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Originariamente inviata da Angus
Volevo proporre una discussione su questo.
Mi riferisco alla mancanza di legami con ciò che avviene nella propria vita. Una persona evitante (che non è una persona normale un po' timida, e nemmeno una persona normale ma anormale *) non solo non riesce a stringere rapporti personali, ma non prova nemmeno emozioni congruenti a quello che gli succede. Hanno un tono dell'umore piatto, oppure si emozionano in modo idealistico e non pragmatico. Proiettano personaggi, archetipi e schemi astratti (il romanticismo come la redpill) sulle persone in carne e ossa, prendono le situazioni (accettazioni, rifiuti, povertà, ricchezza, lavoro, disoccupazione, ecc.) per quello che non sono.
Di fronte alla prospettiva di un inserimento sociale forzato, gli evitanti mettono su tutta una serie di strategie mentali per continuare a schivare un vero confronto emotivo personale con gli eventi di vita. Che si tratti dell'una o dell'altra fede, del cercare una normalizzazione estenuante (così da risultare invisibili ed evitare attriti), di una razionalizzazione eroica di tutto, ecc.
Come arco di volta, mi sembra di capire, per alcuni o per molti c'è l'autoconvinzione/autoinganno di non star facendo ciò di cui sopra - altrimenti non funzionerebbe (se mi racconto di essere Topolino, non posso essere consapevole di starmelo raccontando, altrimenti l'inganno non regge).
Si tratta in realtà di una cosa che interessa un po' tutti, anche se in diversa misura. Al riguardo, c'è un interessante libro di Goleman ("Menzogna, autoinganno, illusione").
Che mi dite?
* Precisazione che potrebbe sembrare stramba, ma vista la decentratura psicologica generale mi sembra necessaria. Non siamo "come tutti ma diversi". Nessuno è "come tutti", ognuno è come prima cosa "io". Le somiglianze non si decidono ex-ante, ma si riconoscono eventualmente ex-post. Penso sia importante iniziare a riconoscersi prima di tutto individui.
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Però io non vedo alcun autoinganno, se una persona prova cose diverse dalla maggioranza è una cosa ben diversa dall'autoinganno.
Altra cosa è sostenere che uno prova certe cose e crede o sostiene di provarne altre, ma tu stesso dici che queste persone provano emozioni diverse.
Io ad esempio non ho la convinzione di provare quel che prova la maggioranza o la norma, di essere congruente con quel che accade come dici tu, e capisco pure che questa cosa crea e può creare disadattamento dato che diverse forme di condivisione saltano in aria, ma detto questo l'autoinganno dove sarebbe situato?
Provare qualcosa di congruente a quel che succede poi in soldoni che significa?
Chi stabilisce cosa è congruente e cosa no?
Mi sembra si possa risolvere la cosa solo a livello statistico.
Se un uomo vede una bella donna nuda, è più congruente eccitarsi o non eccitarsi?
Se la maggioranza si eccita è congruente provare queste cose qua.
Altrimenti no.
Per quanto riguarda l'etichetta di pragmatismo che vuoi appiccicare alle emozioni, ho diverse obiezioni da fare.
Le emozioni secondo me creano anche scopi, non sono solo cose che servono per fare altro, semplici mezzi, quindi per me anche dire che sono puramente pragmatiche rappresenta un errore a monte di certi strizzacervelli. La ragione può essere pragmatica, fissati degli scopi, ci può dire se si possono raggiungere o meno e come, le emozioni invece sono legate strettamente agli scopi esistenziali, li definiscono e li creano.
Una persona con certe emozioni fuori norma avrà un insieme di scopi e sottoscopi molto diversi da altre.
Se uno deve morire e non può farci nulla è più pragmatico accettare la morte placidamente provando emozioni positive o non accettarla comunque provando emozioni negative?
Cosa sarebbe opportuno provare in certe situazioni chi lo decide?
Insomma che significa che un'emozione è pragmatica?
Se è la paura stessa di morire a creare lo scopo "voglio vivere", come si fa a dire che l'emozione "paura di morire" è più o meno pragmatica e funzionale rispetto a questo scopo, magari lo crea e le due cose sono collegate.
Se ci sono certe emozioni certi scopi sono attivi, se non ci sono si disattivano anche gli scopi, quindi non sono sicuro che si possa appiccicare l'etichetta di funzionale alle emozioni per raggiungere gli scopi attivi, non rappresentano qualcosa di pragmatico attivano certi scopi le emozioni stesse.
Questi concetti sono stati messi in mezzo senza riflettere minimamente sulla questione, parlano di funzionale e disfunzionale, ma che significa che uno scopo è funzionale o disfunzionale? Sono gli scopi stessi che definiscono cosa funziona e cosa no per raggiungerli, non si può creare una definizione circolare del genere.
In un libro di problem solving (degli strizzacervelli ovviamente) ho letto ad un certo punto che gli scopi dovrebbero essere ridefiniti quando si vede che non si riesce a raggiungerli, ma ridefiniti in relazione a cosa?
Questa ridefinizione non si capisce che regole dovrebbe seguire e non si tratta più di problem solving a rigore, non è che se non riesco ad estrarre la radice quadrata di 2 mi dico "va be' ora invece della radice divido 2 per 2 che fa 1 così risolvo", ma cosa cavolo risolvo?
Un altro problema, non quello di partenza.
Un tizio che davvero non provasse più nulla probabilmente morirebbe, ma non è che le sue emozioni sono difunzionali rispetto ai suoi scopi. Il tizio quali scopi ha? Nessuno, visto che non prova nulla, siamo noi altri al più che vogliamo tenerlo in vita, non si ha a che fare con un funzionale o disfunzionale in relazione agli scopi del tizio in questione.