Da qualche mese mi sono inserito in una nuova realtà lavorativa:un ambiente di lavoro medio-grande, dato che l'ufficio si compone di una quindicina di persone, anche se io ho rapporti più stretti con 6-7 persone.
Inutile dire quanto fosse il timore di affrontare la nuova avventura: nuove conoscenze,relazioni,confronti e così via.
In una prima fase,un po' per timidezza,un po' perchè pensavo che fosse il modo migliore per essere accettato ho cercato di conquistare la stima dei colleghi dimostrando le doti del buon lavoratore: serietà, affidabilità, prontezza nel risolvere i problemi,disponibilità all'aiuto e così via.
Sentivo,però,di essere ancora ai margini del gruppo dal punto di vista relazionale:i colleghi venivano da me per cose di lavoro,ma quando si trattava di scherzare o parlare d'altro nei momenti di pausa,nisba.E la cosa mi faceva soffrire.
Col passare del tempo ho timidamente modificato il mio atteggiamento:mantenendo le stesse doti di affidabilità, mi sono sforzato di partecipare ai momenti più leggeri,scherzare,fare battute.
Ebbene,ho notato un
netto cambiamento:adesso mi vengono a cercare(e io cerco loro)non solo per motivi di lavoro,ma anche per fare due battute e parlare del più e del meno.
Ciò che voglio dire è che non si può sempre dare la colpa agli altri se non vengono a cercarci:
deve partire da noi l'atteggiamento propositivo.
Per me è stata una vera scoperta.Abituato com'ero a pensare che il modo migliore per coltivare un rapporto fosse l'essere affidabile,serio,coscienzioso,a verificare
con i fattiquanto queste ultime qualità non servono se non sono accompagnate da un atteggiamento di apertura verso il prossimo.
E Dio solo sa quanto spesso vorrei essere più aperto al prossimo, ma mi scontro con i limiti della timidezza.
Ma è stata una bella esperienza: e mi piace condividerla perchè mi ha insegnato qualcosa.E cioè che l'atteggiamento verso il prossimo condiziona l'atteggiamento del prossimo verso di noi.