Non avrei mai voluto parlare con nessuno di questa mia esperienza. Per anni mi avevano fatto credere che sarei potuto essere in grado di fare qualunque cosa, che avrei potuto fare miracoli e trovare il buono in qualunque essere umano. Con gli anni ho imparato sempre di più a guardare negli occhi chiunque mentre parlavo e mentre ascoltavo, a valutare e calibrare qualsiasi parola uscisse dalla mia bocca e da quella del mio interlocutore. Le parole sono importanti, certo, ma so che non sono tutto. A volte il silenzio è molto più comunicativo. Uno sguardo può dire molto. Anche un solo sorriso. Già, perché è un sorriso l'elemento chiave del mio racconto.
Qualche anno fa mi avevano parlato di un uomo, un tipo tutt'altro che raccomandabile e che da qualche mese avevano internato. Era noto alle forze dell'ordine per le sue manie e i suoi deliri. Dicevano di tutto su di lui. Era un assassino, un maniaco, un depravato e, stando a quanto dicevano le forze dell'ordine e i media, non erano solo dicerie. Era un elemento pericoloso, in grado di fare del male a chiunque, senza pietà per anziani o bambini. Ma non potevano tenerlo dentro data l'evidente infermità mentale di cui soffriva.
Volli quindi conoscerlo e capire chi fosse, parlarci insieme e quindi vedere che conversazione ne sarebbe uscita fuori. Mi aspettavo di tutto, da deliri surreali a ragionamenti raffinati e logici. Sapevo che molti assassini seriali avevano quozienti intellettivi molto superiori alla media ma questo non sempre è indice di sanità mentale.
Per mia esperienza professionale ho avuto a che fare con numerosi uomini e donne di tutte le età con queste peculiari caratteristiche. Tutti erano consapevoli di quello che avevano fatto in passato nonostante non volessero tralasciare alcuna emozione sembravano provare una sorta di perverso orgoglio per le loro azioni passate. Eppure dal modo con cui interagivano con infermieri e medici, nonché con gli altri pazienti, nessuno, a prima vista, avrebbe mai pensato che si trattasse di assassini seriali.
Ma con lui era diverso.
Quando volli parlare con lui, prima del colloquio, tutti i miei colleghi mi dissero di pesare ogni mia singola sillaba. Quel mostro di cui parlavano era in grado di giocare e manipolare i discorsi dei suoi interlocutori. Era in grado di far passare come equa e ragionevole la sua perversa logica da criminale. Lui voleva essere malvagio, ne era consapevole. Aveva dato diverse versioni del suo passato, tutte contraddittorie. Ad alcuni colleghi aveva detto di aver avuto un padre alcolizzato che picchiava lui e la madre, ad altri aveva detto che aveva perso la sanità mentale dopo che la moglie lo aveva lasciato. Addirittura aveva raccontato di aver passato tutta la sua vita con la madre e di averla uccisa dopo aver scoperto di essere stato adottato diversi anni dopo.
Mi accomodai con la sua cartella clinica tra le mani e un blocco note per prendere appunti su quanto mi avrebbe detto. Lui sedeva di fronte a me. Tra di noi vi era un robusto vetro infrangibile con alcuni fori per permetterci di capire quanto ci saremmo detti. Mi squadrava dalla testa ai piedi serio, quasi svogliato. Sembrava essersi risvegliato da poco.
Prima di discorrere ci scambiammo qualche convenevole. Lui sembrava aperto al dialogo ma rispondeva con tono variabile, a volte dimesso a volte esaltato.
Gli chiesi cosa lo facesse sentire bene e lui mi rispose che ridere era quello che più gli faceva fare. Ridere per qualunque cosa che solo lui avrebbe trovato divertente. Non c'era un perché o un motivo. Volle raccontarmi una barzelletta su due pazzi in fuga da un manicomio e di una torcia elettrica. Incredibile quanto fosse consapevole della sua follia e di quanto ne fosse fiero e orgoglioso. Si identificava con la sua malattia mentale. Poi tacque e, senza che io gli chiedessi alcunché, prese a parlare a ruota libera. Mi chiese del perché avessi deciso di stare lì, dall'altra parte della vetrata, a porgli domande a cui avrebbe risposto in maniera assurda, senza un filo logico comprensibile da nessuno in assoluto, nemmeno da tutti quei poveri diavoli che, come lui, passavano il resto della giornata chiusi in quelle stanze insonorizzate, pesantemente sedati. Fece una distinzione evidente tra esseri umani, c'erano i buoni, come me, ligi alle regole e alle leggi imposte dalla società, i sani, sempre pronti a piegarsi a qualche volontà superiore. E poi c'erano i cattivi, i pazzi, coloro che dovevano, per necessità, andare contro quello che dicevano le leggi. Dovevano sopravvivere loro con le loro famiglie, questo era il bene più prezioso. Io mi trovavo dall'altra parte della vetrata perché il destino, il fato, o chissà cosa mi aveva fatto nascere in una famiglia dove le possibilità di avere una vita migliore erano concrete.
Gli chiesi quindi in che categoria di uomini lui si sarebbe schierato ma non mi rispose che dopo pochi secondi. Lui non era niente e nessuno. Lui non voleva essere né buono né cattivo. Voleva seguire la sua personale logica. Tutti dovevano temerlo, dal più incorruttibile degli avvocati al più efferato capo di qualsiasi famiglia mafiosa. Nel caso di maggiore necessità, secondo lui, anche il tuo primogenito poteva farti la pelle. Gli umani non potevano essere amici e le regole che avevano creato le avrebbero sovvertite se messi alle strette.
Poi tacque di nuovo e mi parlò, poco dopo, di colui a cui avrebbe voluto tanto dimostrare di aver ragione e mi menzionò colui con cui si era più volte scontrato in passato e che era sempre stato ad un passo dall'ucciderlo. Non ci sarebbe mai riuscito perché troppo ligio e sottomesso alle regole umane. Non aveva fretta, sapeva che prima o poi sarebbe cascato nel suo tranello, magari non con lui, ma forse con qualcun altro e quando sarebbe accaduto forse la sua reputazione di eroe sarebbe terminata.
Allorché mi fisso con sguardo vitreo e lucido, i suoi occhi erano spalancati. Il suo volto si decorò del sorriso più glaciale che un essere umano avrebbe mai potuto sfoggiare. Perse la sua umanità del tutto.
Potei notare i suoi denti, stranamente sporchi di rosso. Posai i miei occhi sui suoi capelli lunghi e unti e notai del verde sulla punta di una delle sue ciocche. Ed ecco che me lo immaginai quando, qualche mese prima, lo vidi in televisione in un videomessaggio indirizzato alle forze dell'ordine e a quel giustiziere di cui mi aveva parlato prima. Mi ricordai del suo volto truccato di bianco, delle sue palpebre nere e del suo rossetto rosso. Mi ricordai dei suoi lunghi capelli verdi e del suo gessato viola scuro. E infine mi ricordai di quel suo sorriso raccapricciante, di quella sua risata violenta e massacrante.