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Poeta e pensatore che con i suoi Canti, le Operette, lo Zibaldone le sue epistole non avvolge la sua figura con nembi olimpici, non annichilisce il sensibile studente come fanno le figure di Dante, Alfieri, Foscolo; piuttosto lo soccorre, detta al suo cuore le parole che con meravigliosa efficacia e potenza daranno una definizione alle sue afflizioni e con la loro bellezza le renderanno più sopportabili, si rivela suo compagno e intimo amico.
Come è possibile non rimanere attoniti e commossi di fronte ad un canto che si apre così:
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Con che moto di partecipazione si prova nell'ultimo verso! Non è il momento di abbandonarsi alla tristezza però, rievochiamole queste gioie:
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l’aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l’aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
lá nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicitá fingendo al viver mio!
Quale senso di meraviglia, quali sogni inafferrabili desta il canto, come culla il cuore e carezza delicatamente la fantasia.
Come ci addolora poi la chiusura della strofa però!
ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.
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