Prendo spunto da un discorso fatto con una persona che ne sa molto più di me di queste cose. Mi racconta che una istituzione, un qualsiasi ente, è di per sè conservatore, perchè non può accettare che una persona porti la sua diversità, il suo modo di essere differente, all'interno di questo dato sistema, ente, istituzione,pena lo snaturamento dell'istituzione stessa e la perdita del potere di chi lo detiene. Mi riferisco ai luoghi di lavoro, mi riferisco alla vita sociale in generale, al modo di giudicare delle persone.
Ora, siccome molto spesso nel lavoro mi è stato fatto notare che faccio di testa mia, che sono testardo(il che è vero) che non seguo le regole datemi(assolutamente non vero a livello conscio, mi sto invece convincendo che è così da un linguaggio metalinguistico, ovvero inconsciamente trasmetto rabbia, rancore), vorrei capire fino a dove un individuo può spingersi nell'essere se stesso nella vita che definiamo ''pubblica'', nel rapporto con l'autorità, con le istituzioni, con il lavoro, con gli enti con cui ci rapportiamo(e di cui spesso noi fobici abbiamo paura e quindi assumiamo un atteggiamento evitante, scostante, di fuga, sospettoso) e fino a dove invece questo individuo ''deve'' passivamente seguire queste regole sociali, se non vuole che questi gruppi di persone che formano il consorzio civile, lo spingano al di fuori di volta in volta del lavoro, di un gruppo di amici, di un gruppo associativo qualsiasi.
Alla mia obiezione, che io non ho un bottone ON-OFF per accendermi socialmente e seguire le regole senza assolutamente essere me stesso, e per spegnermi invece quando sto con la ragazza, gli amici, i parenti e quindi essere me stesso perchè sono autentico e non seguo regole sociali imposte per quanto assurde possano essere, la risposta fornitami dall'esperto in questione è che bisogna mettere in atto un processo di ''modellamento'', di gestione dello stress quotidiano, quindi se comprendo bene la capacità di gestire questi rapporti ''burocratici'' ''lavorativi'' ''inautentici'' e lo stress che provocano e riuscire comunque a conservare una parte di sè autentica e vitale. Mi sembra molto corretta questa visione delle cose.
Dal momento che non mi è stato possibile per tempo proseguire la conversazione con questa persona, voglio porre questo dilemma che mi interessa, fino a dove arrivi la capacità della persona fobica e\o evitante di adattarsi a un essere non-autentici e gestire i rapporti ''lavorativi'', se siete d'accordo con questa affermazione con cui sono d'accordo, che non si può essere sempre se stessi in questi luoghi dove non vigono rapporti di amicizia ma fondamentalmente rapporti di interessi e spesso anche competizione, e fino a dove questo rapporto adattamento-inautenticità si incastri con il carattere evitante-fobico, quindi implicitamente deviante per l'istituzione, della persona che viene quindi osservata come una mina vagante, come una minaccia per l'ordine costituito.
Fino a che punto la disadattività dell'individuo fobico e\o evitante è una minaccia per quei gruppi di persone che denominiamo società? Fino a che punto la derisione dell'individuo in questione è un fatto di stigmatizzazione di una differenza che viene vista come un pericoloso mutamento delle rigide regole non scritte ma socialmente accettate, nei rapporti specialmente di interesse?
Mi scuso per la lunghezza del thread, ma voglio approfondire questo aspetto perchè ho avuto diverse esperienze di rapporti di interesse, lavorativi, nel quale è emerso questa mia asperità caratteriale nei rapporti dell' ''ente'' lavorativo, nonchè nella vita sociale più formale in generale, la incapacità personale adattiva di seguire ''passivamente'' ed ''acriticamente'' delle regole certo non scritte ma ben codificate di un gruppo di persone che facciano riferimento ad un associazione di qualsiasi tipo, riferendomi in particolare specie a rapporti di interesse.