Esperto
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Elias Lindzin, 141565, piovve un giorno, inesplicabilmente, nel Kommando Chimico.
Era un nano, non piú alto di un metro e mezzo, ma non ho mai visto una muscolatura come la sua.
Quando è nudo, sí distingue ogni muscolo lavorare sotto la pelle, potente e mobile come un animale a sé stante; ingrandito senza alterarne le proporzioni, il suo corpo sarebbe un buon modello per un Ercole: ma non bisogna guardare la testa.
Sotto il cuoio capelluto, le suture craniche sporgono smisurate.
Il cranio è massiccio, e dà l’impressione di essere di metallo o di pietra; si vede il limite nero dei capelli rasi appena un dito sopra le sopracciglia.
Il naso, il mento, la fronte, gli zigomi sono duri e compatti, l’intero viso sembra una testa d’ariete, uno strumento adatto a percuotere.
Dalla sua persona emana un senso di vigore bestiale.
Veder lavorare Elias è uno spettacolo sconcertante; i Meister polacchi, i tedeschi stessi talvolta si soffermano ad ammirare Elias all’opera.
Pare che a lui nulla sia impossibile.
Mentre noi portiamo a stento un sacco di cemento, Elias ne porta due, poi tre, poi quattro, mantenendoli in equilibrio non si sa come, e mentre cammina fitto fitto sulle gambe corte e tozze, fa smorfie di sotto il carico, ride, impreca, urla e canta senza requie, come se avesse polmoni di bronzo.
Elias, nonostante le suole di legno, si arrampica come una scimmia su per le impalcature, e corre sicuro su travi sospese nel vuoto; porta sei mattoni per volta in bilico sul capo; sa farsi un cucchiaio con un pezzo di lamiera, e un coltello con un rottame di acciaio; trova ovunque carta, legna e carbone asciutti e sa accendere in pochi istanti un fuoco anche sotto la pioggia.
Sa fare il sarto, il falegname, il ciabattino, il barbiere; sputa a distanze incredibili; canta, con voce di basso non sgradevole, canzoni polacche e yiddisch mai prima sentite; può ingerire sei, otto, dieci litri di zuppa senza vomitare e senza avere diarrea, e riprendere il lavoro subito dopo.
Sa farsi uscire fra le spalle una grossa gobba, e va attorno per la baracca sbilenco e contraffatto, strillando e declamando incomprensibile, fra la gioia dei potenti del campo.
L’ho visto lottare con un polacco piú alto di lui di tutto il capo, e atterrarlo con un colpo del cranio nello stomaco, potente e preciso come una catapulta.
Non l’ho mai visto riposare, non l’ho mai visto zitto o fermo, non l’ho mai saputo ferito o ammalato.
Della sua vita di uomo libero, nessuno sa nulla; del resto, rappresentarsi Elias in veste di uomo libero esige un profondo sforzo della fantasia e dell’induzione.
Non parla che polacco, e l’yiddish torvo e deforme di Varsavia; inoltre, è impossibile indurlo a un discorso coerente.
Potrebbe avere venti o quarant’anni; di solito dice di averne trentatre, e di avere procreato diciassette figli: il che non è inverosimile.
Parla continuamente, degli argomenti piú disparati; sempre con voce tonante, con accento oratorio, con una mimica violenta da dissociato.
Come se sempre si rivolgesse a un folto pubblico: e, come è naturale, il pubblico non gli manca mai.
Quelli che capiscono il suo linguaggio bevono le sue declamazioni torcendosi dalle risa, gli battono le spalle dure entusiasti, lo stimolano a proseguire; mentre lui, feroce e aggrondato, si rigira come una belva entro la cerchia degli ascoltatori, apostrofando ora questo ora quello; a un tratto ghermisce uno per il petto con la sua piccola zampa adunca, lo attrae a sé irresistibile, gli vomita sul viso attonito una incomprensibile invettiva, poi lo scaglia indietro come un fuscello, e, fra gli applausi e le risa, le braccia tese al cielo come un piccolo mostro profetante, prosegue nel suo dire furibondo e dissennato.
La sua fama di lavoratore d’eccezione si diffuse assai presto, e, per l’assurda legge del Lager, da allora smise praticamente di lavorare.
La sua opera veniva richiesta direttamente dai Meister, per quei lavori soltanto ove occorressero perizia e vigore particolari.
A parte queste prestazioni, sovrintendeva insolente e violento al nostro piatto faticare quotidiano, eclissandosi di frequente per misteriose visite e avventure in chissà quali recessi del cantiere, di dove ritornava con grossi rigonfi nelle tasche e spesso con lo stomaco visibilmente ripieno.
Elias è naturalmente e innocentemente ladro: manifesta in questo l’istintiva astuzia degli animali selvaggi.
Non viene mai colto sul fatto, perché non ruba che quando si presenta un’occasione sicura: ma quando questa si presenta, Elias ruba, fatalmente e prevedibilmente, cosí come cade una pietra abbandonata.
A parte il fatto che è difficile sorprenderlo, è chiaro che a nulla servirebbe punirlo dei suoi furti: essi rappresentano per lui un atto vitale qualsiasi, come respirare e dormire.
Ci si può ora domandare chi è questo uomo Elias.
Se è un pazzo, incomprensibile ed extraumano, finito in Lager per caso.
Se è un atavismo, eterogeneo dal nostro mondo moderno, e meglio adatto alle primordiali condizioni di vita del campo.
O se non è invece un prodotto del campo, quello che tutti noi diverremo, se in campo non morremo, e se il campo stesso non finirà prima.
C’è del vero nelle tre supposizioni. Elias è sopravvissuto alla distruzione dal di fuori, perché è fisicamente indistruttibile; ha resistito all’annientamento dal di dentro, perché è demente. è dunque in primo luogo un superstite: è il piú adatto, l’esemplare umano piú idoneo a questo modo di vivere.
Se Elias riacquisterà la libertà, si troverà confinato in margine del consorzio umano, in un carcere o in un manicomio.
Ma qui, in Lager, non vi sono criminali né pazzi: non criminali, perché non v’è legge morale a cui contravvenire, non pazzi, perché siamo determinati, e ogni nostra azione è, a tempo e luogo, sensibilmente l’unica possibile.
In Lager, Elias prospera e trionfa. è un buon lavoratore e un buon organizzatore, e per tale duplice ragione è al sicuro dalle selezioni e rispettato da capi e compagni.
Per chi non abbia salde risorse interne, per chi non sappia trarre dalla coscienza di sé la forza necessaria per ancorarsi alla vita, la sola strada di salvezza conduce a Elias: alla demenza e alla bestialità subdola. Tutte le altre strade non hanno sbocco.
Ciò detto, qualcuno sarebbe forse tentato di trarre conclusioni, e magari anche norme, per la nostra vita quotidiana.
Non esistono attorno a noi degli Elias, piú o meno realizzati? Non vediamo noi vivere individui ignari di scopo, e negati a ogni forma di autocontrollo e di coscienza? ed essi non già vivono malgrado queste loro lacune, ma precisamente, come Elias, in funzione di esse.
La questione è grave, e non sarà ulteriormente svolta, perché queste vogliono essere storie del Lager, e sull’uomo fuori del Lager molto si è già scritto.
Ma una cosa ancora vorremmo aggiungere: Elias, per quanto ci è possibile giudicare dal di fuori, e per quanto la frase può avere di significato, Elias era verosimilmente un individuo felice.
Primo Levi, Se questo è un uomo
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