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29-09-2024, 10:12
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#1
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Per molti giorni, nell’ottobre 1992, Sbastiao Salgado e lo scrittore Eric Nepomuceno si sono incontrati e hanno conversato nella casa di Maria Thereza e di José Bastos a Vila do Riacho, nello stato brasiliano di Espirito Santo. Il risultato è questo testo scritto a quattro mani.
{Quello che segue è il testo introduttivo, nel tempo a venire inserirò gli altri testi che riguardano specifiche tematiche. Uno al giorno.}
In queste immagini è racchiusa la storia di un’epoca. Le fotografie costituiscono l’archeologia visiva di un tempo conosciuto dalla storia con il nome di rivoluzione industriale; epoca in cui uomini e donne, con il loro lavoro manuale, tenevano in pugno l’asse centrale del mondo.
I concetti di produttività e di efficienza sono in continua evoluzione e con essi la natura stessa del lavoro. Nella sua corsa in avanti, il mondo altamente industrializzato marcia a tappe forzate e ha già ipotecato ciò che, fino a poco tempo fa, sembrava poter appartenere solo a un lontano futuro. Questa velocità, in fondo, è il risultato del lavoro dell’intera umanità, anche se i benefici sembrano riservati a un ristretto numero di eletti.
L’aumento brutale della produzione e la sua sofisticazione hanno un limite: il mondo supersviluppato produce unicamente per quella parte dell’umanità che può consumare. Questa parte non è che un quinto della popolazione del pianeta; i restanti quattro quinti, che in teoria dovrebbero poter approfittare del surplus di produzione, non riescono diventare consumatori. Essi hanno donato così tanto, in termini di risorse e ricchezze, che non hanno più alcun mezzo per raggiungere una qualsiasi parità. E così il pianeta resta diviso in un primo mondo ammalato di eccesso, un terzo schiavo del bisogno e un secondo che, cresciuto nel socialismo, alla fine di questo nostro secolo sta cadendo in rovina.
Il destino di uomini e donne è di creare un mondo nuovo, far risorgere la vita e ricordare che per ogni cosa esiste un limite, una frontiera, ad eccezione dei sogni, che permettono di adattarsi, di resistere e di credere. La storia è in primo luogo un susseguirsi di sfide, ripetizioni e ostinazioni. È un ciclo infinito di oppressioni, umiliazioni e disastri, ma anche la testimonianza della capacità umana di sopravvivere.
Nella storia non esistono sogni solitari.
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30-09-2024, 19:33
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#2
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Piantagioni di canna da zucchero
Il lavoratore delle piantagioni di canna da zucchero è un guerriero e il machete è la sua spada. Egli vive in un ambiente ostile: la foglia della canna è affilata e il guerriero lotta contro le foglie. Il guerriero si ferisce, si lacera, si sporca tra le canne brucianti, calde, poco prima di tagliarle.
Ho incontrato, a Cuba e in Brasile, questi guerrieri delle piantagioni di canna da zucchero. Sono molto diversi tra loro ma anche molto simili. Pensano allo stesso modo, si divertono allo stesso modo, si esprimono nello stesso modo. Sono dolci, sono combattivi. Si riposano, scherzano e ridono, si allungano al suolo, sempre nello stesso modo.
Ma esiste tra loro una differenza sostanziale: il guerriero cubano è un eroe del lavoro, fiero della sua lotta. È trattato bene dallo Stato-padrone. In Brasile è completamente diverso. Il guerriero viene trasportato sul campo, il suo campo di battaglia e di sogno, da grandi camion che lasciano la periferia dei centri urbani alle prime luci dell’alba. E va a lavorare su terre che più di una volta, nel passato, sono state sue. Da proprietari, lui e i suoi compagni, oggi sono diventati proletari del suolo: l’estensione dell’impiego dell’alcool, estratto dalla canna come combustibile, ha portato le grandi aziende ad acquistare una gran quantità di piccoli appezzamenti di terreno destinati originariamente alla coltivazione alimentare. In seguito, l’inflazione brasiliana ha praticamente annullato i ricavi che questi uomini avevano ottenuto con la vendita delle loro terre. Ed eccoli ora, ammassati su un camion che li porta verso i loro antichi campi di battaglia, protagonisti coatti di una guerra da cui non ne usciranno mai vincitori. Il proprietario del camion raduna i contadini e riceve il denaro per pagare i guerrieri. Il guerriero brasiliano delle piantagioni di canna da zucchero è in un certo senso uno schiavo, lo schiavo del proprietario del camion.
Vengono chiamati boias-frias, “pasto freddo” perché portano il loro magro pasto in recipienti di latta e non lo consumano mai caldo. Masticano freddo, un gusto di sconfitta in bocca.
A Cuba il lavoro della canna è fatto unicamente da uomini forti, solidi guerrieri. In Brasile lavorano oltre agli uomini anche le donne, i vecchi, i bambini.
C’è un mondo di differenze tra questi due universi della stessa battaglia.
Guerrieri fieri, guerrieri vinti. Ma sempre, e nonostante tutto, guerrieri.
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01-10-2024, 19:14
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#3
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Le mietitrici del mare
La Galizia è una bella regione fatta di brume e di leggende. Qui le rias sono come i fiordi: acque profonde che si insinuano nelle rocce e che sembrano sorgere da immensi boschi per poi precipitare verso il mare.
Ci sono molti rias in Galizia e io ne ho percorsi parecchi. Ma è stato a Vigo che ho incontrato le “mietitrici” del mare.
Si tratta in genere di madri di famiglia e mogli di pescatori. Lavorano, per la maggior parte, nelle industrie della conservazione del pesce. Ogni giorno che passa, sono sempre di più le donne che restano senza lavoro: l’industria dei surgelati sta decimando quella della conservazione. Anche se tutto in Galizia sembra molto antico, la ragione vive tempi di cambiamento. Ormai non si pesca più come un tempo e la bella e quasi secolare industria del pesce sta morendo lasciando vuote le fabbriche. Esistono ancora a Vigo numerose coperative di pescatori. Le loro barche, posate delicatamente sull’acqua, fanno parte del paesaggio. Ma le donne non partecipano a questo mondo.
Sono belle e forti le “mietitrici” del mare. Dai loro corpi occupati a sarchiare il fondo del mare, si sprigiona una sensualità senza pari. Le chiamano “mietitrici” perché la pesca dell’ameja non è in realtà una pesca ma una raccolta. L’ameja è un mollusco-pianta che cresce in fondo al mare, in una certa epoca dell’anno: in ottobre arriva a maturazione e raggiunge la sua altezza massima. In questo mese è l’epoca delle grandi maree: il mare si ritira ogni giorno per ore e ore su due, tre chilometri, lasciando a nudo le rias. È ora il momento delle donne che ogni anno, per due, tre mesi, mietono il fondo del mare.
Ma anche questo lavoro è minacciato: la ria di Vigo è di giorno in giorno sempre più inquinata dai rifiuti che i suoi 300.000 abitanti scaricano nell’acqua.
Le tradizioni del mare corrono il rischio, in Galizia, di diventare parte della leggenda e delle brume. I figli dei pescatori non fanno più il mestiere dei genitori e la pesca industriale ha rimpiazzato quella familiare. In alto mare, oggi, non si pesca più per la Galizia ma per il mondo. Le mietitrici dell’acqua raccolgono, con la marea discendente, i frutti del mare. Hanno i piedi nella sabbia del fondo del rias e il viso offerto al vento del mare.
Cosa guardano, di lontano, le mietitrici del mare? Da dove nasce il loro sorriso?
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02-10-2024, 18:19
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#4
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La Réunion
L’isola è qui, nell’Oceano Indiano, tra il Madagascar e l’isola Maurizio. Si chiama La Réunion e appartiene, dal XVII secolo, alla Francia: uno dei suoi territori d’oltremare. È un’isola vulcanica, superba, che, piantata a 3.000 metri sotto il livello del mare, supera di altri 3.000 metri il livello dell’acqua. L’isola, in pratica, è un curioso capriccio di Dio: una specie di montagna tagliata esattamente al centro dalla linea del mare, alzata per metà verso il cielo e per metà verso le profondità oceaniche. A qualche metro appena dalla costa, comincia l’abisso dell’acqua: non ci sono pesci, a La Réunion.
È l’isola dei profumi. Le essenze più pure di vetiver, di geranio, di vaniglia, vengono da qui. Quelle di vetiver e di geranio sono utilizzate come fissatori nella produzione industriale dei profumi: La Réunion produce poco ma la qualità di questa produzione è esemplare. L’isola è stata a lungo uno dei principali produttori del mondo e oggi le disastrose politiche agricole della Francia nei suoi territori d’oltremare hanno rovinato questa produzione che è scesa dell’85 percento rispetto a trent’anni fa. Gli abitanti de La Réunion sono cittadini francesi. Alcuni di loro, quelli che lavorano nella produzione delle essenze e dei profumi, sono cittadini particolari: francesi “a piedi scalzi”.
Il loro salario è di poco inferiore al minimo delle metropoli e vivono isolati sulle alture di questa terra vulcanica dove si trova il geranio, la vaniglia e dove, probabilmente, attecchiscono le radici del vetiver. Le loro origini si perdono nella notte dei tempi, in qualche villaggio della Corsica o della Bretagna.
I francesi “a piedi scalzi” de La Réunion producono solo pochi flaconi di profumo l’anno. Si agitano tutto il giorno attorno ai piccoli alambicchi di rame affumicato, nell’attesa che, goccia dopo goccia, si distilli il profumo. E dopo ridiscendono portando il loro prezioso ma esiguo tesoro sulle spalle.
I francesi “a piedi scalzi” non potranno mai utilizzare l’essenza dei loro profumi che sarà trasformata e imprigionata lontano, molto lontano dall’isola, in tutte quelle piccole boccette che sono costate settimane di lavoro.
Non le utilizzeranno perché non ne avranno mai bisogno: La Réunion è impregnata del più puro dei profumi e niente potrà imprigionare il suo animo: il profumo fluttua, libero nello spirito, libero nell’aria.
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05-10-2024, 08:45
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#5
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Il cacao
Strano destino, quello del cacao. Il prezzo di tutto ciò che si produce a partire dal cacao non smette di aumentare mentre il prezzo del cacao non smette di calare.
Il cacao è un altro dei numerosi prodotti di cui il prezzo è fissato da chi, nella sua vita, non ha mai prodotto neanche un grammo di questo frutto. Numerosi alberi di cacao sono ultracentenari. Hanno rami forti, rigogliosi, dalle forme antiche, come se venissero da un altro tempo: alberi fantasmagorici, con strane escrescenze, strani comportamenti. Ma, allo stesso tempo, sono delicati e devono essere protetti da altri alberi più grandi, come quelli da frutto, perché il cacao ha bisogno di ombra e umidità; non può affrontare il sole, gli basta racchiuderlo nei suoi frutti.
Qui, asfissiati dal caldo e dall’umidità, lavorano gli uomini e le donne del cacao. Gli alberi che proteggono le piante proteggono ugualmente il popolo del cacao: ciò che guadagna è talmente misero che i frutti caduti costituiscono una parte non trascurabile della sua alimentazione. Lo stesso cacao sostenta il popolo del cacao: i frutti aperti sprigionano un latte di pura e soave energia.
Le donne del cacao portano stivali alti per proteggersi dai serpenti. E sulla testa fazzoletti come turbanti per proteggersi dai frutti del cacao che cadono dall’alto. Si fa spesso l’amore nelle piantagioni di cacao. Molto, tra i ragazzi che vagabondano in questo ambiente sensuale: sono i figli del calore del cacao. È un popolo allegro quello del cacao. Nell’effervescenza del calore, dell’ombra e dell’umidità, ogni giorno è una festa intima.
Niente è peccato intorno al cacao ma tutto è vita, energia. Un vigore che risplende nei corpi che si cercano, furtivi ed eterni, nell’umido calore degli alberi. Chi decide del prezzo di questa libertà? Chi è lo schiavo di questa allegria?
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06-10-2024, 18:49
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#6
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Il tabacco
Nel tabacco il lavoro è ameno e delicato al punto da poter paragonare il tabacalero al panettiere: lavoro ancestrale, meticoloso, esatto, senza pari. Sul campo, il lavoratore del tabacco porta un cappello simile a quello dei fornai: di tela, per non danneggiare le foglie estremamente delicate del tabacco. Al contatto con la foglia, il cappello del tabacalero non ferisce ma la accarezza. Le foglie sono raccolte con una ritualità cerimoniale. Il fondo dei panieri è foderato con del cotone, come fosse una culla dove posare un bimbo addormentato.
Tutto, nel tabacco, è un piacevole rituale, dall’aroma incomparabile, eseguito su un ritmo di sogno.
I magazzini dove viene risposto il tabacco sono di legno e questo legno profuma di tabacco. Qui le foglie sono conservate per due, tre anni e vengono lavorate da mani femminili. Le mani che preparano il tabacco, che lo arrotolano con esatta misura, conoscono il lungo tragitto dei sogni. Mentre viene preparato da esperte mani femminili, il sigaro ascolta le poesie, le canzoni, le parole. Nei magazzini dove si lavora la sala è vasta e areata e, sull’uscio siede sempre una persona con il compito di “leggere”. Il suo lavoro è cercare di diffondere, poco a poco e dolcemente, le parole che possano aiutare a viaggiare lontano mentre le dita, le palme delle mani, poco a poco e molto dolcemente, arrotolano il fumo che riposerà conservato all’interno di queste foglie incomparabili e tenere. Il sigaro, il tabacco: la foglia racchiude l’attesa dei sogni che si disperderanno insieme alle nuvole di fumo, come promesse che conservano l’aroma del legno, della terra, l’aroma di altri sogni, di altri viaggi.
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09-10-2024, 18:38
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#7
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La pesca del tonno in Sicilia
Hanno avuto tutto il tempo del mondo per invecchiare e continuano come hanno sempre fatto, fin dall’inizio del Medio Evo, nella loro terra di Sicilia. Ma adesso anche questi uomini rischiano di sparire alla velocità del fulmine.
Alla fine della seconda guerra mondiale, esistevano ancora 30 gruppi di pescatori siciliani che, una volta l’anno e con la precisione delle maree, procedevano alla cerimonia della mattanza, la grande pesca del tonno.
Ora non ne esistono che due.
Il Mediterraneo ormai inquinato, è sul puto di morire e la sua morte spaventa il tonno. Non solo, la pesca industriale, di giorno in giorno più intensa e devastatrice, praticata dalle flotte di diversi paesi e principalmente dal Giappone, minaccia questa antica tradizione. Da sempre per la mattanza siciliana ci si equipaggia con reti speciali, fatte per attaccare unicamente i grandi tonni, quelli che in un’epoca determinata dell’anno, con le correnti calde, entrano nel Mediterraneo per riprodursi.
I pescatori tendono le gigantesche reti molto vicino alla costa cercando di isolare i punti di passaggio e creare in questo modo un labirinto senza uscite. Il tonno non torna mai indietro nel suo cammino: continua fino ad incontrare la sua fine, la stanza della morte.
La mattanza è uno spettacolo unico, diretto dal rais, il grande maestro, grande marinaio, conoscitore eccellente dei segreti di pesci grandi e piccoli, di correnti e maree. Una volta che il tonno è entrato all’interno della sua
Stanza, i pescatori alzano le reti per accompagnare il pesce verso la sua morte. Mentre gli uomini chiudono il cerchio fatale, cantano e ringraziano con gratitudine e rispetto. Una volta alzate, le reti imprigionano al loro interno, sicuramente, i tonni. A questo punto il mare inizia a ribollire, agitato dalle code e dai corpi argentati che brillano mentre, in un riflesso essenziale e primitivo, si alzano verso il cielo. Armati arpioni di ferro, i pescatori trascinano verso il bordo i pesci feriti a morte.
Il tonno verrà portato alla tonnara, a San Cusumano. Qui, con strani cappelli di tela e lunghi coltelli in mano, gli operai giapponesi aspettano: sono loro che dissanguano il tonno e la sua carne bianca, di perfetta qualità, tutta intera, parte verso il Giappone. Tutta intera: non restano in Italia che la testa, le viscere, la coda e l’odore del sangue.
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12-10-2024, 15:38
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#8
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La migliore iuta del mondo
Una fabbrica di tessuti fatiscente, come ne esistono solo in Bangladesh, è un grande recipiente di rumori: la sinfonia insensata dei telai di legno, lo sfregamento dei fili, la fuliggine nell’aria, i piccoli fili che danzano e si dissolvono nella luce. Da qui escono le tele che avvolgono i corpi in movimento, i tessuti delicati di colori e disegni sorprendenti che, trasformati in sari, accentuano la bellezza delle donne. La produzione di tessuto fa parte della tradizione del paese.
La grande produzione del Bangladesh è la iuta, la miglior iuta del mondo. Ma questa produzione nasconde una ironia crudele: aumenta non appena un conflitto, una guerra qualsiasi, scoppia da qualche parte nel mondo.
Quando si tratta di proteggere le trincee o le barricate, infatti, niente è meglio di un buon sacco di iuta. Colpita dal proiettile, la tela non si lacera ma forma un foro oltre il quale, sotto la pressione della sabbia di cui è riempito il sacco, il proiettile si ferma.
Le fabbriche del Bangladesh sono antiche, impiantate dagli inglesi alla fine del secolo. Sono belle e rumorose. I lavoratori del Bangladesh sono gente cordiale e raffinata che non perde nulla della sua naturale grazia anche in questa atmosfera pesante. Una popolazione serena e conciliante che lavora il doppio quando una guerra scoppia da qualche parte del mondo.
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14-10-2024, 19:25
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#9
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I demolitori navali
Di fronte alla costa del Bangladesh la nave suona la sua sirena per l’ultima volta: un lungo fischio stridente. Con i motori a tuta forza la nave si dirige verso terra, nelle sabbie della spiaggia. La nave urla, geme, avanza a una velocità allucinante; una velocità che non aveva mai raggiunto quando affrontava il mare. La nave avanza verso la sabbia, fin dentro la terra. Lo scafo d’acciaio fende la spiaggia scavando la terra dalla quale è stato costruito. Giunto ormai all’ultima destinazione del suo ultimo viaggio si ferma stremato.
E ora, ha subito inizio la demolizione, come se questo assalto finale fosse atteso da sempre. L’assalto dei demolitori: la nave è ormai arenata nella spiaggia più lontana del mondo, questo stesso mondo che la nave ha percorso solcando gli oceani con dolcezza. I demolitori si precipitano armati di fiamma ossidrica e trafiggono la chiglia della nave perché alla fine l’acqua, condannandola senza possibilità di appello, possa invadere il suo ventre gigantesco. Niente ormai potrà restituire la nave al mare di un tempo. I fori aperti sono colpi di grazia in questo suicidio per esaurimento, degno e generoso.
I demolitori cominciano a rompere tutto, a ridurre la nave in pezzi. Il riflesso bluastro delle fiamme ossidriche taglia l’acciaio, pesanti martelli feriscono il suo ferro, spaccano il suo legno. Viene recuperata ogni parte dell’enorme animale che giace ormai insabbiato. Il ferro e l’acciaio saranno sciolti, fusi, trasformati in nuovi pezzi, nuovi utensili che seguiranno il ciclo della vita, il ciclo della terra e conosceranno nuovi destini. La nave sarà trasformata nella miriade di oggetti che un tempo trasportava: macchine, forchette, coltelli, vanghe, pale, bulloni, chiedi e tanti, minuscoli altri oggetti. Sarà compito del mare ricoprire lentamente, ma con sicurezza, la cicatrice lasciata dalla carcassa della nave sulla terra sotto la sabbia, in questa lontana spiaggia del Bangladesh. Le grandi e forti eliche che hanno guidato la nave sulle rotte segrete degli oceani saranno distrutte.
Anche il bronzo - la parte più nobile - sarà recuperato e trasformato in braccialetti, orecchini, anelli e collane, destinati a ricoprire un giorno i corpi delle lavoratrici; il bronzo sarà trasformato in bollitori per il tè dove i lavoratori potranno bere il calore e il riposo dell’anima. Il bronzo, infine, sarà lavorato con le mani, le stesse mani che lavorano e trasformano la nave e rivoltano la terra e raccolgono i frutti; le mani che hanno forgiato il mondo, questo mondo di uomini e donne che giorno dopo giorno lo fanno e lo trasformano e, trasformandolo, fanno e trasformano anche, giorno dopo giorno, il proprio sogno, il ciclo fecondo della terra e del suo calore.
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18-10-2024, 18:41
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#10
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La Valle dell’acciaio
Mia madre, quando ero bambino, mi portava a Belo Horizonte, la capitale di Minas Gerais, lo stato brasiliano in cui sono nato. Viaggiavamo in ferrovia e, a un certo punto del tragitto, cambiavamo treno e traversavamo O Vale do Aco, la Valle dell’acciaio, dove erano concentrate le grandi fabbriche siderurgiche di Minas Gerais. Io guardavo lo spettacolo del ferro lacerare la notte e le ciminiere lanciare lampi luminosi e infernali. Niente mi toccava più profondamente, niente mi impressionava così tanto.
Ancora oggi la fabbricazione dell’acciaio possiede per me qualcosa di religioso: il cerimoniere è il lavoratore dell’acciaio.
Perché una fabbrica siderurgica è come una cattedrale di fuoco e il lavoratore, una volta all’interno della cattedrale, veste il costume della sua cerimonia, indossa la divisa e dà inizio al rituale dell’acciaio.
Questi lavoratori sono per me come divinità immense che governano il terribile apparato necessario alla fabbricazione del metallo che, a sua volta, governa il nostro sistema.
Tutto qui è particolarmente violente e rischioso, fuori misura. Nell’acciaieria, il lavoratore ha l’esatta coscienza che il suo lavoro si svolge al limite tra la vita e la morte, immerso in fiumi di fuoco liquido, intorno a fornaci d’inferno. Ma sa anche che è con l’acciaio che si costruisce il mondo.
Proprio in un’acciaieria ho scoperto l’”uomo-topo”: il suo lavoro è annusare, riconoscere, le fughe di gas sotto i calderoni incandescenti. Il suo compito è fiutare la morte. L’uomo-topo lavora nei sotterranei della cattedrale di fuoco: sfugge, si nasconde, si eclissa.
Il lavoratore dell’acciaio possiede una nobiltà senza pari e il suo comportamento è unico: si indirizza a noi, arrivati dall’esterno, dal mondo di fuori, con una certa condiscendenza. Domina l’universo di fuoco. Domina il mondo.
Quando termina la giornata di lavoro, si toglie la sua armatura e diventa di nuovo uguale a noi. Perde il suo mistero, come accade a un sacerdote quando si toglie i suoi abiti sacri ed esce dalla chiesa. Ma il lavoratore dell’acciaio sa che, il giorno dopo, tornerà nella sua cattedrale di fuoco. Il mondo lo aspaetta. Ha bisogno di lui.
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20-10-2024, 18:39
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#11
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I minatori di Dhanbad
Il carbone giace nel cuore della terra, e il cuore della terra è caldo e umido. I minatori di Dhanbad lavorano ad una temperatura di oltre 55 gradi. Intorno al minatore, nel cuore della terra, ad ogni istante, il pericolo è in agguato e la morte è una minacciosa presenza. La storia dei minatori, in tutto il mondo, è la storia di grandi perdite.
A Dhanbad le miniere di carbone impiegano più di 400.000 persone. Almeno 150.000 uomini scendono nelle gallerie. Fino al 1950, anche le donne scendevano e lavoravano anche di notte e morivano per le esplosioni e gli smottamenti, quando il cuore della terra si agitava furente.
Con l'indipendenza dell'India, è stata varata una legge per tutelare le donne e proteggerle dai tunnel, dalla morte e dall'oscurità. Ma loro continuano a lavorare dodici ore al giorno, sotto un sole non certo più clemente.
La pelle del minatore di carbone è costantemente coperta da una polvere fuligginosa. Resta solo una piccola superficie intorno agli occhi, dove il movimento delle palpebre allontana la polvere. E resta la bocca: l'umidità delle labbra lava via il carbone.
Gli uomini escono dalla miniera trasformati in spettri di polvere nera, con le labbra brillanti e una minuscola superficie chiara intorno agli occhi, da cui promana una luce smorta di fatalismo: il minatore vive in compagnia della morte al centro della terra e sa che questo sarà il destino dei suoi figli, come è già stato il destino dei suoi padri. In nessun altro lavoro esiste un simile fatalismo. Gli uomini del carbone passano la loro vita nel carbone: gli appartengono.
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28-10-2024, 19:41
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#12
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Il vulcano Kawak Indjen
Questo odore di inferno nasce dal paradiso, o almeno nella piccola porzione dimenticata di paradiso che ancora esiste nella regione del vulcano Kawak Indjen, nell'isola di Giava. È l'ultimo di una serie di vulcani dell'isola, che formano un paesaggio meraviglioso e sorprendente.
Il vulcano è vivo, esala gas. Questo gas, che sbocca ad alta temperatura, viene canalizzato in condotte di diceci, quindici metri di lunghezza. Una parte di questo gas, a contatto con le pareti dei tubi, si condensa in gocce che, a loro volta, formano piccoli agglomerati di colore dapprima rosso poi arancio e infine, a seconda della velocità di solidificazione, giallo intenso; si trasformano in placche dure o in stalattiti. Il colore giallo delle placche segnala che lo zolfo si è ormai formato, assolutamente puro, ed è pronto per essere raccolto.
Gli uomini che lavorano alla raccolta dello zolfo vengono dalla piccola città di Licin, separata dal cratere da 27 chilometri di paradiso. Salgono al vulcano traversando le piantagioni di riso, di chiodi di garofano e la foresta tropicale. Una volta arrivati in cima si può ammirare una splendida vista sull'immensa pianura di Giava, che si perde fino al Pacifico. Gli uomini iniziano la loro marcia verso l'una del mattino e in sette ore raggiungono la vetta, sulla bocca del vulcano, a 2.300 metri di altezza, dove l'aria è più trasparente. A questo punto comincia la loro discesa verso il lago al centro del cratere, 600 metri più in basso.
Il loro lavoro si svolge tra nubi velenose e tossiche. Si riparano la bocca con un panno, che di tanto in tanto masticano per tenere umido: questa è loro maschera antigas. Diverse volte nel corso della giornata emergono dalle nubi sulfuree per cercare aria fresca e respirare. Poi riprendono a raccogliere le placche di zolfo nei loro panieri fino a raggiungere un peso di circa 70-75 kg, per uomini che pesano soltanto 60 chili. Trasportano il loro carico su un'asta di legno con un paniere ad ogni estremità, perfettamente bilanciata sulle spalle, e rimontano i 600 metri che li separano dalla bocca del vulcano. Se, all'andata, non hanno avuto bisogno che di qualche minuto per scendere, ora per risalire avranno bisogno di due ore buone di marcia. Arrivati in alto si fermano per mangiare pesce e riso; solo dopo comincia la discesa. Tornano correndo: l'unico modo per sopportare il peso.
Dopo una giornata di lavoro nello zolfo, gli uomini si riposano due giorni: nessuno ha la forza di ripetere ogni giorno un'esperienza così terribile. Nessuno riuscirebbe ad andare dal paradiso all'inferno, e ritorno, senza una pausa.
Hanno le gambe deformate dal peso che trasportano. Sono angeli mutilati di un incessante viaggio tra paradiso e inferno. Ma sono anche un esempio preciso delle leggi che governano il mondo: per ogni giornata di lavoro ricevono tre dollari e mezzo, la metà esatta di quel che ricevevano dieci anni fa per lo stesso lavoro, per lo stesso zolfo.
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