C'è un'idea che mi tormenta, svegliandomi, e si riflette nello specchio della mia visione del mondo, che esige libertà, e dunque libertà d'espressione. Si tratta del concetto di cultura, da molti sventolato come una bandiera rassicurante, dietro al cui sventolamento incerto nascondere la fragilità delle proprie conoscenze.
Facciamo un chiarimento: il termine cultura deriva dal verbo latino colere, "coltivare". L'utilizzo di tale termine è stato poi esteso a quei comportamenti che imponevano una "cura verso gli dei", da cui il termine "culto" e a indicare un insieme di conoscenze. Oggi si può dare una definizione generale di cultura, intendendola come un sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti che caratterizzano un gruppo umano particolare; un'eredità storica che nel suo insieme definisce i rapporti all'interno di quel gruppo sociale e quelli con il mondo esterno. In breve per cultura si intende il "sapere" generale di un individuo.
Un importante modo di coltivare la cultura è attraverso la lettura, non credete?, e infatti i libri, per tutti noi, anche per chi non legge, sono un pò gli archetipi della nostra formazione, dai quali non potremmo prescindere. E fino a qui, tutto bene.
Confessione: leggo sin da ragazzino, compravo i libri che uscivano col corriere della sera, romanzi per ragazzi ma tosti e seri: David Copperfield, Zanna Bianca, Il giro del mondo in 80 giorni, Tom Sawyer, e così via...Li collezionavo per una sorta di feticcio personale, e molti li leggevo anche: ricordo belle serate immerso nelle pagine affascinanti del David Copperfield, capendo intuitivamente già allora che Dickens era uno scrittore molto agganciante, non certo uno scrittore con la puzza sotto al naso.
Negli anni la mia biblioteca è andata gonfiandosi progressivamente, seguendo la stella immateriale del mio autodidattismo malinconicamente anarchico: dal posto dove sono, davanti al computer, getto un'occhiata sulla sinistra e vedo la mia biblioteca, ripiena di libri diversi, quasi inconciliabili tra l'uno e l'altro, come parenti costretti a stare in una stessa stanza per moltissimo tempo, e che però non fanno mistero di non sopportarsi. Ci sono libri di narrativa per ragazzi; i libri di Harry Potter comprati da ragazzino; romanzi dimenticati presi in prestito da mio padre e non più restituiti; rassicuranti Simenon, Dostojievsky, Camus, Fante, Fitzerald, Joyce, Cervantes, Bulkakov, D'Annunzio e altri scrittori convenzionalmente definiti "grandi"; i filosofi, Nietzsche, Schopenhauer, Erasmo, e altri, che ho anche sul computer, in PDF, e di cui ho spesso letto le pagine difficili e verbose, anche se spesso fascinose. E poi ho i saggi di filosofia orientale, ma mica quelli che strizzano l'occhio alla new age, no signore: gente seria, professori, come Alan Watts o Leonardo Vittorio Arena; o monaci, come Suzuki, che ha scritto mente zen, mente del principiante...e anche, lo confesso, stupidi libri di sviluppo personale, comprati da ragazzino, quando ero stupido: 2 libri fomentati di Antony Robbins, e poi quel pappagallo di Roberto Re, e poi il pessimo Le vostre zone erronee, del cazzarone motivante Wyne Dyer, o come diavolo si chiama.
Non ho letto tutti i libri della mia biblioteca, alcuni li ho comprati e li ho lasciati da parte, dimenticati. Quando vado a Roma, vado nelle bancarelle vicino alla stazione e per una sorta di dogma interiore ne compro qualcuno, ogni volta. Altri li ho sul computer, ma vabbe...
La mia riflessione è questa: noto che il mondo istituzionale ripete la parola cultura in modo ossequioso, pedante; e gli intellettuali, questa pletora patetica di cerebrolesi, sembrano considerare "vita" con la v maiuscola solo la vita che loro stessi hanno letto attraverso i loro libri, come se non esistesse altra percezione che quella che poggia le basi sul linguaggio, ma il linguaggio è un'invenzione umana, sapete? E ciò che l'uomo crede di aver scoperto, la filosofia, la scienza, la letteratura, la teologia, è sopratutto qualche cosa che ha costruito col suo linguaggio, con i suoi simboli. Il costruttivismo, in filosofia e in psicologia, ci invita a considerare il fatto che la nostra realtà è una costruzione del nostro linguaggio, detto in termini generici e semplicistici.
(Wittgenstein docet)
Sto arrivando a concretizzare il mio pensiero sfilacciato, perchè voglio la vostra opinione, o asociali illuminanti, e magari illuminati.
Vedendo la quantità dei miei libri e pensando a quelli letti in passato, mi sta venendo in mente uno strano pensiero: non è che la lettura sia un filino sopravvalutata??? E allora povero quell'intellettuale non troppo intelligente che non sa vedere altro che i libri. La filosofia, in un tempo antico, sia in Grecia sia in Cina, era un qualche cosa di pragmatico, di pratico, che riguardava sempre una qualche forma di liberazione personale. Oggi è studio rigidamente archivistico di pensieri che quando vengono assimilati sono sempre estranei, non hanno rapporto con la nostra esperienza.
I romanzi??? Sapete che da adolescente sognavo di fare lo scrittore, e sarei stato famoso e pieno di potenzialità. Scrivevo raccontini che leggevo ai miei amici, e loro a dirmi che ero bravo, che dovevo continuare. Mi misi a scrivere un romanzo più lungo, e lasciavo faticosamente che la storia prendesse forma al di là della mia previsione su di essa, e le parole formavano una traccia automatica, come i passi formano una strada e allora si capisce che non esiste strada: la strada si fa percorrendola, passo dopo passo, slanciandosi nel vuoto e nell'ignoto, coraggiosamente. Scrissi un 100 di pagine su un ragazzone solitario come allora ero io che rimette in discussione la sua esistenza, come volevo fare io; filava bene, ma poi smisi. Ci furono varie contingenze e la distrazione fu assoluta, persistente. Penso spesso che dovrei ricominciare, attaccando il muro della letteratura, parola dopo parola, come un pugile si scaglia pugno dopo pugno contro un avversario spietato, apparentemente invincibile.
I romanzi sono belli, io ne ho letti molti, davvero. Ma non sono la vita...Forse i romanzi migliori sono tali perchè sono come delle frecce che indicano un'essenza psicologica, non solo intellettuale; una strada, una pratica, una via...pensiamo al meraviglioso Don Chisciotte, al suo viaggio idealistico, straordinariamente folle, e al suo fido Sancho Pancha, simbolo di un materialismo casareccio che mescola ingenuità e buon senso. Il senso della vita è andare, è mettersi in viaggio, è essere il viaggio, come dimostra Ulisse; e come viaggiare se si passerà tutta la vita a leggere? a masticare parole dette da altri? che per quanto geniali e profonde siano, sono sempre dette da altri, capito ciò il concetto che sta dietro a questo mia nota improvvisata?
Eppure gli scrittori, e i filosofi di professione, parlano per citazioni, come se loro avessero letto tutto, ogni autore, ogni libro nel mercato; ma è impossibile leggere tutto; impossibile aver letto tutto; e allora viene in mente maliziosamente che le loro citazioni vadano al di là delle loro conoscenze, che il loro sia una forma di manierismo che hanno assunto per abitudine, e per farsi largo in un mondo che finge di amare la cultura.
Compriamo i libri, si, diciamo che ci piacciono i libri, e ce ne vantiamo se qualcuno ci passa a trovare, lasciando intendere che li abbiamo letti tutti, anche se poi non lo abbiamo letto neanche uno, e lo stesso atto di collezionarli rivela in realtà una mentalità piccolo borghese, che vede la cultura solo come un modello di esibizione, un'ombra utilitarista per vantarsi di alto...
Non fraintendete: non posso fare a meno di amare i libri, ma sono stufo di sentire il pensiero unico che dice che leggere debba essere un dogma, qualcosa di doveroso. I libri sono pur sempre oggetti, e la lettura è una delle tante pratiche della vita, e non è l'unica...non credete?
Scusate la prolissità ma non ho voglia di rileggere ne di cancellare...