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Vecchio 02-09-2008, 14:56   #1
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L’aggressività dal punto di vista della psicologia clinica-dinamica

Sigmund Freud fu tra i primi ad occuparsi in modo articolato di aggressività e da subito la postula come dimensione pulsionale-motivazionale inconscia, orientata alla distruzione e contrapposta alla spinta generativo-conservatrice della libido.
Questo punto di partenza freudiano pone l’aggressività come un istinto connaturato nell’uomo, presente nella sua personalità e motivante, che obbligherà gli autori che si occuperanno di aggressività a dover sempre fare i conti con la questione motivazione e con un relativo modello della mente.
Freud, in modo confuso ed incompleto, ipotizza che
l’aggressività-distruttività sia istintuale-originaria, che sia un comportamento reattivo, ovvero una risposta alla frustrazione , nel senso di un’incapacità dell’io di mediare rispetto ai bisogni intrasistemici della mente.

Contemporaneamente a Freud, sul tema si espresse Alfred Adler (Adler, 1907, 1912), attraverso i suoi Studi Sull’inferiorità d’Organo (Adler, 1907), egli sostiene che
l’aggressività viene agita per compensare un sentimento di inferiorità sentito dalla persona.
Questo presuppone che l’aggressività sia l’effetto di un brutto rapporto con l’ambiente e che l’aggressività sia una strategia estrema dell’individuo, finalizzata alla realizzazione di se stesso.

In questo pensiero adleriano è fondamentale il sentimento di odio e rancore, che abbassa il sentimento sociale e relazionale, permettendo così l’agito aggressivo di rivendicazione rispetto ad un senso di inferiorità sentito.

Sempre nello stesso periodo, un’altro importante contributo arriva da Anna Freud (A. Freud, 1936, 1949a, 1949b, 1972), che individua un meccanismo di difesa dalle esperienze aggressive subite, che prende il nome di l’Identificazione con l’Aggressore (A. Freud, 1936) e presente in modo evidente nel bambino che ha subito aggressività, ma possibile anche nell’adulto ed individuabile nei comportamenti sociali (si pensi alla dinamica del capro espiatorio).
Attraverso l’identificazione con l’aggressore (difesa impregnata di paranoia) il soggetto si difende da un atto aggressivo riproducendolo in forma simbolica (esempio, con il gioco nel caso del bambino), o attraverso l’agito, permettendo così una reiterazione del trauma subito, capace nel tempo di renderlo accettabile alla coscienza.

La figlia di Freud non introduce variazioni rispetto alle teorizzazioni paterne sull’aggressività, ma scopre un comportamento di difesa contro forme di aggressività vissute come esperienze traumatiche.

Altri autori che hanno arricchito le conoscenze sull’aggressività furono poi Wilhelm Reich (Reich, 1933) e Otto Fenichel (Fenichel, 1945).

Il primo, nel suo lavoro Analisi del Carattere (Reich, 1933), ancora per una volta colloca
l’aggressività come una sorta di reazione alla frustrazione, causata molto spesso dalle condizioni sociali che limitano l’individuo stesso.
In questa visione, pertanto, non esiste una pulsione di morte, ma solo una libido in eccesso non adeguatamente scaricata, frustrata, e quindi agita per mezzo di azioni aggressive.


Anche per Otto Fenichel, nel suo lavoro Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi (Fenichel, 1945), l’aggressività non è primaria (pulsionale), ma è finalizzata alla ricerca di autostima e alla soddisfazione di bisogni e desideri, dal momento che altri comportamenti adottati in passato si sono mostrati inefficaci, o dal momento che la persona, a causa di una specifica storia evolutiva, non possiede altri “strumenti comportamentali” che non siano quelli aggressivi.

Ancora da una prospettiva diversa, distante da Hartmann e dalla Psicoanalisi Ortodossa ed anche da Fromm, è il pensiero e la complessa teorizzazione di Heinz Kohut (Kohut, 1971, 1972, 1977), padre del movimento della Psicologia del Sé, che tratta l’aggressività a partire dal paradigma psicoanalitico del Narcisismo.
Secondo questo autore
la distruttività umana, per mezzo dell’aggressività, si sviluppa in seconda istanza ed attraverso fallimenti relazionali precoci, dove il bambino non incontra adeguate soddisfazioni a livello empatico, e non vive adeguati e buoni “rispecchiamenti” empatici con la madre.
Questo impedirà al bambino di integrare adeguatamente fantasie narcisistiche di grandiosità ed onnipotenza, che così libere ed agite nella limitatezza della “realtà”, sono destinate ad essere frustrate e a generare “rabbia narcisistica” (Kohut, 1977), che verrà espressa per mezzo dell’aggressività e finalizzata alla distruttività.
Pertanto in Kohut troviamo l’aggressività come espressione di una ferita narcisistica e questa aggressività sarà tanto più violenta quanto più vi è un investimento sul proprio narciso.
Per Kohut il narcisismo è una parte sovra-ordinata ed organizzativa, detta anche sé, che - diversamente da Freud - non corrisponde sempre ad una condizione patologia, ma che può ammalarsi se l’investimento su questa sovra-struttura è “grandioso” (Kohut, 1972).


Zulueta nel lavoro Dal Dolore alla Violenza (de Zulueta, 1993) contrasta la posizione istintivistica sull’aggressività, ribadendo la natura e il valore socio-culturale della stessa.
L’aggressività si sviluppa dalle relazioni interpersonali ed in modo particolare da quelle carenti di affettività.
Zulueta parte dalle concezioni bolwlbiane sull’attaccamento e dalle posizioni di Kohut sullo sviluppo e la realizzazione del sé, per giungere a definire come l’aggressività sia un comportamento di risposta a rotture traumatiche di attaccamento (abbandono; maltrattamento; rifiuto…).
Queste toglierebbero la dimensione della sicurezza affettiva a favore di una reazione di paura espressa per mezzo dell’aggressività.
Così il soggetto, attraverso il trauma della rottura dell’attaccamento ed attraverso l’impossibilità di costruire un sé buono, integro e positivo, si trasforma da vittima ad aggressore.


Una visione d’insieme

Rimanendo sul paradigma dell’aggressività come scarica di una eccitazione corporea, aggiungono informazioni quegli studi che la vedono come reazione ad una condizione frustrante.
Tale filone di ricerca sostiene che l’aggressività è un mezzo di sfogo, che parte da un disequilibrio interno, matura da una mente desiderante ed implicitamente bisognosa, e scarica aggressività quando queste sue istanze non sono ben coordinate e soddisfatte.


Qui sono importanti due punti: da un lato questo sfogo aggressivo può avvenire “a distanza” rispetto al momento o al soggetto causa di frustrazione: ciò significa che si può essere aggressivi anche con chi o con cose che con la nostra frustrazione fonte di aggressività non c’entrano nulla.

Parallelamente a queste posizioni, l’aggressività viene anche pensata come istanza energetico-istintuale dell’individuo e coinvolta nei processi generativo-evolutivi della mente.
In questo modo l’individuo è depositario congenito e naturale dell’aggressività e dei suoi risvolti come la violenza e la distruttività, e questo a prescindere dal contesto sociale, che assume più un ruolo di luogo nel quale l’aggressività può essere trasformata e/o annullata, più che generata.

Qui la logica si ribalta, da un’aggressività elicitata e funzione di una cultura e di una società, ad un’aggressività ontogenetica e insieme filogenetica, che partecipa allo sviluppo della mente e che può assumere configurazioni mentali molto differenti, lungo un continuum tra salute e malattia.


In questa ultima posizione di pensiero, quando si parla di aggressività, va dunque tenuto conto che essa è un elemento organizzatore e costituente la personalità; che è precoce; che è riparatoria-difensiva rispetto a mancanze strutturali di personalità o economiche; che ha un elaborato dinamismo nel quale compaiono affetti e sentimenti (la rabbia, l’odio, l’invidia, l’irritazione…).
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