Ricordo mio nonno, l'unico che ho conosciuto perché l'altro morì quando mia madre era una bambina. Era un uomo taciturno, serioso e suggeva la zuppa producendo un suono gorgogliante che aggrediva il mio udito spaesato.
Ricordo la tavoletta di legno che aveva fissato sulla frizione della sua 126 color magenta, e l'altra piazzata sopra un pedale del motorino. E c'era un motivo.
Ricordo che all'improvviso entrava nella camera dove dormivo e accendeva la luce al soffitto per mettersi a frugare dentro un mobile dove teneva i suoi ricordi. Io non dicevo niente, fingevo di continuare a dormire e quando usciva sentivo mia nonna che lo rimproverava, ma lui rimaneva in silenzio senza vacillare e sapevo che avrebbe continuato a mettere in pratica tale comportamento. Era indecifrabile, e a parte questo non alzò mai la voce con me né le mani, quello a volte lo faceva mio padre ogni volta che ero causa di arrabbiature e perdeva il controllo. Mia nonna gli diceva: non picchiarlo in faccia, se proprio devi picchialo sul culo. Una volta me ne diede così tante che ero scosso dai singhiozzi e facevo fatica a respirare mentre fissavo il vuoto con l'occhio di un'animale ferito; ma non era un uomo cattivo, era solo un uomo che soffriva.
Passava le giornate con la settimana enigmistica e a volte gli fornivo soluzioni. Le uniche conversazioni che abbiamo avuto nel corso della vita, mio nonno ed io, vertevano sulla seconda guerra mondiale. Ho sempre amato la Storia, qualsiasi tipo, fin da quando ero un bambino delle elementari e nutrivo un'agenda dove incollavo foto di monete e busti di marmo e scrivevo testi presi dai libri.
Non so se avesse creduto veramente nel fascismo, qualcosa, forse una sorta di pudore, mi impediva di chiederglielo, ma un fatto era certo: a vent'anni si era trovato a combattere in Grecia e durante la ritirata perse la gamba: mio nonno aveva una gamba di legno.
Ogni volta tirava fuori fotografie in bianco e nero piene di ragazzi dai sorrisi malinconici e dagli sguardi colmi di lontananze, e mi raccontava storie di guerra, mi ricordava quando aveva imparato a fumare solo per scaldarsi le mani con il tizzone ardente della sigaretta durante le lunghe e fredde notti. Mi raccontava delle violenze e degli stupri che i suoi commilitoni avevano perpetrato nei confronti degli inermi civili, ai quali lui si era fermamente rifiutato di partecipare senza tuttavia poterli impedire.
Avendo sacrificato la sua gioventù al regime dittatoriale che infuriò in Italia rimase profondamente legato ai reduci e invalidi di guerra che avevano condiviso con lui, come fratelli colmi di un sentimento disperato, l'orrore.
Lui aveva fatto parte dell'ombra che si era allungata come un incubo dalle ali nere sull'Italia, e non mi parlò mai della Resistenza.
Quando venne colpito dell'Alzheimer divenne simile a una piccola creatura, non riusciva più nemmeno a formulare frasi o parole di senso compiuto, a volte dava in escandenscenza e alzava le mani su mia nonna, la persona che nonostante tutto continuava a pulirgli anche il culo: e se quello non era Amore allora non so cosa fosse. Lei che portava lo stesso antico nome della figlia di un faraone, e l'ho scoperto, assurdo, solo una decina di anni fa. Lei che era così bella che avrebbe potuto scegliere qualsiasi uomo ma scelse lui: l'invalido con la gamba di legno.
Rideva di gusto, l'espressione innocente e colma di meraviglia, con gli occhi spalancati come quelli di un bambino, al punto che faceva sorridere anche me e mia nonna, quando si metteva a vedere il wrestling in tv, attività che prima non l'aveva mai interessato e dopo la malattia era diventata la sua preferita.
Persone come lui avrebbero senza dubbio disprezzato e provato pena per coloro che in epoca recente si fossero permessi di parlare di fascismo, inneggiando un tempo che non avevano mai vissuto e che nemmeno conoscevano se non in modo confuso e superficiale.
Un altro mio parente invece, un fiero bersagliere all'epoca, affrontò con l'animo stoico l'allegra Campagna di Russia e la relativa ritirata durante la quale, a causa delle assurde condizioni e del gelo, perse due dita e un pezzo di calotta cranica. Vestiti duri come pezzi di ghiaccio, scarpe dalle misere suole di cartone, terra di nessuno dove all'orizzonte, in qualunque direzione si guardasse, si vedeva solo terra brulla, cadaveri e macerie.
Da bambino, affascinato, non mi stancavo di ascoltare le sue storie, terribili come scorci di un inferno ghiacciato, storie che raccontavano la disperazione di una generazione di giovani combattenti che si lasciavano morire durante la lunghissima e non meno disperata marcia che, a piedi, e poi con altri mezzi di fortuna, dal suolo russo li riportò in Italia. Sotto lo sguardo di una ineluttabile allucinazione percorsero migliaia di chilometri spinti solo dalla disperazione, dalla fame, dal freddo, dalla paura. Alcuni chiedevano ai compagni di ucciderli perché loro non erano in grado di farlo e non erano nemmeno più in grado di sopportare la disgregazione dei loro ideali e delle loro giovani vite.
Codardi tristi e inconsapevoli coloro che si azzardano a proferire parola, come se fossero chiacchiere al bar dello sport, sopra tutto il sangue che Italiani nel fiore delle loro vite furono costretti a versare, assecondando l'esaltata follia di Mussolini il quale gettò, come fosse un sasso, un intero paese, che non aveva gli adatti mezzi economici né quelli militari, in un turbine bellico che assunse i connotati di un suicidio collettivo.