When I'm at the pearly gates
This'll be on my videotape
My videotape
My videotape
When Mephistopheles is just beneath
And he's reaching up to grab me
This is one for the good days
And I have it all here
In red blue green
In red blue green
You are my center when I spin away
Out of control on videotape
On videotape [x6]
This is my way of saying goodbye
Because I can't do it face to face
So I'm talking to you before it's too late
No matter what happens now
I shouldn't be afraid
Because I know today has been the most perfect day I've ever seen.
Ho sempre considerato i Radiohead i precursori di un male che verrà, i loro dischi e le loro canzoni si sono trasformate in temi e significati fino a distillarsi in pochi versi, in suggestioni.
Ognuno dà le proprie interpretazioni, questa è la mia:
Il testo e la musica vanno di pari passo, la ripetizione meccanica della batteria ricorda la riproduzione di una cassetta e il pianoforte ha lo spartito semplice di un'elogio funebre. La voce è soffocata, sibilata come una pena e inizia con una confessione, un peccato mortale che lo ha condannato alla dannazione eterna. Il cancello di perla e Mefistofle si rifanno alle immagini antiche dell'espiazione e della condanna, sopratutto il collegamento con Mefisto ricorda il Faust, e perciò l'idea che colui che parla abbia barattato la sua anima con qualcos'altro. Ma anche nel momento della sua catastrofe si manifesta l'ossessione di tutto il brano, l'incapacità di sentire, di ricordare, e l'intenzione di usare un surrogato come la registrazione, la cassetta analogica in grado di mostrare solo i colori primari.
Li conserva per i posteri, per i suoi momenti migliori, ma nonostante l'angoscia tutto ciò che viene stampato su nastro non è lui o ciò che rappresenta la sua caduta, ma solamente rosso blu e verde, ancora e ancora. Lo vedo come un riferimento ai testi di Amnesiac, al capolavoro che è street Spirit, dove veniva detto chiaro e tondo che le macchine, la digitalizzazione e gli oggetti che ci circondiamo, fossero anche diretti come i telefoni o i microfoni non sono in grado di scandagliare la solitudine in cui ci troviamo.
Ma qui siamo più avanti, nell'era della digitalizzazione noi SIAMO l'immagine, e ciò che vogliamo essere diventa ciò che vogliamo rappresentare, come attori. I nostri atteggiamenti autolesionisti, la nostra isteria non è neppure più la rappresentazione di noi stessi, ma ciò che l'immagine pretende da noi.
E ripete del suo mancato autocontrollo nell'immagine, nel rosso blu e verde che ormai sono le particelle della nostra stessa anima.
Esiste un qualcosa che probabilmente è andato perduto e forse non c'è mai stato, che sia una relazione o l'illusione della stessa che ancora permetteva un contatto con la realtà. Io credo che si riferisca ad una scheggia di sè stesso che ancora esisteva.
Poi passa ad un congedo, come la lettere di un suicida, ma io la percepisco più come un'abbandono nella dissoluzione dell'immagine, la resa alla trasfigurazione che avviene nello stesso momento in cui si compie il messaggio. Il tono si alza, il ritmo diventa ingombrante con un'arco che sottolinea il cambiamento, nelle ultime parole è sottointeso che questo è l'ultima volta che riuscirà a parlare, e che è felice di averlo fatto prima che fosse troppo tardi.