprato" - "la casa che ho comprata"); 3) accordo del participio di essere o di un verbo copulativo col soggetto o col nome del predicato ovvero col complemento predicativo ("il suo discorso è stato, è risultato una sorpresa" - "è stata, è risultata una sorpresa"); 4) accordo del participio d'un verbo pronominale col soggetto o col complemento oggetto, sia esso anteposto o posposto ("la meta che ci siamo prefissati" - "che ci siamo prefissata".

La possibilità di scelta per i punti 2, 3 e 4 è esistita da sempre in italiano e le restrizioni di tanto in tanto indicate da qualche grammatico sono da considerarsi infondate. Anche in uno scrittore particolarmente sensibile al problema dell'omogeneità linguistica come Alessandro Manzoni si possono cogliere alternative: "le cose che m'hanno fatto" (I Promessi Sposi, cap. XXXV) - "le ciarle che avrebbe fatte" (cap. III), - [gli uomini] "si riunivano in crocchi, senza essersi dati l'intesa" (cap. XII) - "altri passeggeri s'eran fatta una strada ne' campi" (cap. XI) ecc.»

http://www.accademiadellacrusca.it/i...icipio-passato
Vecchio 14-03-2013, 02:20   #105
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Da Napoli a Roma: evoluzione dell'inciucio


Severina Parodi sulle pagine della nostra rivista La Crusca per voi (n. 12, aprile 1996) scriveva: «Propriamente il napoletano 'nciucio significa 'pettegolezzo, chiacchiericcio' e il verbo 'nciucià 'spettegolare, fare e riportare chiacchiere; malignare; mettere zizzania fra persone col proprio sparlare'; questo secondo i moderni dizionari del napoletano che riportano anche 'nciucessa 'pettegola', mentre nei dizionari più antichi (Galiani ad es.) il termine non figura. Nell'uso odierno, tuttavia, la parola tende a scostarsi dal suo significato originale per assumere quello di 'imbroglio, intrallazzo, finta'. Così come si nota nel leggere, ad es., nella "Nazione" del 23.02.1996, a proposito della rissa tra un giornalista e i "gorilla" di Pippo Baudo al recente festival di Sanremo, la dichiarazione del noto presentatore: "Colpa dell'inciucio che non c'è. Se ci fosse stato l'inciucio forse ci divertiremmo di più", come dire "se avessimo fatto le finte, la cosa sarebbe stata più divertente".»


La Parodi scriveva quando il termine dialettale era da poco entrato nell'uso del linguaggio della politica nazionale come "compromesso poco chiaro, accordo pasticciato, soluzione non trasparente, intrallazzo" (S. Novelli, G. Urbani, Dizionario della Seconda Repubblica, Roma, 1997). Negli Annali del lessico contemporaneo italiano: Neologismi 1995, a cura di Michele A. Cortelazzo (Padova, 1995) si cita come primo esempio una frase di Roberto Maroni pubblicata sul "Corriere della Sera" del 23 dicembre 1995, ma si aggiunge che il "battesimo della politica" è stato dato al termine, o meglio al suo accrescitivo inciucione, da Massimo D'Alema in una intervista rilasciata a Mino Fuccillo su "Repubblica" del 28 ottobre dello stesso anno; accrescitivo che sarà subito ripreso nel titolo di un articolo del 30 ottobre, che commentava quell'intervista.


La cosa non passò sotto silenzio tanto che, dalle pagine del "Corriere", già il 29 ottobre, Beppe Severgnini, con la consueta ironia, commentava l'uscita di D'Alema, il quale non forniva la spiegazione del termine, rimproverandogli di aver lasciato in ansia gli italiani, perché "Qualunque cosa sia, ha un suono minaccioso. Molte porte italiane, la notte scorsa, erano chiuse a doppia mandata. I pidiessini giurano che non mangiano più i bambini; adesso non possono terrorizzarli con l'inciucione". Dichiarava di aver "provato a telefonare in giro per l'Italia: niente da fare. Lombardi, veneti, piemontesi, liguri, emiliani, toscani e sardi, davanti all'inciucione, sono perduti"; finalmente "I primi indizi sono arrivati da Napoli, l'inciucione, mi è stato assicurato, è un grande inciucio. D'accordo, ho chiesto: ma cos'è un inciucio? Inciucio, mi è stato risposto, è il pettegolezzo; inciucesso (parola non entusiasmante), il pettegolo. No, hanno ribattuto da Roma. Inciucione viene da inciuciamento, chiacchiera intima e compiaciuta tra più persone".
Il titolo dell'articolo è appunto Potevano dire "pettegolezzo". Avrebbe fatto meno paura, ma D'Alema intendeva ben altro che 'pettegolezzo', come è chiarito dall'interpretazione di Fuccillo nel suo commento: "Quel che non si sa o si vede poco è che, purtroppo, c'è una terza via, all'italiana. Niente elezioni, niente accordi prima del nuovo governo, solo grandi fanfare che annunciano riforme. Per questa terza via si va a un governo dove uno strapuntino non si nega a nessuno, tutti insieme si galleggia e questo è l'obiettivo. È questo e non altro l'inciucione: nessuno lo propone". Benché il termine non fosse ancora chiaro agli italiani in ansia, doveva esserlo per i politici interlocutori di D'Alema, visto che «Berlusconi lo considera[va] "un'ammucchiata"» (Fini: il governissimo è la fine del Polo, "Repubblica", 29.10.1995), usando un altro termine del "politichese", che non risultava certo ansiogeno per il pubblico nazionale.
Quale fosse il valore di inciucio poteva averlo chiarito ai suoi colleghi Alessandra Mussolini, napoletana, che l'anno prima aveva lanciato «Una sequela di attacchi, anche feroci. [...] contro Gianfranco Fini e le sue "cannonate" d' oltremare, contro l'"inciucio", arte sommersa del "tessere le reti di nascosto"» come testimonia un articolo del "Corriere", che doveva esser sfuggito a Severgnini (La Mussolini: Gianfranco, basta con i siluri al Duce, 5.7.1994). In realtà la voce era già entrata nell'agone politico da almeno quattro anni, anche questa volta proposta da sinistra: "Adesso non mettevi a parlare di inciucio, supplica Rina Gagliardi, [...]. E certo, a sentire le battute di Valentino Parlato, è difficile pensare a un compromesso qualsiasi tra lui, Pintor e Rossanda e la ciurma ribelle del giornale" (Disgelo in vista al Manifesto, 27.6.1990).


Evidentemente a Roma i politici, qualsiasi fosse la loro origine (la Gagliardi era pisana), usavano il termine nel significato specialistico, mentre i romani, anche se dell'ambiente, continuavano a impiegarlo in quello rilevato da Severgnini: "E che vacanze vuoi che faccia Costanzo. È lì, fra il teatro e gli uffici, le carte, il caffè, l'inciucio al telefono, le passate di cerone al trucco", scriveva meno di due mesi dopo il romano Paolo Guzzanti (Credetemi la gioia non è peccato, "Repubblica", 12.8.1990). In realtà, il particolare valore che le "inchieste telefoniche" del giornalista attribuiscono all'inciuciamento romano, era già un'evoluzione presente nel napoletano, visto che Vittorio Parascandola in Vèfio. Folk-glossario del dialetto procidano (Napoli, 1976) citato negli Annali aggiunge al valore di 'pettegolezzo' per inciucio la precisazione: "che si realizza con una serie di conciliaboli e conventicole e, soprattutto, con una serie di parlottamenti sottovoce". Ciò fornisce il tramite tra il significato tradizionale del napoletano ricordato da Severina Parodi e quello "politico", e ben presto anche generico, che il termine ha assunto.
Per quel che concerne l'origine remota della voce, come la Parodi giustamente notava, essa non compare nei repertori napoletani più antichi, ma nel Vocabolario Napolitano-Toscano di Raffaele D'Ambra (Napoli, 1873) troviamo le forme onomatopeiche ciociò e ciù ciù "per indicare quel suono confuso che si fa quando si parla a voce bassa" e i verbi ciocioliare e ciuciuliare per 'bisbigliare, parlottare', da cui è probabile che inciucio derivi.


In ogni caso non c'è dubbio che la voce abbia avuto successo (mi sento di poter aggiungere purtroppo), tanto che nel 2005, quindici anni (nel libro si dichiara dieci) dopo il suo "ingresso in politica", Peter Gomez e Massimo Travaglio hanno titolato Inciucio il volume uscito per la Biblioteca Universale Rizzoli e che il termine compare in oltre 1400 pubblicazioni a stampa (Google libri 17.01.2011); se si passa alla rete il numero delle occorrenze balza a oltre 80.000 (Google alla stessa data). Del resto il termine è registrato nei dizionari di lingua (Vocabolario Treccani, Supplemento 2004 al GDLI, GRADIT, che dall'edizione 2007 anticipa la datazione al 1990, DISC 1997, ZINGARELLI 1997, Devoto-Oli 2002-2003), alcuni dei quali riportano anche derivati come inciucismo, inciucista,inciucioso, inciuciare.
Per ciò che riguarda i quotidiani, "luogo deputato" per questo genere di voci, sul "Corriere" ad oggi inciucio ha raggiunto le 1082 occorrenze, non molte meno delle 1175 su "Repubblica"; inoltre su "Repubblica" l'uso più recente risale solo al 12 gennaio scorso e nello stesso quotidiano il 31 dicembre 2010 la voce compariva in ben tre articoli diversi.


Nel 1995 Severgnini concludeva così il suo articolo: "Siccome la politica italiana non è abbastanza allucinante, ci volevano giusto i mostri e le sciarade"; ci possiamo domandare se l'inciucione fosse la cosa peggiore che potesse capitarci.

http://www.accademiadellacrusca.it/i...e-dellinciucio
Vecchio 15-03-2013, 20:54   #106
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Sull'uso del passato remoto

Sull'uso del passato remoto

«Quando ci riferiamo ad avvenimenti del passato, lontano o recente, noi possiamo percepirli o come collegati col presente o come separati da questo. Li sentiamo collegati col presente quando fissiamo l'attenzione sul perdurare dei loro effetti: "L'uomo è comparso sulla terra all'inizio dell'era quaternaria" (=è comparso e ci vive tuttora), oppure quando collochiamo eventi e azioni in una cornice temporale che include il presente: "Fin dai tempi più lontani (=dai tempi più lontani fino ad oggi) l'uomo ha sfruttato l'ambiente naturale". Avvertiamo invece eventi e azioni come separati, distaccati, dal presente quando li consideriamo nel loro compimento, e conclusi; non ne cerchiamo le tracce nel momento attuale, ma li collochiamo in un momento particolare del tempo già trascorso: "Quando l'uomo apparve sulla terra, era appena incominciata l'era quaternaria".

La scelta del passato prossimo e del passato remoto non dipende dalla distanza temporale degli avvenimenti; dipende dalla collocazione che diamo a questi rispetto al momento in cui ne parliamo e dal "punto di vista" dal quale li consideriamo, cioè dall'atteggiamento con cui percepiamo il passato. Usiamo il passato prossimo per esprimere un'azione compiuta o un accadimento che "lasciano tracce" (come diceva Giacomo Devoto) nel presente. Usiamo il passato remoto per manifestare il distacco, e quindi la lontananza, di tali avvenimenti dal momento in cui ne parliamo. Dobbiamo perciò intendere remoto nel suo significato etimologico di "separato", "staccato", "rimosso"; e prossimo come indicante vicinanza o attualità psicologica.
È naturale che i "legami" col presente si allentino più facilmente per gli avvenimenti lontani nel tempo e si mantengano più saldi quanto più questi sono recenti. Dirò: "Giulio Cesare morì nel 44 a.C." perché il fatto non mi appare in alcun modo collegato con la situazione in cui mi trovo a parlarne, e dirò: "Stamattina (ma anche 'ieri', 'due giorni fa') è morto il mio vicino di casa" perché sento come attuale l'accaduto, ne avverto le conseguenze, lo riporto alla mia esperienza soggettiva: conoscevo quella persona, ora non c'è più [...].

Le cose cambiano quando cambiano le circostanze della comunicazione e i tipi di testo che si vogliono produrre. In una narrazione obiettiva di eventi passati che non siano messi in relazione col presente né abbiano alcun collegamento con l'esperienza personale di chi parla o chi scrive (pensiamo, per esempio, all'esposizione di vicende appartenenti a epoche più o meno lontane, di biografie di personaggi storici ecc.) anche i non toscani ricorrono al passato remoto (o, in alternativa, al presente storico) nello scritto o nel parlato più sorvegliato.

Le risorse della lingua ci consentono di manifestare il nostro punto di vista su azioni e accadimenti: la scelta che facciamo dei tempi verbali rispecchia dunque le nostre valutazioni riguardo alla durata, all'ambito temporale, alla persistenza di effetti e risultati della azioni e degli eventi. Esserne consapevoli significa orientare al meglio le proprie decisioni» (Bice Mortara Garavelli, La Crusca per voi, n°2, p. 5).

Giovanni Nencioni (La Crusca per voi, n°6, p. 10), pone anche l'accento sull'aspetto diatopico del problema, ovvero sulla diversa distribuzione geografica della scelta fra i due tempi verbali, sottolineando come «l'alternanza del passato prossimo col passato remoto, nella lingua sia parlata che scritta, non è uniforme in Italia, perché vi influisce anche il sostrato dialettale dei parlanti o scriventi. Le migliori grammatiche dicono che nell'Italia settentrionale prevale l'uso del passato prossimo, nell'Italia meridionale l'uso del passato remoto, benché il passato prossimo vi acquisti terreno; in Toscana l'alternanza è tuttora viva e significativa».

http://www.accademiadellacrusca.it/i...passato-remoto
Vecchio 22-03-2013, 11:12   #107
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Uscire fuori, salir su e altri pleonasmi

Nonostante che nel significato del verbo sia già contenuta l'idea ribadita dall'avverbio fuori, la forma "uscire fuori" è largamente attestata nell'italiano scritto, anche letterario, da Dante a oggi. In particolare nel Grande Dizionario della Lingua Italiana (Barberi-Squarotti, UTET), sotto la voce "fuori" si trova un paragrafo dedicato proprio alla locuzione "uscire fuori" con la seguente definizione: "portarsi all'esterno di un luogo chiuso, di uno spazio circoscritto; sfuggire. Anche: avviarsi ad affrontare il nemico in campo aperto"; qualche rigo più sotto poi viene trattata la particolare accezione di "uscire fuori dalla bocca" (es. da Piccolomini: "come le esce fuora una parola di bocca, non è più possibile di farla ritornar dentro"). Nell'italiano contemporaneo e in particolare nella lingua parlata sono frequenti forme e locuzioni ridondanti, in cui cioè il significato che si vuole esprimere viene ribadito da più elementi presenti nella stessa frase: si tratta di un fenomeno normale, volto a conferire maggiore incisività ed espressività a quello che si dice.

Sulla questione degli usi pleonastici era già intervenuto Giovanni Nencioni sulle pagine della Crusca per Voi (n° 8, p. 12) in un confronto con la diffusione di particelle combinate a verbi in inglese:
«Le nostre grammatiche distinguono il verbo semplice dalla locuzione verbale, composta di una testa verbale che si appoggia semanticamente a un aggettivo (farsi bello, farsi vivo) o a un sostantivo (far menzione, prender le parti) o a un avverbio (metter su, andar via); si veda Serianni e Castelvecchi, Grammatica italiana, IV, 72; XI, 2, 365. La locuzione verbale può corrispondere a un verbo semplice, ma, se formata con particelle avverbiali, è fortemente polisemica ed espressiva, come prodotto eminentemente popolare. Dimostrano tale origine la sua frequenza nei dialetti (che è indubbio segno di antichità) e il suo uso pleonastico: salir su, scender giù, cacciar via. Quanto alla polisemia, che si risolve nel contesto, basti pensare ai casi di metter su famiglia, metter su uno contro il fratello, metter su superbia, metter su il brodo e, nell'italiano regionale, metter su (o far su) il cappotto; oppure a buttar giù nei sensi di "buttare in basso o abbattere o scrivere in fretta qualcosa o deprimere".

L'uso inglese è sistematico, quindi normativo, e vasto ben più dell'italiano; ma questo, a osservazioni recenti, appare in via di sviluppo, il che può attribuirsi sia all'influenza dell'italiano settentrionale, dove è largamente penetrato dai dialetti, sia a un processo di semplificazione cui l'italiano parlato da quasi tutti gli italiani va soggetto, perdendo la ricchezza della varietà sinonimica e delle forme sintetiche posseduta dalla lingua letteraria. La sostituzione, però, di verbi semplici con locuzioni verbali (o verbi complessi), se pare una semplificazione, è in realtà, sotto l'aspetto semantico, una complicazione, perché il significato della forma analitica non si spiega con la somma del significato dei suoi componenti: tirar su è semanticamente divaricabile tra il significato di sollevare, confortare, migliorare una condizione e quelli di costruire (un edificio), attingere (l'acqua) o tirar su col naso. Nel suo bel saggio Stabilità e instabilità nei caratteri originali dell'italiano, inserito nel volume miscellaneo Introduzione all'italiano contemporaneo. Le strutture a cura di A. Sobrero, Laterza, Bari 1993, Raffaele Simone osserva acutamente: "II funzionamento di questi verbi... è molto somigliante a quello dei phrasal verbs inglesi (set up, set off, blow up, drop by, ecc.). Questi verbi italiani sono infatti, come quelli inglesi, pienamente sintagmatici: solo in pochi casi è possibile sostituirli con la pura e semplice testa verbale (Mi ha fatto fuori ma *Mi ha fatto); per lo più solo la coppia sintagmatica è possibile" (p. 95).»

A cura di Raffaella Setti
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

http://www.accademiadellacrusca.it/i...ltri-pleonasmi
Vecchio 25-06-2013, 02:47   #108
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Nero, negro e di colore


«Sull’uso di negro, nero e di colore per descrivere e caratterizzare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della sua (o della loro) pelle si è discusso non poco, negli ultimi decenni. E tuttora si continua a discutere, a voler scorrere, in Internet, i forum dedicati al tema. Non è un caso. Perché non vi è dubbio che l’argomento e le connesse scelte linguistiche presentino alcune incertezze e insidie sia sul piano squisitamente lessicale, sia su quello dell’accettabilità o dell’interdizione sociale. Fino agli anni Settanta, negro, nero e di colore sono stati usati quasi come sinonimi e con connotazioni di significato molto simili (tutt’al più, erano caratterizzati da un diverso uso sintattico, essendo gli ultimi due impiegati soprattutto in funzione aggettivale).


Negro, fra i tre, era certamente quello più storicamente attestato, più semanticamente pregnante. Tradizionalmente, identificava una presunta «razza» (la «razza negra», o «i negri», appunto) a cui nei secoli erano state attribuite precise e specifiche caratteristiche, sia fisico-somatiche sia morali (ancora negli anni Cinquanta – anni in cui cominciò a vacillare lo stesso concetto di «razza» – era possibile leggere sullo Zanichelli che «i negri» erano “popoli d’Africa di colore scuro… con cranio stretto e alto, prognatismo… collo grosso, pelle grossolana, statura piuttosto alta, vivaci, facile da imitare…»). Veicolava giudizi di inferiorità. Ed evocava secoli di «razzismo», e di crimini commessi in suo nome. Tuttavia, poteva essere utilizzato – soprattutto, in funzione aggettivale – senza provocare scandalo, o senza essere ritenuto necessariamente offensivo (cfr. F. Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del diverso in italiano e nei dialetti, Milano, 2004, pp. 99 sgg.).


Solo all’inizio degli anni Settanta, in seguito alle lotte dei «neri» americani, alcuni traduttori avrebbero cominciato a bandire l’uso di negro in favore di nero, che pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black, assurto a simbolo e parola-chiave dei movimenti per i diritti delle minoranze negli Stati Uniti («Black power», «Black is beautiful»). Cominciò anche a diffondersi l’espressione di colore, calco dall’anglo-americano coloured (che dagli anni Trenta aveva vissuto alterne fortune: cfr. K. Johnson, «The vocabulary of race», in Rappin’ and stylin’ out. Communication in Urban Black America, a cura di T. Kochman, Chicago, pp. 140 sgg; H. Mencken, The American Language, New York, 1985, p. 381). Ciò non inibì, comunque, la circolazione di negro, che anzi negli anni Ottanta poteva essere usato – con pretesa di neutralità – dai più importanti media nazionali in relazione al fenomeno dell’immigrazione, e alla crescente presenza, in Italia, di immigrati provenienti – in prevalenza – dall’Africa, e quindi «negri» o «neri» per definizione (da un articolo di «Epoca», del 13 dicembre 1987: «... il 24 per cento degli italiani non vorrebbe avere una relazione sentimentale con un negro...»; cfr. Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia, a cura di L. Gariglio, A. Pogliano, R. Zanni, Bruno Mondadori, 2010, in particolare pp. 103 sgg.).


Qualcosa probabilmente cambiò con l’inizio degli anni Novanta, quando importammo il dibattito sul «politicamente corretto» dai paesi anglosassoni (cfr. E. Crisafulli, Igiene verbale. Il politicamente corretto e la libertà linguistica, Roma, 2004; Geoffrey Hughes, Political correctness. A history of Semantics and Culture, London: Wuley-Blackwell, 2010; R. Fresu, Politically correct, in «Enciclopedia dell’Italiano», diretta da R. Simone, Vol. 2, Roma, 2011, pp. 1117-1119). Con degli esiti sia sull’asse paradigmatico – nella scelta, cioè, fra negro, nero, di colore (o afro-americano, che però da noi ha attecchito solo in certi contesti d’uso, e in certi registri) – sia, più in generale, nella percezione del rapporto tra lingua e società, e tra usi linguistici e sensibilità (individuali e collettive). Ricevendo quindi non soltanto indicazioni – secondo alcuni, prescrizioni – lessicali (ad esempio, l’interdizione dei vocaboli anglo-americani negro e nigger, che ha certamente avuto dei riflessi nell’interdizione dell’italiano negro), ma soprattutto spunti di discussione sul valore discriminante di alcune categorie ed etichette verbali all’interno di una società complessa, dove i rapporti di forza e di potere tra la maggioranza e le minoranze passano anche attraverso il linguaggio.


Quale che sia l’opinione rispetto al movimento del «politicamente corretto» e alle sue rivendicazioni, è stata probabilmente questa maggiore attenzione all’uso delle parole (e alle loro ripercussioni sociali, con l’innescarsi di atteggiamenti di stigma, o di fenomeni di interdizione), seppur indotta, ma suscitata non a caso nei decenni in cui il fenomeno dell’immigrazione ci ha messo di fronte alla presenza dell’«altro», a far sì che negro, oggi, appartenga ormai alla sfera del vituperio. Perché è nella prassi che negro è generalmente avvertito dai parlanti come offensivo, discriminante: sia da chi lo utilizza, consapevolmente, per insultare (ad esempio, in binomi lessicali pressoché fissi come «sporco negro», «negro di merda»), sia da chi lo riceve, come epiteto (cfr. J. Butler, Parole che provocano, Milano, 2010; Federico Faloppa, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Laterza, 2011, pp. 17 sgg.). E sia da chi, pur obiettando che esso è etimologicamente giustificato, e sottoposto a censura solo per motivi di fastidiosa pruderie linguistica, avverte la necessità di sostituirlo con nero, consapevole tanto delle connotazioni legate storicamente a negro quanto delle norme sociali che ormai ne regolano l’uso. Certo, sarebbe bene – come sempre, in fatto di lingua - non prescindere dai contesti, dalle intenzioni del parlante, o dai tratti sovrasegmentali (come l’intonazione). Ed evitare, in ogni caso, tentazioni censorie o posizioni isteriche (come quella di quel tale che un giorno – il racconto è autentico - in piscina sentì un ragazzino che urlava «negro, negro», gli si avvicinò indignato per rimproverarlo, e si sentì rispondere: «ma sto chiamando il mio amico: si chiama Negro di cognome»). Tuttavia, negro resta indubbiamente un termine problematico: occorre tenerne conto.


Quanto a nero o di colore, il dibattito è tuttora aperto. L’espressione di colore – da molti ritenuta neutra e priva di connotazione negativa – è stata in anni recenti messa sotto accusa. In proposito, si ricorderà la poesia anonima, circolata ampiamente sul web con intento ironico-polemico, Uomo di colore («Io, uomo nero, quando sono nato ero Nero/Tu, uomo bianco, quando sei nato, eri Rosa/Io, ora che sono cresciuto, sono sempre Nero/Tu, ora che sei cresciuto sei Bianco/Io, quando prendo il sole sono Nero/Tu, quando prendi il sole sei Rosso/Io, quando ho freddo sono Nero/Tu, quando hai freddo sei Blu/Io, quando sarò morto sarò Nero/Tu quando sarai morto sarai Grigio/E tu mi chiami uomo di colore»), o anche, forse, il vivace battibecco, negli Stati Uniti, tra il senatore Harry Reid e il giornalista Cord Jefferson, rispettivamente contro e a favore dell’uso del termine colored. In attesa di uno studio che dell’espressione ci fornisca, tanto in diacronia quanto in sincronia, contesti, occorrenze e co-occorrenze, frequenze d’uso, si fa strada la sensazione che il significato di di colore – eufemismo adottato per sostituire l’offensivo negro – invece di essere percepito come neutro, metta l’accento proprio sulla caratteristica (il colore della pelle) che si vorrebbe non evidenziare e non discriminare. E quindi si tende a preferire nero, in generale, per indicare tutte le gradazioni più scure del colore della pelle.


Detto questo, anche il termine nero non è privo di connotazioni ambigue. Quando usato come sostantivo per identificare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della pelle, rischia anch’esso di creare una categoria approssimativa, omogenea e omologante («i neri», «le nere»), basata non solo sul contrasto cromatico, ma anche – è sensazione di chi scrive – sulla mancanza, difettiva, di alcuni tratti (tanto fisici quanto culturali tout court) che si presume appartengano al gruppo (bianco) di maggioranza. Quando usato come aggettivo, rischia di apparire sovrabbondante: di essere usato, cioè, anche quando non ce ne sarebbe bisogno (ad es. Il cameriere nero ci ha serviti).


Il punto vero, infatti, è che – al di là di opzioni più o meno accettate – sarebbe meglio specificare il colore della pelle solo se effettivamente necessario ai fini della comprensione del messaggio o dell’informazione che si vuole trasmettere. Non certo per nascondere una caratteristica fisica; semmai – al contrario – per non rimarcarla quando non serve. Come si fa, d’altronde, comunemente con tutte le altre pigmentazioni: quante volte ci è realmente capitato, o ci capita – e la domanda è retorica – di dover specificare che qualcuno è "bianco", o appartiene al gruppo dei "bianchi"?»

http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/nero-negro-colore
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