E' difficile scrivere oggi sopra a questi tasti di pianoforte, con questo profumo di gigli che un'insolita corrente del nord fa ancora più fresco.
Questa sera la fiamma dello stabilimento di raffineria ha ripreso a tremolare sulla sua torre, spandendo un'opaca oscurità verdastra intorno, sul turchese del crepuscolo. Come una città futuristica, il gruppo di strane torri brilla dei suoi molti fari, lampioncini e luci che si ergono a frastagliare l'orizzonte con i loro profili cattivi.
Intanto questo doloroso tramonto accende le mie ferite da scoglio e il cemento in lontananza, tingendolo di un rossiccio quasi anticato.
C'è odore di mare, di ferrovie, di anidride carbonica rilasciata dagli aerei che decollano minuscoli nell'aeroporto a pochi chilometri di pianura.
Pare che il casello dell'autostrada sia stato costruito per lampeggiare in eterno, per deturpare questa campagna che sopravvive con i suoi odori nascosti, con i suoi grilli stanchi, i suoi gatti lamentosi e i suoi terreni pallidi.
E c'era quest'aria satura di anidride carbonica anche ieri sera, mentre correvo senza riuscire a stare al passo delle lunghe gambe di mia zia. Giù per quegli sterrati senza più lucciole ho chiuso gli occhi lacrimanti di fatica.
Adesso ci sarebbe stata un'enorme quercia di cinquecento anni, proprio qui, davanti a me, se non si fosse sradicata durante uno di questi torridi pomeriggi. Mia zia era rientrata un attimo per prendere altri panni da stendere sul terrazzo e, uscita di nuovo, l'albero già non c'era più: riverso sul campo di girasoli si era sdraiato lentamente, senza uno scricchiolio. Come un vecchio stanco.
Invece qua c'è sempre casino, in questa casa, ed è difficile scrivere.
C'è una colonna piena di segni a matita, in questa casa. Sono i segni delle altezze della gente che è passata in quella casa, e le mie sono le più sbiadite, credo. L'ultima risale al 2006, ma avevo già smesso di crescere molti anni prima. Poi i miei zii hanno cominciato a segnare anche le altezze di altre persone e infine quelle dei propri figli.
Ora una vecchia finestra ha preso a sbattere per il vento e ora ci immagino mia cugina tra un po' di anni, alta, splendida con la sua coda di cavallo dietro la nuca, che si affaccia per parlare a voce alta a qualcun altro giù in strada; proprio come ha fatto ieri.
Ora invece è andata via la luce, ed è ancora più difficile scrivere, col foglio sempre appoggiato ai tasti bianco panna del pianoforte di mia cugina, che ha provato ad attaccare il phon per asciugarsi i lunghissimi capelli mentre la lavatrice era accesa. Tutti si affaccendano trafelati per far tornare la corrente, mentre mio cugino più piccolo continua a far rimbalzare per terra una palla di gomma. Se chiudo gli occhi diventa buio e mi rendo conto che potrebbero essere anche le quattro di notte; e per un attimo immagino che siano davvero le quattro di notte e che tutti si siano impazziti e si comportassero come se fosse giorno.
Passa un treno, e con il suo rumore anche la solita sensazione di compiaciuta amarezza.
E' difficile scrivere, oggi. Soprattutto adesso che riapro gli occhi e realizzo che il giardino davanti a questa finestra non è altro che un comunissimo sputo d'erba con quattro alberelli potati e un comunissimo gatto obeso dei vicini che ci indugia annoiato. Eppure quand'ero piccola sembrava tutto così affascinante e angosciante: le mattonelle rossastre; quell'odore di casa d'altri; le sbarre di quel terrazzo tra le quali potevo infilare la testa a mo' di ghigliottina e guardare di sotto: chissà cosa c'era di sotto, oltre la veranda dei vicini; chissà che una lama pesante non fosse caduta dalle nuvole proprio perpendicolarmente alla mia nuca.
Ma questo posto vibra ancora di quella magia infantile, anche adesso, con questo sentore di luce rossiccia che sbiadisce, e queste rotaie, e questa erba arida e puzzolente e queste urla prolungate di ragazzini che riecheggiano lungo il morire del tramonto.
E poi c'è questo suono confuso, eterogeneo proveniente dalla città; questo suono eterno di città, di grilli, di motorini, di traffico d'autostrada, di cani sperduti che abbaiano e gente che chiacchiera. Ascoltare questi suoni è come come passare la mano sulla superficie di uno strano intruglio, dal quale affiorano di tanto in tanto parti più dense. Tipo una vasca piena di vomito.
Per quanto faccia schifo, il vomito è una cosa naturale. E credo che in questa città, come in qualsiasi altra realtà umana, le cose siano destinate a prendere la loro piega più naturale.
Con il suo mare sporco, che certe mattine è invece un'incantevole distesa piatta e felice puntellata di corpi anziani; con questa tangenziale piena di sporcizia e prostituzione, su cui ogni mattino alle sei passa mio zio per andare a lavoro...Questo è un posto che mi affascina, con tutte le sue assurdità nascoste, con i suoi vecchi che ti squadrano e cambiano strada per non incrociarti se non gli piace la tua faccia o le tue gambe o la tua giovinezza; con le pretese architettoniche dei suoi quartierucoli più imborghesiti....con le sue spiagge rosicchiate dalle maree invernali e rimpiazzate alla meno peggio da ghiaie terrose di cantiere...con il suo lungomare spoglio puntellato di localetti alla moda un po' pacchiani e inverosimili.
Sento che potrei sdraiarmi tra questi campi e scomparire con un fruscio di serpenti, come una vecchia quercia. Sento che potrei lasciarmi sballottare in eterno dal vento come il lembo di una striscia bianca e arancione legata intorno a qualche barchetta spiaggiata...sento che potrei rotolare tra un'infinità di sassolini come un vetro verde che si smeriglia e si perde, per sempre.
Sì, è difficile scrivere sopra a questi tasti di pianoforte senza farli suonare.
Eppure, tra il rimbombare di un aereo e lo squittire degli irrigatori di prati vicini, è anche difficile non far suonare le note scordate di un corpo giovane ma stanco, di un'esistenza rotta. E due note in dissonanza suonano all'improvviso quando mi alzo di scatto, al vibrare terrificante di un tuono vicino, potentissimo e acuto.
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