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Vecchio 26-11-2015, 21:12   #1
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La fobia sociale, sembra a me evidente (anche se non pretendo che quanto scriverò sia la verità, né che tutti condividano la mia impressione), è "causata" da chi ne soffre: esprime, più che un "disturbo", un atteggiamento (inconsapevole, molto spesso).

Atteggiamento di chiusura, infarcito di rabbia, recriminazioni, intolleranze... nei confronti degli atteggiamenti altrui e, spesso, del proprio atteggiamento di chiusura (che non intendo in alcun modo demonizzare: né "soffro" anch'io, e poi a che servirebbe?).

Alcuni autori (tra cui il più eminente, tra i viventi, mi sembra essere Luigi Anepeta) attribuiscono all'uomo due diverse "anime": una, rappresentante la comunità ("gli altri", o "l'altro generalizzato"), che punisce le eventuali trasgressioni - agite o semplicemente teorizzate - alle norme sociali (così come le si sono interiorizzate), inducendo fobie, depressioni, attacchi di panico... ed una, rappresentante l'individuo, che si fa carico del compito di difendere i diritti e cercare di realizzare i desideri del soggetto. I problemi insorgono quando tali "bisogni" vengono vissuti, dall'individuo, come inesorabilmente conflittuali, all'insegna del "mors tua, vita mea". Si darebbe dunque, nel profondo di ogni fobico, una spinta verso la differenziazione incanalata in direzione di un atteggiamento antisociale, interiormente punita con l'esclusione (che diventa auto-esclusione) dal gruppo.

Altri, decisamente più minoritari (ma con esponenti di spicco: Fromm, ad esempio), attribuiscono all'uomo adulto la capacità di farsi carico delle frustrazioni dell'esistenza; capacità che però non è innata, ma punto di arrivo di un percorso evolutivo la cui opportuna realizzazione comporta un'interazione con l'ambiente priva di traumi eccessivi (in rapporto alla capacità, sempre piuttosto relativa, dei bambini di tollerarli). I problemi insorgono dunque quando si adottano "difese" (dal dolore, da frustrazioni intollerabili) che al di là della fase evolutiva si rivelano rimedi peggiori del male ("disfunzionali"). Tra queste, vi è sempre una chiusura, più o meno apparente, nei confronti delle relazioni con gli altri: della propria sensibilità. Se si è emozionalmente indisponibili, non si può venire feriti. A questa si associa, spesso, l'illusione di poter avere un controllo sugli altri: la timidezza altro non sarebbe che un tentativo di "distorcersi" il cui fine è evitare l'esclusione (vissuta come intollerabilmente dolorosa). E non è forse l'indisponibilità relazionale un eccellente motivo perché gli altri ci escludano, offesi o semplicemente delusi?

Vittime, dunque, degli altri, senz'altro (almeno in passato), ma nel presente più che altro vittime (e carnefici spesso efferati) di sé.
Non intendo, sia chiaro, invitare nessuno a "svegliarsi", colpevolizzare chicchessia, negare il peso delle esperienze negative...

Che ne pensate?

Ultima modifica di Angus; 26-11-2015 a 21:22.
Ringraziamenti da
Emil (29-11-2015), feaanor (27-11-2015), Josef K. (27-11-2015)
Vecchio 26-11-2015, 21:33   #2
Esperto
L'avatar di Inosservato
 

non lo so, il sentimento di chiusura rivalsa e rabbia molte volte è semplicemente un trucco della mente che permettere di rendere accettabile un proprio limite o perlomeno questo è quello che credo di aver capito analizzando un pò il mio modo di ragionare
Ringraziamenti da
Ansiaboy (27-11-2015)
Vecchio 27-11-2015, 00:22   #3
Esperto
L'avatar di Weltschmerz
 

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Che ne pensate?
Mi sembra che manchino anelli di congiunzione tra i vari argomenti (es: Fobia-> ? -> auto-esclusione sociale).

Quote:
Originariamente inviata da Angus Visualizza il messaggio
Altri, decisamente più minoritari (ma con esponenti di spicco: Fromm, ad esempio), attribuiscono all'uomo adulto la capacità di farsi carico delle frustrazioni dell'esistenza; capacità che però non è innata, ma punto di arrivo di un percorso evolutivo la cui opportuna realizzazione comporta un'interazione con l'ambiente priva di traumi eccessivi (in rapporto alla capacità, sempre piuttosto relativa, dei bambini di tollerarli).
Più o meno d'accordo con questo.

Quote:
Originariamente inviata da Angus Visualizza il messaggio
I problemi insorgono dunque quando si adottano "difese" (dal dolore, da frustrazioni intollerabili) che al di là della fase evolutiva si rivelano rimedi peggiori del male ("disfunzionali").
Diciamo che sono funzionali nella situazione familiare, ma si rivelano disfunzionali fuori
Vecchio 27-11-2015, 00:54   #4
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Credo che gli autori citati,che non conosco(anche se immagino che siano considerati autorevoli), come gran parte dei pensatori moderni siano eccessivamente astratti e, almeno nel sunto sopra riportato ,troppo generici.
Basta farsi un giro su questo forum per capire che le dinamiche scatenanti la(le)fobie e i comportamenti evitanti, siano molteplici e complesse.
Inoltre trovo che associare timidezza e fobie non sia corretto. La timidezza è un fatto istintivo quasi naturale(credo che tutti abbiano un certo grado di timidezza),mentre la fobia e l'evitamento hanno delle connotazioni più mentali. Ci sono timidi che sono aperti agli altri. Ammettono apertamente la loro timidezza e ammettono il limite che essa impone.

Per venire al senso del 3d, io posso riportare il mio caso.
nel mio caso si,indubbiamente la componente di avversione per la società e l'altro, sono nati prima della fobia. E probabilmente hanno contribuito ad un certo punto a generarla.
Mi rendo anche conto che l'avversione stessa,o almeno una parte di essa, nasce dal fatto che io sono sempre stato diverso dalla moltitudine e ho sempre visto da parte dei molti una tendenza a impormi di uniformarmi a loro. Parte della mia avversione e chiusura all'altro nasce quindi come atteggiamento difensivo volto a salvaguardare la mia unicità,atteggiamento che io considero addirittura giustificato.

Non so se ho centrato l'argomento del topic, ma quando parto a scrivere vado di getto.
Vecchio 27-11-2015, 12:16   #5
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Alcuni autori (tra cui il più eminente, tra i viventi, mi sembra essere Luigi Anepeta) attribuiscono all'uomo due diverse "anime": una, rappresentante la comunità ("gli altri", o "l'altro generalizzato"), che punisce le eventuali trasgressioni - agite o semplicemente teorizzate - alle norme sociali (così come le si sono interiorizzate), inducendo fobie, depressioni, attacchi di panico... ed una, rappresentante l'individuo, che si fa carico del compito di difendere i diritti e cercare di realizzare i desideri del soggetto. I problemi insorgono quando tali "bisogni" vengono vissuti, dall'individuo, come inesorabilmente conflittuali, all'insegna del "mors tua, vita mea". Si darebbe dunque, nel profondo di ogni fobico, una spinta verso la differenziazione incanalata in direzione di un atteggiamento antisociale, interiormente punita con l'esclusione (che diventa auto-esclusione) dal gruppo.
In realtà,rileggendo questa parte più attentamente(ieri era tardi), devo dire che mi si addice parecchio...

Devo dire che la crisi credo nasca dall'impossibilità di trovare un compromesso tra le due "anime". Anche perchè "l'anima di collettiva" mi sembra richieda sempre di più. Sempre di più tenta di annientare l'individuo ormai schiacciato dalla necessità.
L'individuo infine si rifugia in se stesso,mandando a fanculo tutto e tutti...

Ultima modifica di cancellato16760; 27-11-2015 a 12:23.
Vecchio 27-11-2015, 12:47   #6
Esperto
L'avatar di feaanor
 

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Altri, decisamente più minoritari (ma con esponenti di spicco: Fromm, ad esempio), attribuiscono all'uomo adulto la capacità di farsi carico delle frustrazioni dell'esistenza; capacità che però non è innata, ma punto di arrivo di un percorso evolutivo la cui opportuna realizzazione comporta un'interazione con l'ambiente priva di traumi eccessivi (in rapporto alla capacità, sempre piuttosto relativa, dei bambini di tollerarli). I problemi insorgono dunque quando si adottano "difese" (dal dolore, da frustrazioni intollerabili) che al di là della fase evolutiva si rivelano rimedi peggiori del male ("disfunzionali"). Tra queste, vi è sempre una chiusura, più o meno apparente, nei confronti delle relazioni con gli altri: della propria sensibilità. Se si è emozionalmente indisponibili, non si può venire feriti. A questa si associa, spesso, l'illusione di poter avere un controllo sugli altri: la timidezza altro non sarebbe che un tentativo di "distorcersi" il cui fine è evitare l'esclusione (vissuta come intollerabilmente dolorosa). E non è forse l'indisponibilità relazionale un eccellente motivo perché gli altri ci escludano, offesi o semplicemente delusi?

Vittime, dunque, degli altri, senz'altro (almeno in passato), ma nel presente più che altro vittime (e carnefici spesso efferati) di sé.
Non intendo, sia chiaro, invitare nessuno a "svegliarsi", colpevolizzare chicchessia, negare il peso delle esperienze negative...

Che ne pensate?
Mi riconosco pienamente in questa seconda parte. Fino al liceo, causa insicurezza di fondo e paura, tenevo le difese al massimo e mi indisponevo totalmente a relazionarmi con gli altri, dunque mi è capitato di ragazze che ci provassero con me, e io per paura/incapacità e incosciamente voglia di non soffrire (perchè mi ritenevo inadeguato) le ho respinte.
Aggiungo di più, fino ai 20 anni, nel mio intimo, ero fermamente convinto di essere inadeguato per qualsiasi relazione, amicale o non. E' quindi ovvio che se questa era la mia convinzione, il mio agire fosse legato a questo pensiero.
Negli ultimi anni sono migliorato; la base di questo miglioramente è stata il convincermi di non essere inadeguato per una relazione e in generale i rapporti con gli altri; fatto questo, è stato molto più facile rendersi disponibili per le relazioni con gli altri, ma ovviamente questo miglioramento non è stato indolore ed è passato attraverse esperienze, spesso dure, che però hanno contribuito a forgiare il mio carattere.
Vecchio 27-11-2015, 18:24   #7
Esperto
L'avatar di Keith
 

Con chi non conosco tendo ad essere respingente e a vedere nell'altro un potenziale aggressore (ne ho motivo validi, anche se poi ovviamente esagero applicando questo atteggiamento a tutti) ma poi se vedo che mi posso fidare riesco anche ad essere aperto e amichevole.
Vecchio 29-11-2015, 15:13   #8
Esperto
L'avatar di Emil
 

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Originariamente inviata da Angus Visualizza il messaggio
Che ne pensate?
Concordo tranne che sulla timidezza.

La timidezza è la vergogna rispetto a qualcosa di disdicevole (socialmente) che si pensa di albergare dentro di sé. Emozioni anche. Il timido allora, per difendersi, cela questa presunta mostruosità, strisciante e inconscia, perché non venga scoperta. La timidezza risulta essere allora un "indizio" della propria immagine interna negativa (altro concetto fondamentale).

Per quanto riguarda la fobia sociale è un po' più complesso: il fobico proietterebbe caratteristiche negative che egli stesso inconsciamente si attribuisce sugli altri che come uno specchio gli "restituiscono", guardandolo, quegli attributi.
Ma in realtà quella concezione mostruosa di sé risiede solo nella propria soggettività e non in quella degli altri.

Inutile dire che Anepeta sottolinea il fatto che questi sviluppi conflittuali riguardano per lo più introversi.
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