Avevo diciannove anni, ed ero appena uscito da un'adolescenza tetra deciso a cambiare radicalmente rotta.
Avevo appena finito il primo anno di università, dovevo lavorare per pagarmi gli studi e la prospettiva di restare dov'ero, al caldo torrido e senza conoscere nessuno, mi sembrava terribile. Decisi di partire all'avventura e me ne andai a Londra (era la prima volta che mettevo piede fuori dall'Italia), con una manciata di soldi in tasca e deciso a cercare qualcosa lì sul posto.
Dopo qualche giorno trovai lavoro come aiuto cuoco in un ristorante libanese. Fatta la prova, però, proprietario e cuoco (un truce tunisino di stazza erculea) decisero di non tenermi (cercavano più che altro un lavapiatti, a me non andava affatto di farlo e loro se n'erano accorti: in effetti credo che, se non l'avessero fatto, avrei rinunciato io). Accettai la cosa di buon grado, e chiesi al proprietario di pagarmi le poche ore lavorate, cosa che lui rifiutò di fare.
Tra i comportamenti che avevo fino ad allora seguito, vi era lo sminuire gli avvenimenti, lasciando correre tutto. Secondo una logica del tipo "affrontare la situazione mi spaventa, la questione non è poi così importante, faccio il superiore e lascio perdere", che in realtà trovavo insignificante: se non siamo disposti a lottare per le piccole cose, come possiamo credere che lo faremmo per quelle più grandi? La dimensione delle cose non è tra l'altro un buon indicatore della loro importanza, soprattutto quando sono in ballo i rapporti tra persone. Quei soldi poi mi facevano veramente comodo.
Insomma, questa volta decisi di non lasciar perdere, e di pretendere quanto mi era dovuto. Ai suoi ripetuti rifiuti, scommettendo sul suo pragmatismo e sul suo opportunismo, iniziai a parlare a voce più alta - il locale era pieno di clienti, e mi aspettavo che mi allungasse quelle maledette venti sterline piuttosto che fare una figuraccia. Persi la scommessa. Nonostante ci stessero ascoltando tutti, restò fermo sulla sua posizione, mi invitò a parlarne meglio in cucina, cosa che io rifiutai di fare dati il clima e il tunisino a quattro ante, e poi, in pieno panico, chiamò il cuoco. Questo, capita la situazione, si incazzò terribilmente e cercò il confronto fisico, a cui mi sottrassi uscendo dal locale in tutta fretta. Lui mi inseguì
. A questo punto, valutai che riportare a casa le ossa fosse più importante di venti sterline, e me la detti a gambe. Mi venne dietro, mostrandosi tra l'altro velocissimo nonostante la stazza. Io fortunatamente lo ero un po' (poco) di più, e nei momenti di tensione divento estremamente lucido. Continuammo per qualche minuto, poi con un sutterfugio rocambolesco (che mi valse tra l'altro un'ovazione da parte di alcuni passanti che assistevano all'inseguimento) riuscii a seminarlo.
Le emozioni che provai furono fortissime. Sia nel momento del confronto (non avevo mai fatto nulla di simile, e tremavo, letteralmente), sia a fatto avvenuto, tornando a casa, quando camminavo a due metri da terra contemplando il fatto di aver seguito le mie inclinazioni personali, non dandola vinta, forse più che alla paura, ai giudizi che mi portavo dentro da tempo, che mi intimavano di essere spento e privo di vitalità.
E' uno dei primi gesti autenticamente "miei" che ho fatto.
Una piccola cosa, ma significativa. Siamo, in fondo, piccoli, fragili uomini.