Vorrei mettere in chiaro che la mia compagna, la "persona terza" in questione, è conscia del fatto che vi leggo e mi sono iscritta appositamente per approfondire determinati argomenti. Da parte sua non ha intenzione di mettersi qui in prima persona poichè rassegnata e stufa di dover ripetere la sua storia a terzi, ma apprezza che voglia provarci io
Per quanto mi riguarda proverò a fare un sunto di quale è stata la mia "vita da normalona" per la quale mi sento di empatizzare e rispettare chi ha difficoltà sociali.
Non sono mai stata una bambina e poi ragazza molto sociale. Desideravo il contatto, mi approcciavo in modi strampalati cosiddetti da pagliaccio quando notavo che le modalità più classiche non mi si addicevano, ma per la maggior parte non ottenevo l'attenzione che desideravo. Ho vissuto sotto la cosiddetta campana di vetro dei miei genitori, iper preoccupati che potesse accadermi qualsiasi cosa anche solo ad attraversare la strada non sorvegliata per andare a trovare il compagno di scuola (questo a causa di un pedofilo paesano che una trentina di anni addietro aveva preso di mira alcune bambine, tra cui me. Da bambina avevo comportamenti rabbiosi e talvolta peculiari, per cui ho partecipato a degli incontri con psicologi per capire se quella persona aveva influito sul mio stato d'animo).
Per cui da bambina ho sempre avuto poche amicizie che coltivavo scrupolosamente, fino a compiere errori di calcolo (mancanza di empatia, troppa espansività, radicazione di preferenze personali, disinteresse verso gli interessi altrui, etc.) o semplicemente fino a non riuscire a frequentare fisicamente le persone verso le quali provavo simpatia.
Mi sono rifugiata per anni sul web, dove tutto era ed è ancora sicuramente più facile. Ho incontrato le persone più disparate e ricordo ognuna di esse, da quelle che ritenevo migliori a quelle che sempre io ritenevo peggiori. Essendo controllata a bacchetta fin durante le superiori, incontrare queste persone voleva dire inventare relazioni fantasma tra di loro e mostrare cosa stavo realmente scrivendo (ad esempio ho conosciuto delle ragazze salernitane su un forum di cartoni animati, che ho incontrato a Torino per una fiera del fumetto... chiunque avessi piacere di incontrare successivamente, magicamente era relazionato a quelle due ragazze che i miei genitori avevano conosciuto e ospitato sin dal primo incontro dal vivo).
Questo genere di controllo mi ha resa molto misantropa da un lato, e altrettanto desiderosa di sempre più socialità dall'altro. Arrivato il tempo dell'università sono riuscita a fuggire parzialmente da queste catene, ma sempre per esse non ho mai trovato lavoro (che non fosse testualmente "sotto casa, a poca distanza, fuori dai pericoli della città") e spesso mi rifugiavo a casa della mia ex compagna a 50 km da casa.
Sorvoliamo allegramente sul periodo omofobico casalingo. Anche qui ho affrontato sedute psicologiche, così anche i miei genitori, per l'odio che provavamo a vicenda ma dal mio punto di vista io avevo bisogno solo di uscire dalla porta di casa e staccarmi dal nido, per cui contro la loro volontà ho interrotto gli incontri (si può chiamare terapia? non ne sono sicura).
Attualmente mi trovo molto più a mio agio davanti a una tastiera, dove posso controllare e articolare alla meglio il mio pensiero, che in un comunissimo pub davanti a una birra. Cosa che accade volentieri e in totale rilassatezza solo con persone che conosco da tempo e con le quali non ho particolari freni logici. Per inciso, ho 2 amici, 2 di numero, che conosco da una decina di anni e non ho questo genere di rapporto con nessun'altra conoscenza. Semplicemente non ci riesco. Ci ho comunque riprovato nel tempo, ad allacciare nuove amicizie, con il perenne timore di rimanerne profondamente ferita, delusa, dando da subito colpa agli altri per poi tormentare me stessa con le domande "cosa ho fatto di sbagliato? forse dovevo fare così e non cosà? cos'è che non piace di me?".
Comunque, la campana di vetro citata qui sopra mi ha portata anche ad avere relazioni soprattutto platoniche. Le poche che ho vissuto fisicamente sono state velocissime, maldestre, tutte clandestine da conoscenza sul web. La persona con cui stavo in precedenza aveva una situazione opposta alla mia: aveva un lavoro, una casa di proprietà, un'auto propria, tutta la libertà del mondo ma totale sfiducia e odio verso il prossimo, in particolare verso "chi è felice e chi ha le cose che lei non aveva". Eterofoba nel vero senso della parola, spesso apatica, interessata principalmente al collezionismo compulsivo di oggetti.
La relazione con lei è durata quasi 10 anni, di cui 3 di convivenza. Abbiamo passato assieme il periodo di omofobia dei miei genitori e di accettazione dei suoi parenti (i suoi genitori, anziani, non sapevano come reagire e preferirono l'omertà, ma non il disprezzo). Durante quegli anni ho spesso cercato, con diverse modalità, di aiutarla a ritrovare fiducia nell'umanità e vivere più serenamente. Ad oggi posso dire di aver fallito come è fallita la nostra relazione che pareva non dovesse affatto finire.
La nota positiva in tutto ciò è che il rapporto, e la conseguente libertà di espressione e movimento, con i miei genitori è migliorata come non mai.
Veniamo alla situazione che mi ha portata qui da voi.
Ho conosciuto la mia attuale compagna sempre via web. Nè io nè lei siamo frequentatrici di locali per incontrare nuove persone e/o potenziali partner (io non ci sono abituata, a lei semplicemente non piacciono i locali).
Inizialmente ci siamo conosciute con conversazioni classiche: cosa piace e non piace, la musica preferita, cucina, vecchie relazioni, argomenti molto easy. Decidiamo infine di incontrarci e ci piacciamo molto, praticamente subito. La cosa prospettava di diventare seria quindi lei ha messo le mani avanti: mi ha raccontato delle sue diagnosi passate, della sua invalidità, delle comunità che ha frequentato, dei farmaci, della relazione coi genitori, di tutto ciò che potete immaginare ci stia attorno e ha aspettato la mia reazione.
Sinceramente sul momento ho riascoltato gli audio e riletto i messaggi. Non mi ha mai sfiorato il pensiero "questa è matta, o lo è stata, e non ci voglio avere a che fare con gente così". La persona che vedevo e che tutt'ora vedo al mio fianco è un'umana con il suo carattere, le sue preferenze, la sua storia e la sua sofferenza, ma anche la sua gioia.
Per rispondere quindi alla domanda sul mio modo di intendere, vivere e vedere da esterna le difficoltà sociali, riassumo con: anche io ne ho avute, molte, probabilmente psicologicamente meno invalidanti (o forse sono io una persona forte senza rendermene conto? Non ne ho idea, non mi sento tale); non ho mai avuto diagnosi; quando non conosco una patologia, mi informo, sempre; sono curiosa ma vivo con la regola "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te" quindi il rispetto, se lo voglio per me, devo averlo per il prossimo chiunque esso sia; e se posso aiutare, se posso anche solo usare l'empatia, se posso dire una parola gentile e dire "ce la puoi fare, io sono con te", mi sento utile e mi realizzo se il mio gesto è efficace per chi ne ha bisogno.
Spero di essere stata esaustiva
EDIT 2: ho dimenticato di dire che ho subito anni ed anni di bullismo, sia per il mio aspetto fisico (sovrappeso da sempre, ginocchia valghe, aspetto più mascolino) sia perchè i compagni di scuola e i loro genitori avevano notato l'apprensione dei miei e il loro costante controllo. Sono stati anni terribili alla fine delle elementari, per tutte le medie con gli stessi ragazzini, e in modo lievemente diverso ma meno pesante anche alle superiori. Le mie reazioni non sono mai state forti o da denuncia diretta delle situazioni spiacevoli, sono diventata molto introversa, introspettiva, o mi sono rifugiata letteralmente dietro la mamma. Credo che questo vissuto non mi abbia aiutata nel relazionarmi al prossimo dal vivo o essere più spigliata nell'esprimere le mie emozioni verbalmente.