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Vecchio 13-11-2007, 22:08   #21
Esperto
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NICK CAVE and The Bad Seeds

<< The Good Son >>


Video ------------------>


Vecchio 18-11-2007, 01:57   #22
Principiante
L'avatar di orangemoon
 

Mama's Gun di Erykah Badu
2000 Motown Records

...(i am a warrior princess from the other sun.i have traveled long&far,
i have come for the strongest king in your world)..i want somebody
walk up behind me and kiss me on my neck and breathe on my neck....

if you want to feel me better be divine
bring me water for my mind
give me nothing
breathe love in my air
don't abuse me cause these herbs are rare
Vecchio 23-11-2007, 19:57   #23
mefiori
Guest
 



STEVE VON TILL - If i should fall to the field

Oltre qualsiasi apocalittico sentimento di rabbia e disperazione si colloca il nuovo lavoro solista della sciamanica voce dei Neurosis.
Un affresco intimista in cui l’abbandono e la sofferenza giocano un ruolo drammatico ed evocativo.
Basterebbe citare le iniziali Breathe e To the field, per sancire senz’ombra di dubbio che ci troviamo di fronte all’opera di uno chansonnier maturo, che sa come racchiudere sapientemente le proprie emozioni in una manciata di preziosi minuti.
Già nel primo episodio, As the crow flies, Steve ci aveva insegnato come forgiare brani lenti ma sofisticati e affamati di solenne malinconia.
Stavolta però, il lavoro di cesello investe le tracce con delicate intrusioni di banjo e hammond.
Il risultato è una scheletrica ma efficace trama su cui s’innalza, poderosa e lancinante, la voce di Steve Von Till.
Tra folk, blues e un oscuro mood country, l’autore presta un’attenzione calibrata sul sapore amaro di ballate struggenti e senza tempo, canti d’abbandono, elegie che affondano le proprie radici in suggestioni lontane, nel fascino ancestrale della terra e delle storie che essa narra.
Qui non troverete il rovente magma musicale o la violenta furia hardcore dei primi Neurosis, né la psichedelica inquietudine del loro ultimo album.
No, nell’arco di dieci fragili tracce, viene scandita una serie di funerei rintocchi per chi è caduto al tappeto.
Per chi non potrà più rialzarsi.
In un certo qual modo, queste prove soliste servono a rendere più concrete, a donare uno spessore aggiuntivo, alle uscite della band madre.
Se non temete di esporvi al vento della disperazione, se non avete paura di scoprirvi soli sul nostro pianeta, allora If i should fall to the field fa proprio per voi.
Vecchio 11-01-2008, 18:35   #24
Principiante
L'avatar di BluAstro
 

Ciao a tutti,
fatevi un regalo; ascoltate il primo album di Tricarico!
E' qualcosa di meraviglioso e commovente..



Vecchio 12-01-2008, 15:21   #25
Esperto
L'avatar di Amylee17
 

NICK CAVE and The Bad Seeds:

Tender Prey



Vecchio 12-01-2008, 15:35   #26
Esperto
L'avatar di Amylee17
 

Leonard Cohen:

The Essential







Vecchio 03-02-2008, 10:56   #27
Esperto
 

Illinois - Sufjan Stevens Invites You To: Come On Feel The Illinoise (Rough Trade / Self, 2005)





Sufjan Stevens
Vecchio 03-02-2008, 12:54   #28
Esperto
 




Paranoid Park Soundtrack

Nino Rota - "La Porticina Segreta"
Ethan Rose - "Song One"
Robert Normandeau - "La Chambre Blanche"
Francis White - "Walk Through Resonant Landscape #2"
Elliott Smith - "The White Lady Loves You More"
Cool Nuts feat. Six and Aniece - "I Heard That"
Ludwig Van Beethoven - "Symphony No.9, Op 125, Adagio Molto Cantibile"
Cast King - "Outlaw"
Eric Hill - "Guitar Strumming FX"
Nino Rota - "L'Arcobaleno Per Giuletta"
Henry Davies - "Tunnelmouth Blues"
The Revolts - "We Will Revolt"
Ethan Rose - "Song Three"
Bernard Parmegini - ""Dedans Dehors"
Ethan Rose - "Song Two"
Nino Rota - "Il Giarino Della Fate"
Nino Rota - "Rugiada Sui Ranocchi"
Nino Rota - "La Gradisca E Il Pricipe"

Billy Swan - "I Can Help"
Menomena - "Strongest Man In The World"
Vecchio 14-02-2008, 14:36   #29
Intermedio
L'avatar di Innergal
 



THE ALAN PARSONS PROJECT
Discografia.

“Passato alla storia come l'ingegnere del suono del bestseller floydiano "The Dark Side Of The Moon", Alan Parsons ha costituito il suo personale "progetto" attorno a un rock sinfonico, in grado di unire strumenti classici alle più moderne tecnologie elettroniche, sfornando alcuni album interessanti e fornendo un notevole impulso alla evoluzione delle tecniche di registrazione.”

A mio parere, gli imperdibili sono :
I Robot
Eye In The Sky
Ammonia Avenue
Pyramid
Tales Of Mistery And Imagination (1976)
The Turn Of A Friendly Card
Freudiana (1990)

Dei suoi dischi più recenti, salverei solo:
Call of the wild (contenuta in “The Time Machine”, ’99)
Comincia quasi in sordina, per innalzarsi in un flusso cadenzato e struggente.

http://www.geocities.com/SunsetStrip...998/index.html
Ci sono testi e traduzioni.



Goldfrapp
Felt Mountain (2001)

“Prendete arrangiamenti dimessi e spettrali alla Portishead, conditeli il gusto etereo-onirico dei Cocteau Twins e con il lato più sensuale di Bjork, immergete il tutto in paesaggi sonori morriconiani e in atmosfere jazzy da colonne sonore anni Sessanta, e avrete l’essenza sonora di "Felt Mountain", brillante disco d'esordio dei Goldfrapp.
Oltre a "Lovely Head" — a incantare è soprattutto "Utopia", un’altra melodia struggente condotta dal dolce soprano di Alison attraverso un mare di effetti elettronici, riverberi e dissonanze.
Un’atmosfera incantata, insomma, "come se Alison Goldfrapp, severa dama dallo sguardo assente e dai folti boccoli biondi, non fosse umana, ma creatura mitologica regina delle montagne e dea dei boschi. Una regina dei ghiacci che si aggira per valli sconfinate, monti innevati, distese accecanti di neve, sospesa in aria da ali invisibili; con la sua voce leggera e malinconica che sussurra parole che percorrono spazi infiniti, fino a conquistare la mente, come il canto stregato di una sirena".

Caldamente consigliato anche l'album "Seventh Tree", uscito l'anno scorso. 8)




Cocteau twins
Treasure (1984)

I maestri di quello che proprio a partire da loro verrà definito "dream-pop".
Magia allo stato puro, “Treasure” è dominato dai gorgheggi ammalianti della voce femminile.




Dead Can Dance
Within The Realm Of A Dying Sun (1987)

è il loro disco "gotico" per eccellenza.
“In the wake of adversity” è un piccolo gioiello.
Da non perdere anche l’omonimo album d’esordio.
Vecchio 14-02-2008, 21:26   #30
Esperto
 

Neutral milk hotel - In the aeroplane over the sea



Il 10 febbraio di 10 anni fa usciva questo disco, senza farsi notare. In 10 anni però, questa unica e irripetibile gemma ha saputo scavare nei cuori di tantissime persone, che lo hanno scoperto grazie ad un passaparola incessante e gli hanno fatto guadagnare lo status di album di culto. Jeff Magnum, anima dei Neutral milk hotel, ha preferito lasciarsi risucchiare dalle sue paure e rimanere da allora in silenzio, forse schiacciato dal peso di questo disco perfetto e abbagliante, incapace di concepirne un degno seguito. Fra il re dei fiori di carota, il bambino a due teste e il fantasma di Anna Frank che aleggia, l'universo dell'areoplano è un po' così: capace di trasportarti in un mondo senza tempo, fatto di una scarna chitarra acustica e di un caleidoscopio di ottoni e arrangiamenti obliqui, ma soprattutto da una voce metafisica, unica, carica di dolore e capace di sublimare tutto in un sogno dal quale, una volta entrati, non si vuole più uscire.
Vecchio 24-02-2008, 10:58   #31
Esperto
 

Cassandra Wilson - Traveling Miles



Ogni volta che ascolto la sua voce mi vengono i brividi, veramente una voce dell'anima.

Vecchio 13-03-2008, 04:57   #32
y
Banned
 

oh che bello una sezione per la musica!
nessuno ha ancora menzionato l'album Grace di Jeff Buckley?
se posso consigliare merita asssolutamente almeno un ascolto.
un po' triste nel complesso (magari evitate di ascoltarlo nei giorni di depressione), ma alcune tracce sono meravigliose.
mi piange il cuore a pensare che è morto. era proprio bravo.

-> http://it.wikipedia.org/wiki/Jeff_Buckley

.
Vecchio 30-03-2008, 12:25   #33
mefiori
Guest
 

DEAD CAN DANCE - The Serpent's Egg




...
Vecchio 30-03-2008, 23:16   #34
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L'avatar di Rincewind88
 

Thick as a Brick Jethro Tull 1972

http://it.wikipedia.org/wiki/Thick_as_a_Brick


un album che ha fatto storia, rock prog e non solo, un album che non si può non ascoltare almeno una volta nella vita.
consiste in una unica canzone (scomposta in due parti) da ascoltare e ammirare

il video della versione (ridotta) live:
Vecchio 01-05-2008, 13:04   #35
Esperto
L'avatar di Milo
 

Io non sono un esperto di musica ma l'unico gruppo che mi piace veramente tanto è quello dei Delta V,bravi e mai banali. 8)

http://it.wikipedia.org/wiki/Delta_V
Vecchio 06-05-2008, 22:23   #36
Esperto
L'avatar di Rincewind88
 

Genesis
FOXTROT, un album semplicemente indimenticabile!

http://it.wikipedia.org/wiki/Foxtrot_(album)

http://www.attracco.it/immaginiascol...ont%5B1%5D.jpg
Vecchio 22-06-2008, 20:00   #37
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L'avatar di Amylee17
 

PORTISHEAD ----- Dummy



Recensione:

Dal laboratorio inglese di Bristol - fucina di uno dei movimenti più interessanti degli anni Novanta, il trip-hop - sono uscite molte accattivanti alchimie (da "Maxinquaye" di Tricky al trittico "Blue Lines"-"Protection"-"Mezzanine" dei Massive Attack). Solo una, però, è riuscita a fissare in modo perfetto e definitivo l'"essenza" del genere. Trattasi, per l'appunto, di "Dummy", disco d'esordio dei Portishead (dal nome del paese in cui Geoff Barrow, mente della band, trascorse la giovinezza).

Griffato in copertina dalla tipica "P" formato gigante che caratterizzerà tutte le produzioni della band (ovvero un altro buon disco, "Portishead", e l'ottimo "Live in Roseland, New York"), "Dummy" è una sorta di "classico moderno". Un disco senza tempo, forse proprio perché sempre in bilico tra passato e futuro. Come un film in bianco e nero, girato con le tecniche più avanzate di fine Millennio.

Mai forse come in questo caso, l'uso del termine "cinematico" si adatta a definire un sound che fa dell'ideale connubio suoni-immagini la sua chiave di volta. Può fare da sottofondo a un viaggio notturno o a un incontro d'amore. Può animare le sequenze di una spy-story o di un thriller di Lynch (do you remember "Twin Peaks"?). Ma può essere anche la colonna sonora di un film di fantascienza post-atomico, per lo spirito lugubre e decadente che lo pervade. D'altra parte, gli stessi Portishead hanno voluto mettersi alla prova dietro la macchina da presa, realizzando il cortometraggio "To Kill A Dead Man".

L'idea-cardine di Barrow e compagni è la rielaborazione di vecchi motivi di film noir e di spionaggio, mescolati a spunti jazzy-lounge e ritmi hip-hop rallentati, e immersi in atmosfere desolatamente romantiche. Per il resto, l'architrave sonora di "Dummy" è quella tipica di tanto trip-hop a venire: massiccio utilizzo di sample e scratch (i suoni ottenuti strofinando la puntina sul vinile dei vecchi 33 giri o dischi mix), giri di chitarra presi in prestito dagli spaghetti-western anni 60, ampie sezioni di archi, bassi cupi, sintetizzatori "moog" e un organo hammond ad aggiungere un ulteriore tocco "vintage". Ma su questo impasto di suoni svetta il canto dolente e spettrale di Beth Gibbons, ribattezzata audacemente "la Billie Holiday venuta dallo spazio" (e autrice nel 2002 di quello splendido debutto solista dal nome di "Out Of Season"). La sua voce è capace di improvvise escursioni di registro: può essere tesa, metallica, straziante; ma anche calda e sensuale, come nel lento "Glory Box", dolente dissertazione sulle tribolazioni delle donne, o nell'iniziale "Mysterons", che parte con un piglio da bolero e finisce avvolta tra le spire di sonorità sempre più suadenti, tra strimpelli di chitarre e soffici tappeti di tastiere. Il climax emotivo dell'intera raccolta è però il singolo "Sour Times", sorta di "atto di contrizione" dall'incedere mesto e dalla melodia sontuosa, con una Gibbons disperatissima che grida al vento "'Cause nobody loves me/ It's true/ Not like you do...", sulle note di un'orchestra spettrale. Un pezzo memorabile, che sarà finanche migliorato nella straziante interpretazione dal vivo di "Live in Roseland, New York".

L'impronta jazz, portata in dote dall'eclettico Adrian Utley, appare più evidente in tracce come "Strangers" e "Pedestal"; la prima, in particolare, svela anche l'opera certosina compiuta in studio dai Portishead, con il suo susseguirsi di raffinate digressioni sonore - dal soul alla bossa nova - e variazioni di ritmo (con tanto di "stop&go" sincronizzati col canto di Gibbons). "Roads" abbina i gemiti delle chitarre a un'orchestrazione retrò, sospinta da archi solenni: l'effetto è di grande suggestione, come a voler introdurre il colpo di scena in un ideale film.

Il lato più tenero della band si esalta nella malinconica "It Could Be Sweet", in cui il soprano di Gibbons riesce a gonfiare d'emozione quasi ogni sillaba della strofa "Try a little harder...". Propulso da ritmi ossessivi - anche mediante l'uso di un tamburo africano - "Numb" è un altro numero d'alta scuola della vocalist, che riesce a fluttuare sapientemente tra le note con vocalizzi a` la Sade. E' invece una raffinata chanteuse da cabaret quella che si cala nel lied incalzante di "Wandering Star", avvolta in una coltre di sibili elettronici e di scratch, con il solito basso dub a reggere il gioco.

"Pedestal" e "Biscuit" danno voce ai fantasmi di quell'ansia latente che è un altro marchio di fabbrica della ditta Portishead, conducendo l'ascoltatore lungo un cunicolo di oscuri meandri sonori, costruiti su una struttura ipnotica e ossessiva. "Biscuit", in particolare, accentua la componente ritmica del sound, scatenando una tempesta di beat sincopati e pulsazioni hip-hop, con le folate gelide delle tastiere sullo sfondo. Forse solo "It's A Fire", con la voce di Gibbons che miagola un po' troppo su un accompagnamento d'organo, abbassa per un attimo la qualità di un disco praticamente perfetto.

"Dummy" è sì il manifesto definitivo della rivoluzione trip-hop – paragonabile per importanza a quella parallela della techno - ma anche l'opera che più di ogni altra travalica i confini di quel genere, per approdare nei territori di una musica tanto retrò (nell'animo) quanto moderna (nell'approccio). L'opera dei Portishead affonda le radici nella mestizia del blues e nelle confessioni a cuore aperto del soul; assorbe l'angoscia della dark-wave, la rabbia dell'hip-hop e l'ossessività della techno. E riesce a rivestirle in ballate di rarefatta eleganza, grazie anche a un gusto orchestrale mai sopra le righe. Chi vede lungo i solchi di "Dummy" nient'altro che semplici "canzoni", magari arrangiate in modo ammiccante e "alla moda", fa un torto, prima ancora che ai Portishead, ai loro veri padri putativi: Ennio Morricone, John Barry e Angelo Badalamenti.
Vecchio 02-07-2008, 11:39   #38
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TIM BUCKLEY - Starsailor



Recensione:

E' bene dirlo subito, quella di Starsailor è una musica inavvicinabile. Perché è un eterno tramite, una consapevole espressione dell’arte musicale intesa nella totalità delle sue diramazioni e delle sue rappresentazioni; è il fluire della paura irrequieta poggiata sull’intima umanità del silenzio.
Il disco appartiene a quel tempo storico dove il magma caustico del free jazz aveva contribuito a nuova ispirazione per il rock colto, suggerendone l’estetica delirante di armonie e arrangiamenti alieni; Starsailor nasce come l’influsso sul rock della musica iconoclasta di figure come John Coltrane e Ornette Coleman, gli artefici di quel sound scapestrato e ondivago, flusso sonoro aggressivo che invade e fugge via.
Cosa girava in quel periodo attorno a Tim Buckley? C’era il lirismo obliquo di Bob Dylan ,ok, c’erano le acidità drammaticamente morbide della California di Grateful Dead & Jefferson Airplane, c’era il progressive meno elfico di stampo frippiano ( che paradossalmente finiva per standardizzare i puntuali momenti di vuoto/pieno silenzio/rumore, atonalità effimere e batterismo tremolante ) , c’era il jazz rock inglese onnivoro perfetto. Mancava però quella poetica della paura, dell’instabilità esistenziale, la frustrazione del dubbio, mancava la giocosità sullo strumento più proprio dell’essere umano; mancava la capacità musicale di identificare realtà e sogno e di considerare i sentimenti contrari intrinseci ad esse, la stessa fugacità degli stati d’animo, il conflitto e la catarsi.
Tim Buckley era la sua musica. Era schivo e timido, ma non era il disincanto di Nick Drake o la serietà di Jim Morrison. Starsailor è così un salto nella complessità dell’anima, un pugno in pancia e una carezza sulla guancia, assalto psico-fisico viscerale.
Il disco vede la luce nel 1970, dopo le musiche strabilianti contenute in Goodbye and Hello, Happy Sad, Blue Afternoon, Lorca. E’ il passo più difficile quello che Tim si accinge a fare per la produzione di un disco che potrebbe speculare sul sound inusuale dei primi dischi, dove chitarre free-folk eteree si mescolano alla voce bluesy,quasi gospel, tra canti smaliziati e abuso di vibrafoni e chitarre inacidite e organi funerei. Laddove Happy Sad e Blue Afternoon tentavano già un allontanamento dalla forma canzone,seppur conservando la sobria leggerezza di uno spirito non ancora lacerato, Lorca si poneva già come esplorazione metafisica del linguaggio sonoro, che diventava spigoloso ed evocativo come mai fu prima,onirico nel suo lasciarsi condurre in divagazioni melliflue dalle cinque ottave di Tim.
Starsailor si pone come ideale sintesi di tutto questo, ma nell’essere sintesi del particolare percorso artistico di un uomo, rimane ancora un punto di partenza per chiunque altro, un tramite che non verrà forse mai inglobato da nessuno, inaccostabile per grandezza ed eterogeneità. Eterno, si diceva.
Il disco viene registrato nel settembre del 1970. Segna il ritorno dell’amico poeta Larry Beckett, l’entrata in campo di una sezione fiati di stampo zappiano (i fratelli Gardner) e della batteria di Maury Baker; la chitarra elettrica è sempre territorio di Lee Underwood, così come il contrabbasso di John Balkin.
“ComeHereWoman” svela troppo presto la magnificenza del disco: accordi-suspence in un climax ascendente, tambureggiare molesto e pulsioni squilibrate di chitarre, organo plumbeo che sfila insieme al vociare di un cantato messianico; se l’inizio del pezzo è l’invocazione della morte, il proseguo si sviluppa come il rifiuto deciso a essa, una lunga elucubrazione di voce elastica su un rozzo blues alcolico e orpelli di jazz impazzito, un grido che atterra nel vuoto dell’esistenza e termina col placarsi dell’ardore tra le morbide confidenze di caldi armonici di chitarra. “I WokeUp” sembra schiudersi ai raggi del sole e alla malinconia più sobria; ma“Monterey” è già la seconda discesa nella fisicità del lamento, una libero flusso di coscienza che incolla sussurri e grida, che confina l’esagitarsi vocale di Tim a protagonista impetuoso dell’intera opera. Scatti,curve a gomito, isterico dimenare ultrasuoni dalle profondità della psiche: Tim Buckley ora fa con la voce quello che faceva Coltrane con il sax. “Moulin Rouge” riconduce l’altalena sonica di Starsailor su atmosfere di placido candore, con il suo incedere sornione da zuccherosa ballata jazz canticchiata come si fa con una filastrocca.
“Song To The Siren” è semplicemente la perla nascosta dell’underground west-coast: canto d’amore che si propaga dal fondo del mare, tra echi lontani di voci sognanti e riverberi ovattati e gocce di chitarra. E’ la sublimazione in tono estatico del sentimento malinconico che trasuda dalla musica di Tim Buckley: “Should I stand amid the breakers?/ Should I lie with Death my bride? /Hear me sing , "Swim to me, Swim to me, Let me enfold you/ Here I am, Here I am, Waiting to hold you".”
“Jungle Fire” riprende inizialmente la lentezza squilibrata e dilatata di I woke up, accelerando sul finale con un ritmato blues chitarroso e intriso di strati e substrati di voci cosmiche a vortice,che preparano l’ingresso alla ennesima gemma: Starsailor è il punto di non ritorno del disco, è un vero e proprio studio sulle prospettive armoniche della voce, che si divide in sedici tracce riprodotte in parallelo,stratificate,asincrone,effettate. Tim Buckley dà suono all’Urlo di Munch, ne canta le profondità di campo,la tortuosità delle linee paesaggistiche e la violenza che emana l’orizzonte rosso; è una musica che pulsa di morte, di angoscia. Litania sbilenca. Allucinata divagazione vocale. “Healing Festival” percorre l’ignoto,ancora, tra riff che san tanto di Black Sabbath e libere divagazioni di sax e voce. “Down By The Borderline” è il riflusso verso i pezzi più leggeri. Il disco sta per concludersi; la musica, beefhartiana ormai , non riesce ancora a non subire il declassamento dalla voce di Tim Buckley, che segue la tromba in un assolo senza freni. La musica cessa e con essa il sogno che sapeva essere encomio e biasimo; finisce la musica dell’irruenza nata su un cuore di fragilità.
Starsailor è inavvicinabile, adesso. Come il suo cantore, che non seppe più trovare lo stessa strada verso l’assoluto, come i rari epigoni che si misero umilmente nella scia della sua polvere magica;
e dopo questo disco il declino dell’ aedo Tim arrivò puntuale come l’insuccesso che tanto lo distruggeva, fino all’ineluttabile destino di un uomo che era solito cantare melodie troppo
Vecchio 04-07-2008, 12:51   #39
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TIM BUCKLEY - Happy Sad



Recensione:

Quella di Tim Buckley non è solo musica, non può essere imprigionata nelle vane catalogazioni di folk, di rock, di psichedelia…L’opera di Buckley è pura sensazione, è la sublimazione della malinconia, è l’idea più astratta che possiamo concepire di melodia, di suono. È qualcosa di magico, per dirla tutta, un album di Tim Buckley.
Anche quando, come in questo Happy Sad, il nostro artista non si lascia andare alle sperimentazioni più coraggiose, quelle presenti per esempio in Lorca e Starsailor, riesce comunque a dare alla sua musica una connotazione altamente innovativa ed inusuale. Il suo folk, termine derivante da folcloristico, e quindi di radici popolari, si eleva ad un classicismo e ad una raffinatezza che, al contrario di come dovrebbe essere, risultano essere di matrice colta, difficilmente apprezzabili dalle masse, incapaci di star dietro alla sua spasmodica ricerca di un limite da sorpassare e di una qualche nuova influenza da assorbire. Non era Bob Dylan, ecco tutto.
Forse è proprio per questo che la figura di Tim Buckley è stata per lungo tempo quella del genio incompreso, finito vittima della sua stessa tensione a superare i limiti ed alla sua vocazione di trascendere il mondo fisico.
E sono proprio queste due caratteristiche ad essere evidenti nella sua musica.
E in Happy Sad.
Come non notarli per esempio in Strange Feeling? L’apertura onirica del brano lascia spazio all’incredibile voce di Tim, sostenuta dalla chitarra acustica e dal vibrafono, che da questo momento in poi partirà con i suoi ardui vocalizzi, che sembrano voler essere lo specchio dell’anima del cantante stesso. Appassionata, instabile, potente, sommessa, acuta, la voce dipinge ogni tipo di sensazione. Un assolo delicato e limpido da maggiore forza al pezzo, incatenandoci al suo progredire quasi improvvisato, libero dalle strutture tradizionali della forma canzone.
Chitarra e vibrafono si rincorrono a lungo per concludere questo primo grande pezzo.
Con Buzzin’ Fly abbiamo la conferma assoluta del genio di Tim Buckley,capace di regalarci mille sorrisi con la semplicità disarmante di questo pezzo. L’intensità di gioia sprigionata dall’assolo iniziale di chitarra elettrica e da quel magnifico tappeto di vibrafono è incredibile. La voce è nuovamente da pelle d’oca, riuscendo ad essere espressiva come poche altre sono state capaci nella storia della musica rock. Le sue qualità di songwriter sono così più che consolidate.
Love From Room 109 At The Islander (On Pacific Coast Highway) è una lunga composizione malinconica e sommessa, di incredibile delicatezza, dove l’esecuzione di Tim sembra cavalcare un flusso di pensieri improvvisato . Pare quasi di ascoltare un sogno, vista l’ineffabilità di fondo e l’infinità di piccole variazioni presenti durante i quasi 11 minuti di musica. Il vibrafono poi è essenziale per immergere il tutto in un’atmosfera fantastica. Il suono delle onde dell’oceano, nel frattempo, continua a lambire le coste della Pacific Coast.
Ed eccoci a Dream Letter, dove viene riproposto il tema del sogno, una costante nell’opera di Buckley. Veniamo ora catapultati nella tristezza più nera, sempre fluttuante in una profonda impalpabilità, quella propria del sogno per l’appunto, amplificata dai lamenti trascinati di un violoncello.
Arriviamo ora a Gipsy woman, vero culmine dell’arte di Tim Buckley, che ci giunge attraverso i ritmi tribali delle percussioni e il rintocco del contrabbasso, e presto anche la chitarra inizia il suo singhiozzo di note. La voce di Tim rimane dapprima in sottofondo, lasciando libero sfogo agli strumenti, impegnati in un incalzante free-jazz tribale. Sempre più coinvolgente. Ed eccola potente più che mai la voce, quella voce bellissima ed ispiratissima, pronta a ruggire, ma anche a concedersi attimi di contemplazione assorta, sempre nel segno della sperimentazione e nel tentativo di esplorare i limiti dell’estensione vocale (immensa d’altronde). E da qui non possiamo far altro che lasciarci ipnotizzare da questa frenetica e coinvolgente ondata “free” di suoni, ritmi e vocalizzi.
Il commiato è affidato alla breve Sing A Song For You, immancabile ballata spleenetica, con cui abbandoniamo il magico mondo di Buckley.
Sospesi tra tristezza e felicità certo.
Ma, grazie a Tim Buckley, con nuovi occhi con cui ammirarle e con nuovi orecchi per ascoltarle.
Vecchio 04-07-2008, 12:52   #40
Esperto
L'avatar di Amylee17
 

TIM BUCKLEY - Lorca



Puntualmente ignorato da critica e pubblico, Tim Buckley partorisce nel '70 quello che forse e', insieme a Starsailor (1971), il suo lavoro piu' geniale e visionario. La forma-canzone canonica, che imperava nei gia' notevoli "Tim Buckley" (1966) e "Goodbye ad Hello" (1967), viene qui dilatata e filtrata attraverso l'asimmetrico e abissale romanticismo che costituisce la parte piu' autentica del cantautore Buckley. Inutile cercare di ricondurre la sua musica a uno schema preconcetto, a un genere; lui se ne e' sempre fregato del music-business (che lo ha sempre ricambiato) e non ha mai cercato altro che la libera espressione di se' stesso, al di la' di qualsiasi logica commerciale. E' scritto a chiare lettere gia' fin dal primo pezzo (title-track) in cui incredibili decelerazioni vocali si stendono su un tappeto sonoro a tratti sconnesso e irregolare, solcato da un ipnotico giro di chitarra che conferisce all'insieme toni onirici di inquietante bellezza. La voce strumento di Tim Buckley si muove sinuosamente attorno all'incisivo fraseggio di organo creando un effetto di crepuscolare morbidezza. Ancora piu' sognante, se possibile, e' il secondo pezzo "Anonymous proposition", senz'altro piu' minimale e disarmonico. Qui la voce e' la vera protagonista, e lo sfondo sonoro e' perlopiu' scarno: a parte qualche accelerazione sonora, la voce e' supportata unicamente da brevi orgie di rintocchi di chitarra e organo. Qui non c'e' nulla di inquietante, e l'atmosfera e' dominata da una semplicita' che rievoca scenari notturni appannati e dormienti, al chiar di luna. La seguente "I had a talk with my woman" e' formalmente piu' vicina al concetto di "canzone" rispetto alle due precedenti; gli accordi sono piu' razionali e si puo' individuare una melodia precisa, cosa che non era possibile fare con le prime due canzoni. Anche qui tutto e' imbevuto di un forte romanticismo che riporta la mente a lunghe passeggiate notturne in riva al mare; anche qui Tim Buckley crea musica che vibra all'unisono con le dinamiche mentali che presiedono al sogno e al ricordo. Lo stesso si puo' dire di "Driftini", mantra rallentato e confidenziale di sapore abbastanza malinconico. L'ultimo pezzo, "Nobody wolkin", si discosta parecchio dal resto dell'album: i tempi sono accelerati e segnati da una ritmica scoppiettante, la voce e' piu' lanciata e nervosa come del resto il supporto strumentale. Tim da' ora libero sfogo al lato piu' selvaggio e aggressivo del suo carattere accantonando, per il momento, romanticherie varie e partorendo questo pezzo ubriaco e zingaresco.
Si conclude cosi' un album unico, creato esclusivamente a misura dei propri sentimenti da un'artista troppo spesso schivato dall'attenzione pubblica, forse troppo concentrata sui riccioloni di Robert Plant o sugli eccessi di Mick Jagger. Ascoltarlo oggi, a distanza di trent'anni, ci aiuta a comprendere ancora meglio quanto, troppo spesso, per il music business la sincerita' sia una pecca imperdonabile.
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