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26-10-2012, 19:13
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#1
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Esperto
Qui dal: Aug 2010
Ubicazione: Sicilia Orientale
Messaggi: 896
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Riprendendo la filosofia di Epicuro, Lucrezio scrive un grande affresco lirico sulla conoscenza umana e le origini dell'universo.
Le origini del Cosmo nel “De rerum natura” di Lucrezio. Ovvero, la natura delle cose.
Il grande poema di Lucrezio, De rerum natura, è l’unica opera che ci è pervenuta dell’autore latino. Probabilmente non compiuta o comunque mancante di una definitiva revisione, l’opera è il tentativo di descrivere le origini dell’universo. Conservata integralmente da due codici del IX secolo, denominati O e Q, fu riportata alla luce nel 1418 dall’umanista Poggio Bracciolini.
Chi ha nozioni elementari di filosofia antica avrà notato che il titolo, in latino, rimanda a filosofi arcaici come Esiodo o Empedocle, quest’ultimo autore del celebre poema Sulla natura, vissuti nel V secolo a.C. In realtà Lucrezio s’incarica del ruolo, non certo comodo, di divulgare la filosofia di Epicuro, grande filosofo antico e fondatore della celebre scuola dell’Epicureismo, ma a differenza degli intellettuali del suo tempo sceglie una strada radicalmente diversa, cioè quella del poema epico-didascalico, dai tratti particolarmente descrittivi o elogiativi nel trattare qualcosa che di per sé ispira meraviglia. Lo stesso Epicuro viene presentato da Lucrezio come una sorta di eroe, colui che ha saputo liberare l’umanità dagli orrori ancestrali e dalla paura dell’indefinibile. La forma più congeniale alla sua espressività non sarà né il compendio di filosofia, né il trattato scientifico, ma la poesia solenne.
Composta in esametri, i sei libri dell’opera sono articolati in tre gruppi da due: la prima coppia parla di Fisica, la seconda di Psicologia e Antropologia, la terza ed ultima è di carattere cosmologico.
L’opera si apre con l’inno a Venere, personificazione della forza generatrice della Natura, poi si passa agli elementi fondamentali, gli Atomi, particelle infinitamente piccole e indistruttibili che si muovono nel vuoto e che generano le aggregazioni dei corpi e dei mondi; la nascita e la morte, per Epicuro così come per Lucrezio, sono il risultato del continuo processo di aggregazione e disgregazione. Il percorso degli Atomi è rettilineo ma avviene un’inclinazione definita clinamen, cioè una deviazione che consente, per un solo istante, il volere e la libertà dell’essere umano. Anche il Corpo e l’Anima sono fatti di Atomi; il Paradiso è una favola, l’Anima è destinata a morire assieme al Corpo.
L’infinito movimento delle particelle genera i Simulacra, cioè l’ombra o la copia delle cose, proiezioni che colpiscono i nostri organi percettivi come una patina sottilissima, invisibile, che si posa sui nostri occhi. Ed è così che per Epicuro nasce la Conoscenza, simulacro anch’essa in un mondo di simulacri, un insieme d’immagini speculari di un infinito gioco di specchi. Un mondo che, nonostante tutto, resta mortale, destinato a concludersi un giorno in modo del tutto accidentale, così come esso è nato.
Lucrezio ha cercato, nella sua titanica descrizione, di spiegare ogni aspetto dell’Uomo e del Cosmo, soprattutto di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. Con una scrittura tanto aggressiva e violenta quanto emozionale e vertiginosa, l’opera si avvale anche di un certo realismo nel creare caricature e invettive, nell’aggredire e scuotere l’Uomo dalle sue follie: è la Natura stessa, ad un tratto, ad essere indignata nei confronti del genere umano, così incredibilmente attaccato alla vita, lanciandosi in una dissacrante requisitoria contro il suo modo di vivere, segnato dall’angoscia e dal dolore, mettendo in ridicolo anche la passione amorosa, mostrandone tutte le contraddizioni.
Molto affascinanti restano, però, i passaggi in cui Lucrezio invita il lettore a riflettere su quanto sia crudele ed ingiusta la Religione (Religio). È proprio la Religio ad opprimere gli uomini, a schiacciarli sotto il suo peso, turbando la loro gioia con la paura. Se gli uomini sapessero che dopo la Morte non c’è nulla, se si convincessero dell’inesistenza di una pena eterna profetizzata dai sacerdoti, smetterebbero di essere succubi di ogni forma di superstizione. Secondo Epicuro, l’Uomo deve superare la paura della Morte, e attraverso la conoscenza delle Leggi che governano l’Universo potrà ambire a questa liberazione.
Solo così potremmo, al riparo sulla terraferma, osservare distaccati il mare in tempesta.
http://www.letteratu.it/2012/10/le-o...ra-delle-cose/
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26-10-2012, 19:31
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#2
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Esperto
Qui dal: Aug 2011
Messaggi: 1,131
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Quote:
Solo così potremmo, al riparo sulla terraferma, osservare distaccati il mare in tempesta.
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Perché non c'è niente di più bello che vedere uno annegare nel mare in tempesta standosene al sicuro sulla terra ferma. Chi è che aveva detto questo? Mi è venuto in mente ora
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26-10-2012, 19:35
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#3
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Banned
Qui dal: Oct 2011
Ubicazione: Florentia
Messaggi: 1,364
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Hai riportato i fatti. E' vero, non si può dire che tu non abbia fatto i compiti a casa... purtroppo la considerazione che si dovrebbe avere del pensiero degli autori antichi, per quanto attaccata a fonti scritte, dovrebbe prendere in considerazione quest'ultime senza filtrarne i contenuti.
Perciò se parliamo del De rerum natura ti do ragione, nel complesso è un poema didascalico molto affascinante.
Se parliamo dello scrittore non sono mai stato favorevolmente colpito, in quanto fonti storiche provano che il suo avvicinamento alla filosofia epicurea lo escludeva, in un periodo storico come quello vissuto nella Roma del suo tempo, dalla vita politica attiva, rendendolo ininfluente ed emarginato.
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26-10-2012, 20:37
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#4
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Esperto
Qui dal: Sep 2012
Messaggi: 1,246
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Quote:
Originariamente inviata da EdgarAllanPoe
Solo così potremmo, al riparo sulla terraferma, osservare distaccati il mare in tempesta.
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La nascita dell'estetica del sublime.
Il De rerum natura è di sicuro una delle opere in versi più affascinanti della Roma antica
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26-10-2012, 22:46
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#5
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Esperto
Qui dal: Jun 2012
Ubicazione: Milano
Messaggi: 4,737
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Quote:
Originariamente inviata da SA.
Purtroppo non ho avuto occasione di guardare in Lucrezio.
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Non ti preoccupare, ci penso io
Quote:
Originariamente inviata da EdgarAllanPoe
L’opera si apre con l’inno a Venere
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Eccolo, in tutta la sua straordinaria e meravigliosa bellezza, il passo latino (mi sono permesso di segnare gli accenti dell'esametro e di tradurre )
Aèneadùm genetrìx, hominùm divùmque volùptas,
àlma Venùs, caelì subtèr labèntia sìgna
quaè mare nàvigerùm, quae tèrras frùgiferèntis
còncelebràs, per tè quoniàm genus òmne animàntum
còncipitùr visìtque exòrtum lùmina sòlis:
tè, dea, tè fugiùnt ventì, te nùbila caèli
àdventùmque tuùm, tibi suàvis daèdala tèllus
sùmmittìt florès, tibi rìdent aèquora pònti
plàcatùmque nitèt diffùso lùmine caèlum.
Nàm simul àc speciès patefàctast vèrna dièi
èt reseràta vigèt genitàbilis àura Favòni,
àëriaè primùm volucrès te, dìva, tuùmque
sìgnificànt initùm percùlsae còrda tuà vi.
I’nde feraè pecudès persùltant pàbula laèta
èt rapidòs tranànt amnìs: ita càpta lepòre
tè sequitùr cupidè quo quàmque indùcere pèrgis.
Dènique pèr maria àc montìs fluviòsque, rapàcis
fròndiferàsque domòs aviùm campòsque virèntis
òmnibus ìncutièns blandùm per pèctora amòrem
èfficis ùt cupidè generàtim saècla propàgent.
Quaè quoniàm rerùm natùram sòla gubèrnas
nèc sine tè quicquàm diàs in lùminis òras
èxoritùr neque fìt laetùm neque amàbile quìcquam,
tè sociàm studeò scribèndis vèrsibus èsse
quòs ego dè rerùm natùra pàngere cònor
Mèmmiadaè nostrò, quem tù, dea, tèmpore in òmni
òmnibus òrnatùm voluìsti excèllere rèbus.
Quò magis aèternùm da dìctis, dìva, lepòrem.
E’ffice ut ìntereà fera moènera mìlitiài
pèr maria àc terràs omnìs sopìta quièscant.
Nàm tu sòla potès tranquìlla pàce iuvàre
mòrtalìs, quoniàm bellì fera moènera Màvors
àrmipotèns regit, ìn gremiùm qui saèpe tuùm se
rèicit aèternò devìctus vùlnere amòris,
àtque ita sùspicièns teretì cervìce repòsta
pàscit amòre avidòs inhiàns in tè, dea, vìsus,
èque tuò pendèt resupìni spìritus òre.
Hùnc tu, dìva, tuò recubàntem còrpore sàncto
cìrcumfùsa supèr, suavìs ex òre loquèllas
fùnde petèns placidàm Romànis, ìncluta pàcem.
Nàm neque nòs agere hòc patriài tèmpore inìquo
pòssumus aèquo animò nec Mèmmi clàra propàgo
tàlibus ìn rebùs commùni dèsse salùti.
Genitrice degli Eneadi, voluttà di uomini e dèi,
alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo
il mare solcato da navi e le terre produttrici di messi
popoli, poiché per mezzo di te ogni specie degli animati
è concepita e, sorta, vede la luce del sole:
te, dea, te fuggono i venti, te le nubi del cielo
e il tuo avvento, per te la terra industriosa emette
fiori soavi, per te ridono le acque del mare
e il cielo placato risplende di luce diffusa.
Non appena si svela l’aspetto primaverile del giorno
e liberata ha vigore l’aura vivificatrice del Favonio,
per primi gli uccelli dell’aria te, diva, e il tuo
arrivo annunziano, turbati i cuori dalla tua forza.
Poi le fiere e gli armenti balzano per i pascoli lieti
e i rapidi fiumi attraversano: così preso dal fascino tuo
ognuno ti segue bramosamente ovunque tu seguiterai a condurlo.
E infine per i mari e i monti e i fiumi travolgenti
e le dimore frondose degli uccelli e i campi verdeggianti
a tutti incutendo blando amore per i petti,
fai sì che cupidamente si propaghino le generazioni secondo le stirpi.
Poiché tu sola governi la natura delle cose
e senza te nulla nelle divine regioni di luce
sorge, né avviene nulla di lieto nè amabile,
desidero te come compagna nello scrivere versi
i quali io sulla natura delle cose mi accingo a comporre
per la stirpe del nostro Memmio, che tu , dea, in ogni tempo
volesti eccellesse ornata di tutte le cose.
Tanto più eterna grazia concedi ai miei detti, o diva.
e fa’ che intanto le feroci opere della guerra
per i mari e le terre tutte sopite riposino.
Infatti tu sola puoi con tranquilla pace giovare
ai mortali, poiché le opere feroci di guerra Marte
potente nell’armi governa, il quale spesso nel grembo tuo
si getta, vinto dall’eterna ferita d’amore,
e così contemplandoti, riposto il collo ben tornito,
sazia d’amore, anelante a te, gli sguardi avidi,
e alla tua bocca è sospeso il respiro del supino (Marte).
Mentre questo riposa sul tuo corpo santo,
riversandoti su di lui, soavi parole dalla bocca
effondi chiedendo la placida, inclita pace per i Romani.
Infatti io non posso compiere ciò in un tempo iniquo per la patria
con sereno animo , né l’illustre progenie di Memmio
in tali occasioni puo’ mancare alla comune salvezza.
( Lucrezio, De rerum Natura, Libro I 1-43)
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Ultima modifica di Pluvia; 26-10-2012 a 23:17.
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26-10-2012, 23:40
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#6
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Banned
Qui dal: Nov 2010
Ubicazione: Somewhere over ther rainbow
Messaggi: 2,996
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Bel libro: comunque vi era una enorme scritta sulla facciata di una scuola privata all'ultimo piano che campeggiava di fronte la mia scuola media, per 3 anni ogni giorno vedevo questa frase di Lucrezio e mi chiedevo cosa volesse dire. Lo scoprii anni dopo. Ho questo ricordo come qualcosa riguardante un quadro surrealista, infatti è abbastanza insolito trovare una scritta latina su un palazzo e osservarla per anni chiedendosene il significato.
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27-10-2012, 00:04
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#7
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Esperto
Qui dal: Jun 2009
Ubicazione: Oceania, Pista Uno
Messaggi: 63,742
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Che figata quei tre accenti sulla u in sequenza:
Aèneadùm genetrìx, hominùm divùmque volùptas
Son pochi quelli che possono dire di aver poetato meglio (uno in particolare ).
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Ultima modifica di Winston_Smith; 27-10-2012 a 00:18.
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27-10-2012, 00:25
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#8
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Esperto
Qui dal: Jul 2012
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Quote:
Originariamente inviata da dany91
Eccolo, in tutta la sua straordinaria e meravigliosa bellezza, il passo latino
Aèneadùm genetrìx, hominùm divùmque volùptas,
àlma Venùs, caelì subtèr labèntia sìgna
quaè mare nàvigerùm, quae tèrras frùgiferèntis
còncelebràs, per tè quoniàm genus òmne animàntum
còncipitùr visìtque exòrtum lùmina sòlis:
tè, dea, tè fugiùnt ventì, te nùbila caèli
àdventùmque tuùm, tibi suàvis daèdala tèllus
sùmmittìt florès, tibi rìdent aèquora pònti
plàcatùmque nitèt diffùso lùmine caèlum.
Nàm simul àc speciès patefàctast vèrna dièi
èt reseràta vigèt genitàbilis àura Favòni,
àëriaè primùm volucrès te, dìva, tuùmque
sìgnificànt initùm percùlsae còrda tuà vi.
I’nde feraè pecudès persùltant pàbula laèta
èt rapidòs tranànt amnìs: ita càpta lepòre
tè sequitùr cupidè quo quàmque indùcere pèrgis.
Dènique pèr maria àc montìs fluviòsque, rapàcis
fròndiferàsque domòs aviùm campòsque virèntis
òmnibus ìncutièns blandùm per pèctora amòrem
èfficis ùt cupidè generàtim saècla propàgent.
Quaè quoniàm rerùm natùram sòla gubèrnas
nèc sine tè quicquàm diàs in lùminis òras
èxoritùr neque fìt laetùm neque amàbile quìcquam,
tè sociàm studeò scribèndis vèrsibus èsse
quòs ego dè rerùm natùra pàngere cònor
Mèmmiadaè nostrò, quem tù, dea, tèmpore in òmni
òmnibus òrnatùm voluìsti excèllere rèbus.
Quò magis aèternùm da dìctis, dìva, lepòrem.
E’ffice ut ìntereà fera moènera mìlitiài
pèr maria àc terràs omnìs sopìta quièscant.
Nàm tu sòla potès tranquìlla pàce iuvàre
mòrtalìs, quoniàm bellì fera moènera Màvors
àrmipotèns regit, ìn gremiùm qui saèpe tuùm se
rèicit aèternò devìctus vùlnere amòris,
àtque ita sùspicièns teretì cervìce repòsta
pàscit amòre avidòs inhiàns in tè, dea, vìsus,
èque tuò pendèt resupìni spìritus òre.
Hùnc tu, dìva, tuò recubàntem còrpore sàncto
cìrcumfùsa supèr, suavìs ex òre loquèllas
fùnde petèns placidàm Romànis, ìncluta pàcem.
Nàm neque nòs agere hòc patriài tèmpore inìquo
pòssumus aèquo animò nec Mèmmi clàra propàgo
tàlibus ìn rebùs commùni dèsse salùti.
(Lucrezio, De rerum Natura, Libro I 1-43)
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Tra i vertici della poesia di ogni epoca... credo non ci sia bisogno di dire altro.
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27-10-2012, 14:59
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#9
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Banned
Qui dal: Oct 2011
Ubicazione: Florentia
Messaggi: 1,364
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Quote:
Originariamente inviata da Winston_Smith
Che figata quei tre accenti sulla u in sequenza:
Aèneadùm genetrìx, hominùm divùmque volùptas
Son pochi quelli che possono dire di aver poetato meglio (uno in particolare ).
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Troppo bello per essere vero, infatti è sbagliato.
Divùmpue è erroneo: divom è la forma corretta del genitivo plurale seppur con desinenza arcaica ed è sintatticamente collegato con hominùm.
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27-10-2012, 16:27
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#10
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Esperto
Qui dal: Jun 2012
Ubicazione: Milano
Messaggi: 4,737
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Quote:
Originariamente inviata da Roy
Troppo bello per essere vero, infatti è sbagliato.
Divùmpue è erroneo: divom è la forma corretta del genitivo plurale seppur con desinenza arcaica ed è sintatticamente collegato con hominùm.
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Alcuni sostantivi al genitivo plurale presentano talvolta l'antica terminazione -um, anzichè -orum. Ciò avviene per i nomi delle monete (es nummus "moneta" che ha genitivo plurale numm um); in formule ufficiali praefectus fabr um "capo dei genieri"; e nel linguaggio poetico, in cui è molto frequente trovare de um anzichè deorum, vir um anzichè virorum, Achiv um anzichè Achivorum (gen. di Achivi, cioè Achei).
La desinenza originaria del genitivo plurale era -om (con la o breve), divenuta -um (con la u breve), forma rimasta viva nel linguaggio poetico.
Come vedi non è erroneo nè sbagliato: alcuni codici pervenutici hanno la forma in -om, altre in -um, differenze dovute alle scelte (o agli errori) dei copisti amanuensi (a proposito dell'incapacità di cotali Petrarca scrisse: "Non riusciresti a distinguere ciò che tu stesso hai scritto, scritto da un altro").
Solitamente in filologia la versione più rara e difficile (lectio difficilior) viene maggiormente considerata rispetto a quella più facile e comune (lectio facilior), dovuta a banalizzazione. Qui la lectio facilior sarebbe -um, la difficilior quella in -om; ho messo la prima perchè nel libro che ho c'è questa.
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Ultima modifica di Pluvia; 27-10-2012 a 16:31.
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27-10-2012, 16:39
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#11
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Esperto
Qui dal: Jul 2012
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Quote:
Originariamente inviata da dany91
Come vedi non è erroneo nè sbagliato: alcuni codici pervenutici hanno la forma in -om, altre in -um, differenze dovute alle scelte (o agli errori) dei copisti amanuensi (a proposito dell'incapacità di cotali Petrarca scrisse: "Non riusciresti a distinguere ciò che tu stesso hai scritto, scritto da un altro").
Solitamente in filologia la versione più rara e difficile (lectio difficilior) viene maggiormente considerata rispetto a quella più facile e comune (lectio facilior), dovuta a banalizzazione. Qui la lectio facilior sarebbe -um, la difficilior quella in -om; ho messo la prima perchè nel libro che ho c'è questa.
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Non ho voluto scrivere niente in risposta al commento precedente, perché ero certo sarebbe arrivata una tua puntuale precisazione sulle varie lectio di un codice. Però, in quest'ambiente, sai com'è: lectio difficilior potior.
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27-10-2012, 19:53
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#12
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Esperto
Qui dal: Jun 2012
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Messaggi: 4,737
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Quote:
Originariamente inviata da EdgarAllanPoe
Lo stesso Epicuro viene presentato da Lucrezio come una sorta di eroe, colui che ha saputo liberare l’umanità dagli orrori ancestrali e dalla paura dell’indefinibile.
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Quote:
Originariamente inviata da EdgarAllanPoe
Molto affascinanti restano, però, i passaggi in cui Lucrezio invita il lettore a riflettere su quanto sia crudele ed ingiusta la Religione (Religio). È proprio la Religio ad opprimere gli uomini, a schiacciarli sotto il suo peso, turbando la loro gioia con la paura.
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Eccoli: L'ELOGIO DI EPICURO e LE CONSEGUENZE DELLA RELIGIONE.
Hùmana ànte oculòs foedè cum vìta iacèret
ìn terrìs opprèssa gravì sub rèligiòne,
quaè caput à caelì regiònibus òstendèbat
hòrribilì super àspectù mortàlibus ìnstans,
prìmum Gràius homò mortàlis tòllere còntra
èst oculòs ausùs primùsque obsìstere còntra;
quèm neque fàma deùm nec fùlmina nèc minitànti
mùrmure còmpressìt caelùm, sed èo magis àcrem
ìnritàt animì virtùtem, effrìngere ut àrta
nàturaè primùs portàrum clàustra cupìret.
Èrgo vìvida vìs animì pervìcit et èxtra
pròcessìt longè flammàntia moènia mùndi
àtque omne ìmmensùm peragràvit mènte animòque,
ùnde refèrt nobìs victòr quid pòssit orìri,
quìd nequeàt, finìta potèstas dènique cùique
quànam sìt ratiòne atque àlte tèrminus haèrens.
Quàre rèligiò pedibùs subiècta vicìssim
òpteritùr, nos èxaequàt victòria caèlo.
Ìllud in hìs rebùs vereòr, ne fòrte reàris
ìmpia tè ratiònis inìre elemènta viàmque
ìndugredì scelerìs. Quod còntra saèpius ìlla
rèligiò peperìt sceleròsa atque ìmpia fàcta.
Àulide quò pactò Triviài vìrginis àram
Ìphianàssaì turpàrunt sànguine foède
dùctorès Danaùm delècti, prìma viròrum.
Cùi simul ìnfula vìrgineòs circùmdata còmptus
èx utràque parì malàrum pàrte profùsast,
èt maestùm simul ànte aràs adstàre parèntem
sènsit et hùnc proptèr ferrùm celàre minìstros
àspectùque suò lacrimàs effùndere cìvis,
mùta metù terràm genibùs summìssa petèbat.
Nèc miseraè prodèsse in tàli tèmpore quìbat,
quòd patriò princèps donàrat nòmine règem;
nàm sublàta virùm manibùs tremibùndaque ad àras
dèductàst, non ùt sollèmni mòre sacròrum
pèrfectò possèt clarò comitàr Hymenaèo,
sèd casta ìncestè nubèndi tèmpore in ìpso
hòstia cònciderèt mactàtu maèsta parèntis,
èxitus ùt classì felìx faustùsque darètur.
Tàntum rèligiò potuìt suadère malòrum.
Giacendo la vita umana davanti agli occhi turpemente,
sulla terra oppressa sotto la grave religione,
che il capo dalle regioni del cielo mostrava
con orribile aspetto sovrastando i mortali,
per primo un uomo greco ardì sollevare
gli occhi mortali contro, e per primo opporlesi;
il quale nè la fama degli dèi, nè i fulmini, nè con
minaccioso mormorio il cielo domò, ma ancor più ne
incitò l'acre virtù dell'animo, così che infrangere i luoghi
chiusi delle porte della natura per primo desiderò.
Dunque la vivida forza dell'animo trionfò, e
procedette lungamente oltre le fiammanti mura del mondo,
e tutto l'universo percorse con mente e cuore,
onde riporta a noi vittorioso quel che nascere possa,
quel che non possa, e infine la finita potenza d'ogni cosa
per quale ragione ci sia e il termine profondamente confitto.
Perciò la religione a sua volta gettata sotto i piedi
è calpestata, e noi eguaglia la vittoria al cielo.
Quello io temo tra questa cose, che tu per caso creda
d'iniziarti agli empi elementi di tale dottrina e nella via
della scelleratezza entrare. Al contrario più spesso
quella religione ha partorito fatti scellerati ed empi.
In tale modo in Aulide l'ara della vergine Trivia (Artemide)
deturparono col sangue di Ifianassa (Ifigenia) vergognosamente
i generali scelti dei Danai, primizie fra gli uomini.
Non appena ad ella la benda cinta alle chiome verginali
in pari modo su entrambe le guance calò,
ed ella s'accorse che il mesto padre davanti alle are
stava e presso di lui il ferro i ministri (sacerdoti) celavano,
e che alla sua vista lacrime effondevano i concittadini,
muta per il terrore, piegatasi sulle ginocchia, si rivolgeva verso la terra.
Nè alla misera poteva giovare in simile tempo
che per prima il patrio nome avesse donato al re (era primogenita),
infatti sollevata dalle mani degli uomini e tremebonda, agli altari
fu condotta, non affinchè compiuto il solenne rito dei sacrifici
potesse essere accompagnata dall'illustre Imeneo (dio delle nozze),
ma affinchè lei pura impuramente nello stesso tempo di nozze
cadesse come mesta vittima sotto il colpo del padre,
perchè una partenza felice e fausta alla flotta fosse concessa.
A tal punto di mali potè persuadere la religione.
( Lucrezio, De rerum natura, libro I 62-101)
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Ultima modifica di Pluvia; 27-10-2012 a 23:59.
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28-10-2012, 01:23
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#13
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Banned
Qui dal: Mar 2012
Ubicazione: Ovunque... e da nessuna parte...
Messaggi: 6,762
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Chi crede che Virgilio sia il miglior poeta latino si sbaglia.
Lucrezio ha composto un'opera impressionante, io amo il De rerum natura. Ma di poeti poco conosciuti che meritano elogi ce ne sono molti, come ad esempio Manìlio
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28-10-2012, 01:29
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#14
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Banned
Qui dal: Nov 2010
Ubicazione: Somewhere over ther rainbow
Messaggi: 2,996
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Quote:
Originariamente inviata da rainy
Chi crede che Virgilio sia il miglior poeta latino si sbaglia.
Lucrezio ha composto un'opera impressionante, io amo il De rerum natura. Ma di poeti poco conosciuti che meritano elogi ce ne sono molti, come ad esempio Manìlio
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Penso che stabilire una graduatoria sia alquanto inutile. La bellezza della poesia è altamente soggettiva perchè tocca corde diverse in personalità diverse.
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28-10-2012, 01:32
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#15
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Qui dal: Jan 2011
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Quote:
Originariamente inviata da dany91
Eccoli: L'ELOGIO DI EPICURO e LE CONSEGUENZE DELLA RELIGIONE.
Hùmana ànte oculòs foedè cum vìta iacèret
ìn terrìs opprèssa gravì sub rèligiòne,
quaè caput à caelì regiònibus òstendèbat
hòrribilì super àspectù mortàlibus ìnstans,
prìmum Gràius homò mortàlis tòllere còntra
èst oculòs ausùs primùsque obsìstere còntra;
quèm neque fàma deùm nec fùlmina nèc minitànti
mùrmure còmpressìt caelùm, sed èo magis àcrem
ìnritàt animì virtùtem, effrìngere ut àrta
nàturaè primùs portàrum clàustra cupìret.
Èrgo vìvida vìs animì pervìcit et èxtra
pròcessìt longè flammàntia moènia mùndi
àtque omne ìmmensùm peragràvit mènte animòque,
ùnde refèrt nobìs victòr quid pòssit orìri,
quìd nequeàt, finìta potèstas dènique cùique
quànam sìt ratiòne atque àlte tèrminus haèrens.
Quàre rèligiò pedibùs subiècta vicìssim
òpteritùr, nos èxaequàt victòria caèlo.
Ìllud in hìs rebùs vereòr, ne fòrte reàris
ìmpia tè ratiònis inìre elemènta viàmque
ìndugredì scelerìs. Quod còntra saèpius ìlla
rèligiò peperìt sceleròsa atque ìmpia fàcta.
Àulide quò pactò Triviài vìrginis àram
Ìphianàssaì turpàrunt sànguine foède
dùctorès Danaùm delècti, prìma viròrum.
Cùi simul ìnfula vìrgineòs circùmdata còmptus
èx utràque parì malàrum pàrte profùsast,
èt maestùm simul ànte aràs adstàre parèntem
sènsit et hùnc proptèr ferrùm celàre minìstros
àspectùque suò lacrimàs effùndere cìvis,
mùta metù terràm genibùs summìssa petèbat.
Nèc miseraè prodèsse in tàli tèmpore quìbat,
quòd patriò princèps donàrat nòmine règem;
nàm sublàta virùm manibùs tremibùndaque ad àras
dèductàst, non ùt sollèmni mòre sacròrum
pèrfectò possèt clarò comitàr Hymenaèo,
sèd casta ìncestè nubèndi tèmpore in ìpso
hòstia cònciderèt mactàtu maèsta parèntis,
èxitus ùt classì felìx faustùsque darètur.
Tàntum rèligiò potuìt suadère malòrum.
Giacendo la vita umana davanti agli occhi turpemente,
sulla terra oppressa sotto la grave religione,
che il capo dalle regioni del cielo mostrava
con orribile aspetto sovrastando i mortali,
per primo un uomo greco ardì sollevare
gli occhi mortali contro, e per primo opporlesi;
il quale nè la fama degli dèi, nè i fulmini, nè con
minaccioso mormorio il cielo domò, ma ancor più ne
incitò l'acre virtù dell'animo, così che infrangere i luoghi
chiusi delle porte della natura per primo desiderò.
Dunque la vivida forza dell'animo trionfò, e
procedette lungamente oltre le fiammanti mura del mondo,
e tutto l'universo percorse con mente e cuore,
onde riporta a noi vittorioso quel che nascere possa,
quel che non possa, e infine la finita potenza d'ogni cosa
per quale ragione ci sia e il termine profondamente confitto.
Perciò la religione a sua volta gettata sotto i piedi
è calpestata, e noi eguaglia la vittoria al cielo.
Quello io temo tra questa cose, che tu per caso creda
d'iniziarti agli empi elementi di tale dottrina e nella via
della scelleratezza entrare. Al contrario più spesso
quella religione ha partorito fatti scellerati ed empi.
In tale modo in Aulide l'ara della vergine Trivia (Artemide)
deturparono col sangue di Ifianassa (Ifigenia) vergognosamente
i generali scelti dei Danai, primizie fra gli uomini.
Non appena ad ella la benda cinta alle chiome verginali
in pari modo su entrambe le guance calò,
ed ella s'accorse che il mesto padre davanti alle are
stava e presso di lui il ferro i ministri (sacerdoti) celavano,
e che alla sua vista lacrime effondevano i concittadini,
muta per il terrore, piegatasi sulle ginocchia, si rivolgeva verso la terra.
Nè alla misera poteva giovare in simile tempo
che per prima il patrio nome avesse donato al re (era primogenita),
infatti sollevata dalle mani degli uomini e tremebonda, agli altari
fu condotta, non affinchè compiuto il solenne rito dei sacrifici
potesse essere accompagnata dall'illustre Imeneo (dio delle nozze),
ma affinchè lei pura impuramente nello stesso tempo di nozze
cadesse come mesta vittima sotto il colpo del padre,
perchè una partenza felice e fausta alla flotta fosse concessa.
A tal punto di mali potè persuadere la religione.
( Lucrezio, De rerum natura, libro I 62-101)
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qual'è il succo della poesia?
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28-10-2012, 01:41
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#16
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Banned
Qui dal: Mar 2012
Ubicazione: Ovunque... e da nessuna parte...
Messaggi: 6,762
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Originariamente inviata da Martello
Penso che stabilire una graduatoria sia alquanto inutile. La bellezza della poesia è altamente soggettiva perchè tocca corde diverse in personalità diverse.
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Certo, il piacere soggettivo che ognuno di noi trae da una poesia o da un libro è la base del successo della scrittura.
Ma ciò che fa "grande" un'artista non è solo l'acclamazione di una parte del pubblico, ma un complimento oggettivo, esteso e condiviso da più persone
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28-10-2012, 02:04
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#17
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Esperto
Qui dal: Jun 2012
Ubicazione: Milano
Messaggi: 4,737
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Originariamente inviata da Sverso
qual'è il succo della poesia?
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Probabilmente non conosci la vicenda di Ifigenia.
Ifigenia è la figlia di Agamennone e Clitennestra.
Agamennone un giorno uccise una cerva con una freccia ed esclamò inorgoglito che nemmeno la dea Artemide ci sarebbe riuscita, oppure promise alla dea di sacrificarle la creatura più bella nata quell'anno nel suo regno (lo stesso in cui nacque Ifigenia) ma si rifiutò di immolarla, o ancora uccise una capra sacra alla dea (le fonti discordano). Artemide si offese per il sacrilegio e scatenò forti venti che respingevano le navi greche sulle coste dell'Aulide, impedendo loro di salpare per Troia.
L'indovino Calcante fu consultato e vaticinò che la flotta non sarebbe salpata se Agammenone non avesse sacrificato alla dea la più bella tra le sua figlie.
In Aulide Ifigenia fu sottratta alla sua uccisione dalla stessa Artemide, che la sostituì con una cerva; secondo altre fonti fu invece uccisa nel sacrificio.
Adesso ti è chiaro?
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28-10-2012, 02:06
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#18
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Banned
Qui dal: Nov 2010
Ubicazione: Somewhere over ther rainbow
Messaggi: 2,996
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Originariamente inviata da rainy
Certo, il piacere soggettivo che ognuno di noi trae da una poesia o da un libro è la base del successo della scrittura.
Ma ciò che fa "grande" un'artista non è solo l'acclamazione di una parte del pubblico, ma un complimento oggettivo, esteso e condiviso da più persone
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In quanto complimento è soggettivo, e poi l'acclamazione da parte di un pubblico vasto non rende un artista grande.
Vi sono artisti sconosciuti che sono grandi al pari di quelli acclamati
Vi sono artisti che non piacciono in un tempo e che poi piacciono molti anni, decadi, secoli dopo
L'acclamazione non è un metro di giudizio affidabile, è labile e le fortune sono instabili e avverse, almeno io la penso così.
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28-10-2012, 02:16
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#19
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Banned
Qui dal: Mar 2012
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Messaggi: 6,762
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Quote:
Originariamente inviata da Martello
In quanto complimento è soggettivo, e poi l'acclamazione da parte di un pubblico vasto non rende un artista grande.
Vi sono artisti sconosciuti che sono grandi al pari di quelli acclamati
Vi sono artisti che non piacciono in un tempo e che poi piacciono molti anni, decadi, secoli dopo
L'acclamazione non è un metro di giudizio affidabile, è labile e le fortune sono instabili e avverse, almeno io la penso così.
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Infatti non ho detto che l'acclamazione è imprescindibile per arrivare alla grandezza, ho detto che per ricevere riconoscimenti e meriti occorre anche un favorevole giudizio da parte di chi solitamente si esprime per altri generi.
E' ovvio che si parli di giudizi critici, che in pochi sanno esprimere
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28-10-2012, 02:35
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#20
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Banned
Qui dal: Nov 2010
Ubicazione: Somewhere over ther rainbow
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Originariamente inviata da rainy
Infatti non ho detto che l'acclamazione è imprescindibile per arrivare alla grandezza, ho detto che per ricevere riconoscimenti e meriti occorre anche un favorevole giudizio da parte di chi solitamente si esprime per altri generi.
E' ovvio che si parli di giudizi critici, che in pochi sanno esprimere
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Pensi che bastino i giudizi critici per essere ''grandi''? Da cosa giudici la grandezza?
Voglio trasmettere il messaggio che la grandezza è qualcosa di meramente soggettivo, non occorrono nè i giudizi critici(gli interpreti della grandezza lasciano il tempo che trovano e vivono) nè l'acclamazione del popolo
La grandezza è qualcosa che ognuno osserva e sente e tocca con mano, riguardo a un poeta, uno scrittore, una persona vivente, perchè tocca corde dentro di noi.
Il giudizio critico è un tecnicismo sterile, va bene per giudizi da Scolastica.
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