Un pagliaccio triste: cominciare una riflessione, un manoscritto o una qualsiasi cosa con un ossimoro del genere può essere demenziale, ma allo stesso tempo geniale. La genialità, però, è una caratteristica che non appartiene a chi sta scrivendo, quindi meglio optare per l’assurdità della cosa.
Raccontare la storia di una persona così bizzarra non è impresa facile, tanto più se si pensa che neanche essa stessa ha mai compreso appieno le dinamiche della propria vita: forse era troppo poco geniale per farlo, o semplicemente c’era ben poco da capire.
Uno dei grandi problemi di V. (chiameremo così il pagliaccio) era il fatto che fosse comunque dotato di una discreta intelligenza, o quantomeno di un minimo di razionalità. E, si sa, la razionalità porta a porsi delle domande, e a cercare delle risposte. Cercare però di capire un qualcosa che si basa su un ossimoro, su un’assurdità, su un concetto che non ha alcun senso, è decisamente utopistico. E l’utopia, in quanto tale, a lungo andare diventa deprimente e deleteria.
Ma torniamo al protagonista della vicenda: il suo compito, per definizione, era quello di far ridere e divertire la gente, senza di fatto chiedere mai nulla in cambio. Al massimo poteva ottenere un applauso, o, se fortunato, un’ovazione: consolazioni magrissime, certo, ma V. era da sempre abituato ad attingere a piene mani dai gesti più semplici, quei gesti che a molti sembrano insignificanti. La cosa di per sé poteva anche esser positiva: ma se si può esser felici per un gesto all’apparenza normalissimo, allo stesso modo si può esserne anche tristi e sconsolati.
Anche il rapporto con i suoi genitori è sempre stato contraddittorio, bizzarro: V. ha sempre avuto l’impressione di dover esercitare la propria professione (quella del pagliaccio, appunto) anche con loro, soprattutto con loro. Un pagliaccio un po’ diverso, però: non la figura che ha come unico scopo quello di proiettare la propria vita e i propri sforzi nel divertimento altrui, bensì quello di assecondare tutte le loro richieste. Se riusciva bene in qualcosa non cambiava nulla, aveva semplicemente svolto il suo dovere. Se ciò non accadeva, tutto diventava ulteriormente più complicato. Ad ogni modo, V. non ha mai dato loro la colpa (ammesso che ne avessero): d’altronde se in tutti i suoi anni di vita non era mai riuscito a chiamarli “mamma” e “papà” come qualsiasi altro figlio farebbe, un motivo doveva pur esserci. E la cosa diventa ancor più lampante se si considera che per vari periodi della sua infanzia il nostro pagliaccio ha vissuto senza i suoi genitori: effettivamente, alla luce di tutto ciò, pretendere che le cose potessero andare in maniera diversa non aveva molto senso.
V., però, aveva un altro grande, enorme difetto: aveva un cuore, e sentiva bisogno di affetto, di amore, di condividere la propria vita con qualcuno. Tale pensiero già di per sé può esser pericoloso e foriero di delusioni ed amarezze. Per V., però, era ben più complicato, perché così facendo veniva meno al principio cardine della sua professione, della sua vita: far divertire le persone, senza pretendere nulla in cambio, né sperare che oltre al rapporto pagliaccio-spettatore potesse in qualche modo crearsi dell’altro.
Il nostro eroe in cuor suo era assolutamente consapevole che sperare in cose del genere era sbagliato, e che da tali pensieri avrebbe ricevuto delusioni ed amarezze, nulla più. Purtroppo, però, certe cose non si possono scegliere, né si possono decidere a priori, e per questo motivo V. non poteva fare a meno di illudersi di poter avere una vita almeno in parte normale, una vita come quella delle persone che spesso intratteneva.
Ed era proprio con alcune di queste persone che i problemi si ingigantivano enormemente: bastava un applauso più forte, un’ovazione più convinta per farlo illudere che la persona in questione apprezzasse non solo la sua performance, ma un po’ anche l’autore della stessa, cioè lui. In cuor suo sapeva di sbagliare, eppure non riusciva a farne a meno.
Son state proprio le persone che lo hanno applaudito in modo più fragoroso e compiaciuto a ferirlo maggiormente, anzi terribilmente. Destini già segnati da tempo, ovviamente, ma ciò non permetteva certo a V. di soffrirne meno, anzi.
Tra tanti difetti, il pagliaccio aveva però un pregio: pur tra mille difficoltà, era stato sempre pronto a ripartire, a ricominciare tutto daccapo. Certo, per ripartire si intende il tornare a fare ciò che gli riesce meglio, ovvero essere una sorta di grottesco spettacolo per l’altrui soddisfazione, ma era pur sempre un modo per ricominciare.
Il più grande sogno di V. era smettere i panni del buffone e indossare quelli della persona comune, se non dello spettatore, anche solo per un breve periodo. D’altra parte era ben consapevole dell’impossibilità della cosa, perché lui era nato per essere un pagliaccio, nient’altro che un pagliaccio.
Erano due le opzioni che riteneva plausibili: continuare con la sua vocazione, col suo modo di vivere e di essere era, tra le due, quella che lo terrorizzava in modo minore, il che non era certo positivo, tutt’altro.
Cosa decise di fare il pagliaccio non ci è dato sapere: magari si esibisce ancora nei suoi spettacoli tristi ma allo stesso tempo divertenti, o magari sta ancora aspettando il suo Godot. O magari… chissà.
Questa è la storia di V. il pagliaccio: nessuno sa se ad essa si aggiungeranno altre parole, altri capitoli. Forse sì, o forse no, ma è anche possibile che terminare qui la narrazione sia il male minore.
Lascio il mio foglio con la speranza di non averlo tediato eccessivamente.
Con affetto,
l’alter ego di V., per servirvi.