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VyCanisMajoris 12-12-2012 01:17

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da Herzeleid (Messaggio 943339)

Interessante. Non sapevo che fosse addirittura un sinonimo di pretendente

Herzeleid 12-12-2012 19:42

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da Viridian (Messaggio 943707)
Carino questo thread °-°

Sentite magistri, ho una domanda rapida. Anzi due :D

_

1) Qual è si scrive senza apostrofo per la questione del troncamento, che si basa sulla variante "qual", d'accordo. Per quanto riguarda:

quand'è


..tuttavia, non mi risulta che valga lo stesso discorso. Quindi si indica l'elisione con l'apostrofo, giusto?

"Qual" esiste come lemma indipendentemente dalla caduta della vocale, a differenza di "quando", che non può essere troncato: per questo il primo non necessita dell'apostrofo e il secondo sì (quand'è/quando è).

Quote:

Originariamente inviata da Viridian (Messaggio 943707)
2) La forma verbale:

sarebbe potuto essere

è scorretta ed andrebbe scritta:

avrebbe potuto essere

per evitare la ripetizione dell'ausiliare o sbaglio?

Sbagli invece, perché è proprio "sarebbe potuto essere". L'ausiliare è sempre essere.

polla89 13-12-2012 08:12

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quando ho studiato grammatica all università ricordo che dissero che c'era dibattito sulla questione degli ausiliari....addirittura c'erano studiosi che facevano liste di verbi che volevano essere e di quelli che volevano avere...salvo poi essere smentiti dall'uso.

Herzeleid 13-12-2012 20:37

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da Viridian (Messaggio 944576)
Merci per la celere risposta.

_

Però questa cosa mi ha lanciato nello sconforto:



Davvero non esiste alcuna regola circa la "non-ripetizione" dell'ausiliare? Mmh..

E per il verbo "andare"? E' valido come trucchetto flettere il verbo al passato prossimo per farsi un'idea?

Io sono andato (non "io ho andato" :D) - per cui, "sarei dovuto andare via!" e non "avrei dovuto andare via!".

_

Nel caso di essere:

"Son dovuto essere presente in quella situazione" (suona malissimo!)

"Ho dovuto esser presente al suo matrimonio" (non mi sembra sbagliato).

Con i verbi servili mi sono sempre confuso!

Però è esattamente così: "sarei dovuto andare via", "sarei potuto andare via". Con i servili è sempre l'ausiliare essere.

Herzeleid 25-12-2012 21:55

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Il pneumatico / lo pneumatico


Per quel che riguarda l'uso dell'articolo (e quindi della preposizione articolata) col sostantivo pneumatico, si può dire che l'alternanza degli articoli il/lo e un/uno (e naturalmente dei plurali corrispondenti i/gli, dei/degli) corrispondono i primi a un registro più familiare, mentre i secondi appartengono ad un uso più sorvegliato della nostra lingua. Niente quindi vieta di usare gli uni o gli altri anche se, nello scritto e negli usi più formali, si ritiene che siano più indicate le forme lo pneumatico, uno pneumatico, gli pneumatici, degli pneumatici.

http://www.accademiadellacrusca.it/i...ico-pneumatico

Herzeleid 01-01-2013 17:45

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Soqquadro: ma perché?

«La maestra Laura Bardazzi di Firenze domanda perché soqquadro sia l’unica parola italiana che si scrive con una doppia q.

La lettera q, ereditata dall’alfabeto latino, compare solo nella sequenza qu per rappresentare il cosiddetto nesso labiovelare (costituito da una occlusiva velare sorda, la q, e dalla u semiconsonante), ed è una lettera in sovrappiù perché indica il medesimo suono indicato dalla c, come si nota confrontando cuoco e quoto, scuola e squalo; le grafie diverse si giustificano solo risalendo al latino cocus e quotus, scola e squalus.

Per questa ragione la q “ottiene anche le stesse proprietà” della c, come si legge nel Vocabolario della Crusca (1612), “salvo che, dovendosi raddopppiare, il c gli si pone davanti, in sua vece, come acqua, acquisto”. Le uniche deroghe a quest’uso generale del raddoppiamento del q compaiono, appunto, in soqquadro (soqquadrare, soqquadrato) e in un altro caso, biqquadro (e, sul suo esempio talora anche in beqquadro). Come spiegare questa insolita e circoscritta grafia qq? Essa è nata certamente per analogia: dato che i rafforzamenti nella maggior parte dei casi vengono indicati raddoppiando il segno della consonante, sul modello di sommossa e soppiatto, si è fatto anche soqquadro. Va detto inoltre che fino a tutto il Quattrocento la forma di raddoppiamento della q fu oscillante e perfino il nostro soqquadro fu scritto socquadro. E ancora Claudio Tolomei nel Polito (1525) scrive aqqua accanto ad acquistarsi e piacque. I grammatici cinquecenteschi, a partire dal Fortunio, optarono invece per la grafia latineggiante cq e così essa si impose rapidamente e universalmente. I nostri due termini, entrambi abbastanza defilati, l’uno appartenendo al linguaggio tecnico dei musicisti, l’altro, come risulterebbe da un’annotazione al Malmantile del Lippi, al gergo di muratori e artigiani, riuscirono a fissarsi nell’uso scritto con il loro raddoppiamento analogico e in questa forma sono giunti fino ad oggi.

In passato c’è stato chi era favorevole all’eliminazione di tali residui grafici, come Amerindo Camilli (Pronuncia e grafi a dell’italiano, 19563, p. 38): “Biqquadro e soqquadro sono due eccezioni fastidiose e assurde: quindi noi siamo d’opinione che si possa e sia meglio scrivere bicquadro e socquadro”. Ma considerando che eccezioni e incongruenze nella grafia si sono sempre tollerate in ogni lingua, e che in fin dei conti nel nostro caso si tratta di due termini innocui e piuttosto rari, credo convenga continuare a scriverli così come sono stati tramandati, e a riguardarli anzi con un certo rispetto, dal momento che, riuscendo a scampare fortunosamente all’opera normalizzatrice dei grammatici, ci mostrano ancora gli unici campioni superstiti di un vecchio modo di raddoppiare la q.»

Massimo Fanfani

Herzeleid 04-01-2013 23:45

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Origine di due proverbi

«Cosa fatta, capo ha. Si usa quando si vuol tagliar corto in una discussione o per indicare che una decisione, buona o cattiva, è sempre meglio d’un lungo e logorante temporeggiamento, poiché una cosa, una volta fatta, si impone, non può essere annullata, raggiunge l’effetto per il quale è compiuta. Usatissima ancora senza la coda esplicativa è assai antica e si vuole pronunciata da Mosca dei Lamberti. La tradizione vuole che la divisione dei fiorentini in guelfi e ghibellini sia nata dall’offesa fatta da Buondelmonte dei Buondelmonti agli Amidei, della quale famiglia aveva promesso di sposare una ragazza, ma poi, ripensandoci, si era unito a una dei Donati. In un conciliabolo gli Amidei discussero di come vendicarsi di questa ingiuria, senza che nessuno osasse sostenere la decisione di uccidere l’offensore: "E benché alcuni discorressero i mali che da quella cosa dovessero seguire, il Mosca Lamberti disse, che chi pensava assai cose, non ne concludeva mai alcuna, dicendo quella trita e nota sentenza: Cosa fatta, capo ha". Il fatto è uno di quelli che si radicano nella fantasia popolare come nella tradizione dotta: è riferito da R. Malispini nella sua ‘Storia’, da G. Villani (V, 38), da Dante: "E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, / levando i moncherin per l’aura fosca, / sì che ’l sangue facea la faccia sozza, // gridò: Ricodera’ ti anche del Mosca, / che disse, lasso!, ‘Capo ha cosa fatta’, / che fu ’l mal seme per la gente tosca".» (Carlo Lapucci, Dizionario dei modi di dire della lingua italiana.) L’altra espressione, "del senno di poi son piene le fosse", sebbene comunissima, non compare nel dizionario citato.

Herzeleid 19-01-2013 00:48

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Periodo ipotetico

«Cosa faremmo se non avessimo il condizionale, il soccorso della sua cautela e della sua prudenza, un poco scaramantica, dei suoi sottintesi e presupposti, in situazioni difficili? Soprattutto in una enunciativa, «il condizionale è il modo della penombra e delle luci smorzate», come scrive Luca Serianni nella sua Grammatica (ed. UTET. Torino, ma si veda ora anche quella curata da Renzi e Salvi, Grande grammatica italiana di consultazione, Il Mulino, Bologna, II, pp. 751 e sgg.). Anzi, in presenza di dubbi verso terze persone, direbbero i giornalisti, "il condizionale è d'obbligo": «il governo sarebbe intenzionato a..., il presidente avrebbe detto che...».
Rispetto al sistema morfologico, non sintattico, del latino, questo modo è nuovo, è una grande "invenzione" delle lingue romanze. Anche un ragazzo comprende che amerebbe, amerebbero sono sintesi di amare + ebbe, ebbero. Queste le "desinenze" che il fiorentino ha imposto all'italiano, piegando, ma nei tempi lunghi, la resistenza del tipo ameria (amare + habebam), inserito nella scripta letteraria dalla scuola siciliana (ma diffuso in diversi dialetti), e del minore concorrente amara (da amaveram).
La presenza "etimologica" e non più semanticamente avvertita di un tempo passato (il perfetto semplice e l'imperfetto nelle forme perifrastiche, il piuccheperfetto nel terzo caso) rivela nel condizionale un non mascherato ancoraggio, della potenzialità, e dunque a una perfettibilità.
Già nella genesi era insita la grandezza e la precarietà del condizionale. E l'uso moderno lo evidenzia, soprattutto nell'apodosi del periodo ipotetico, in rapporto al contesto pragmatico, alla intenzione del responsabile del messaggio (si pensi al suo riuso in un discorso indiretto libero). Oggi i modi si mescolano, e l'uso e il non uso del condizionale (come del congiuntivo), segna la rivincita del fatto e della volontà sul rapporto sintattico, della sequenza cronologica e fattuale sulla consecutio temporum. Non si tratta di distinguere un uso standard dalle sue varianti colloquiali e da un uso substandard, ma di riconoscere la ricchezza espressiva della lingua, che sta alla grammatica come la vita alla fisiologia. Il ricorso a Manzoni potrebbe sembrare sospetto e di parte, si veda allora in Dante.
La parafrasi a Purgatorio III, 38-39, «se aveste potuto spiegare tutto con la ragione, non sarebbe stata necessaria l'incarnazione di Gesù» (Salinari-Romagnoli-Lanza), devia dalla prospettiva storica segnata dall'imperfetto indicativo nel testo della Commedia:«se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria» ( e Dante avrebbe potuto - poteva - ricorrere al fossile fora senza compromettere la metrica).
Alla coppia congiuntivo piuccheperfetto/imperfetto indicativo corrisponde, nel presente, l'altrettanto legale rapporto, rispettivamente, di imperfetto e presente: per rimanere a Dante (Inferno II,80), «l'ubidir,se già fosse, m'è tardi» (da confrontarsi con ib.,XXVI, 10 «E se già fosse, non saria per tempo»), parafrasato nel commento scelto a campione, «se già stessi ubbidendo al tuo comando, mi sembrerebbe di aver tardato».
Oggi convivono serenamente i due moduli ipotetici "se fosse venuto, mi avrebbe reso felice", e "se non veniva mi faceva un piacere"; ma proprio questa convivenza genera, più frequentemente che in passato, incroci asimmetrici: "se non veniva, mi avrebbe fatto piacere" (illustrato per esempio da J. Schmitt Jensen, Subjonctif et hypotaxe en italien, 1970), e "se fosse venuto, mi faceva un piacere", con sfumature tematiche affidate all'ordine sintattico ("mi faceva piacere, se non veniva"; oppure, si licet), «E con un urlo rispondeva Anticlo, / [...] se a lui la bocca non empìa col pugno / Odisseo»), e all'intonazione.
Nella sagra delle ipotetiche (gli arbitri le definirebbero irrealizzabili), che accompagnano le immagini calcistiche della moviola televisiva prevale il modulo «se non l'avesse falciato, era goal» rispetto a «se non lo falciava, sarebbe stato goal», ferma restando la preminenza di «se non lo falcia, era goal» e la presenza di «se non lo falciava, era goal» e di «se non lo falciava, è goal».
Ho l'impressione, stando all'uso contemporaneo, che il condizionale resista nell'apodosi, solo quando la protasi è assente. «Verresti a cena?», sottindende, come «Verrei volentieri a cena», una lista di «se...»; e così, non ostante la minore evidenza, anche i vari «(non) direi, non) saprei», legandosi, in questa seconda serie, l'ipotesi sottintesa all'enunciazione e non all'enunciato. La vitalità di questo condizionale nuclearmente ipotetico, giustifica la prevaricazione dell'indicativo, forte, anche al presente, di quel suo aspetto di 'incompiuto', in quanto inizio di un'azione o di un modo di essere.»

Herzeleid 08-02-2013 03:21

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Sul plurale dei nomi in -cia e -gia e su una scelta d'autore


Quesito:

Da quando è uscito nel luglio di quest'anno il volume postumo di Oriana Fallaci dal titolo Un cappello pieno di ciliege, Rizzoli editore, ci sono giunti molti quesiti a proposito del plurale dei nomi uscenti in -cia e -gia; alcuni in particolare fanno esplicito riferimento all'uso della scrittrice, che appare in contrasto con la regola grammaticale appresa nella scuola primaria.

Sul plurale dei nomi in -cia e -gia
e su una scelta d'autore

La difficoltà che sorge al momento di scegliere l'esatta grafia del plurale di una forma che esce in -cia o -gia è attribuibile al fatto che ormai in italiano quella i davanti ad a è solo un segno grafico, necessario per indicare che la c o la g rappresentano l'affricata palatale, sorda o sonora (come in cena e gelo), e non l'occlusiva velare corrispondente (come in casa e gatto). Quando però la forma è al plurale, questa funzione diacritica della i decade, dal momento che la vocale che segue, la e, essendo palatale, implica la pronuncia palatale della consonante. Chi è nato dopo gli anni Cinquanta del secolo scorso, ha appreso la regola secondo cui il plurale è reso con la grafia -cie o -gie, se la consonante c o g è preceduta da vocale, e -ce o -ge, se è preceduta da segno di consonante, come ricordato su questo stesso sito nella scheda sui plurali difficili tratta dal volume Il salvaitaliano di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota. Come si legge in quella stessa scheda però "accanto ai plurali considerati corretti, anche forme come ciliege, valige, e provincie sono ormai usate e largamente accettate"; la ragione dell'esistenza di "deroghe" alla norma generale, si trova nella evoluzione della lingua e nel conseguente adeguamento della formulazione delle regole che ne descrivono la morfologia. Ciò che adesso è una norma accettata nelle grammatiche scolastiche, in realtà è una innovazione proposta in modo definitivo da Bruno Migliorini nel 1949 nel suo articolo Il plurale dei nomi in cia e gia pubblicato su "Lingua Nostra"; precedentemente si operava una distinzione basata su criteri etimologici: se la forma latina da cui derivava la voce presentava il nesso ci/gi seguito da vocale, come provǐncǐa(m), la i doveva essere conservata anche nel plurale; se invece la forma base non presentava la i, come il latino tardo cerěsěa, si sarebbe dovuta omettere; questa regola era ancora sostenuta all'inizio degli anni '40 da Amerindo Camilli nel suo Pronuncia e grafia dell'italiano: "Circa l'omissione o la conservazione della lettera i di «c, g, sc + ia, io, iu», quando a, o, u si trasformano in e, i, tutte quelle regole che non si fondano su la distinzione (l'unica che valga) tra i semplicemente diacritica e che deve sempre scomparire, ed i vocale o che può ritornar vocale, la quale rimane o può rimanere, sono false. Si dice che con quelle regole si semplifica l'ortografia. Ma anzitutto avremmo bigie, camicie in contrasto con bigello, camicetta, che non semplifica ma imbroglia maggiormente il problema. [...] Non si può storpiare un fenomeno linguistico per amor di semplicità. Veramente necessario sarebbe nel caso nostro che le grammatiche e i dizionari distinguessero accuratamente i valori della i" (p. 169).

Come faceva notare Migliorini nell'articolo sopra citato, il mantenimento della i etimologica implicava qualche difficoltà: "Il postulato è quello di rispettare i latinismi [...] Ma, come ho accennato, ad applicare il postulato con coerenza occorre molto coraggio: esso implicitamente porta con sé l'affermazione che per applicare l'ortografia italiana delle singole parole bisogna conoscere quella latina" (p. 25). La questione non era ancora del tutto risolta negli anni '60 tanto che nella terza edizione del testo di Camilli, edita a cura di Piero Fiorelli, si legge le seguente nota del curatore: "Non tutte, ma certo molte grammatiche insegnano appunto che i femminili in -cia o -gia hanno il plurale in -cie o -gie se il -c- o -g- è preceduto immediatamente da vocale, in -ce -ge se è doppio o preceduto da un'altra consonante (compresa l'-s- del digramma -sc-). Ora, questa regola è in fondo una semplificazione pratica dell'altra sostenuta dall'Autore, secondo la quale, con rigorosa aderenza a un criterio di fonetica storica si conserva nel plurale la -i- dei latinismi e grecismi (in quanto, da segno diacritico, può ritornare vera vocale nella pronunzia oratoria o poetica), e si sopprime invece l'-i- di formazione popolare (che è sempre stato un semplice segno diacritico e come tale non ha ragion d'essere davanti a un'e). I casi di contrasto tra le due regole non sono molti, riguardano in tutto circa sessanta vocaboli di fronte a circa ottocento in cui l'applicazione dell'una o dell'altra porta agli stessi risultati [...]. Le discordanze [...] sono poca cosa di fronte ai casi di concordanza [...]. In conclusione le due regole posson coesistere senza danno: chi sa il latino si troverà bene colla regola più propriamente storica, che vuole conscie e socie (come il latino consciae e sociae, e come coscienza e società) ma valige e cosce (come valigeria e coscetto, e senza riscontro immediato nella lingua madre); chi non sa il latino si troverà meglio con la regola analogica, che pareggia consce a cosce così come valigie a socie" (nota 271 al par. 108, p. 169).

Fin qui per spiegare l'oscillazione nella grafia del plurale di vocaboli come provincia o ciliegia; a proposito dell'uso di ciliege nel titolo del romanzo da parte di Oriana Fallaci si possono aggiungere alcune riflessioni: è senz'altro probabile che la scrittrice, nata nel 1929, abbia appreso a scuola la grafia basata sulla regola etimologica sostenuta da Camilli; è altrettanto ipotizzabile che la scelta rispecchi anche quel "certo atteggiamento fiorentino [...] di maggior sicurezza - e anche di permissività nei riguardi della lingua", ricordato da Teresa Poggi Salani in Minima di italiano regionale attraverso le guide del telefono (nota 11, p. 109), che si affida senz'altro alla pronuncia toscana come base della scrittura; ma crediamo ingenuo ritenere un'autrice così attenta a fatti linguistici (si pensi al lessico tradizionale impiegato soprattutto nelle pagine in cui si rievocano le radici fiorentine della famiglia) non consapevole della risonanza che la scelta avrebbe suscitato. Più che imputare tale scelta a una volontà di provocazione della Fallaci, ci sembra sostenibile un richiamo al carattere di ricostruzione documentaria condotta attraverso una appassionata ricerca, che la scrittrice attribuisce al romanzo e che la spinge a riportare fedelmente brani dalla provenienza più varia. Le parole del titolo sono parte di un messaggio che la giovane Caterina Zani nella primavera del 1785 affida al sensale di matrimoni incaricato di trovar moglie a Carlo Fallaci: "Allora ditegli [al Fallaci] di venire alla fiera di Rosìa, il 22 maggio [...] Lo aspetterò lì. E per farmi riconoscere porterò un cappello pieno di ciliege"(p. 71). Ciò che caratterizza Caterina Zani, oltre a uno spirito ribelle, è il suo desiderio di imparare a leggere e a scrivere, cosa che riuscirà a fare grazie alla dedizione del marito e all'acquisto di «uno scarno fascicolo di neanche venti pagine, scritto da un sacerdote d'Apta Julia, pubblicato dalla stamperia Pagliarini di Roma, e intitolato così: Metodo italiano per imparare speditamente a legger nonché a scrivere, senza compitare le lettere e per mezzo di cinquantaquattro figure diverse. Sul retro del frontespizio, la spiegazione: "Il presente metodo è facilissimo, stante che porta seco la maniera con la quale ciascheduno può adoperarlo. Non v'ha che da osservare le figure pronunziandone il nome ad alta voce, e poi da guardare le parole che spiegano come quel nome si scrive. Giacché le parole son l'eco delle figure, e le cose che si vedono fanno sulla mente più pronta impressione di quelle che si sentono, tal sistema si accomoda alla capacità d'una persona la meno intelligente. Financo sorda, e muta." Dopo la spiegazione, le pagine con le figure: sempre doppie per indicare il singolare e il plurale, e accompagnate dai vocaboli corrispondenti nonché dagli articoli. "La fibbia, le fibbie. La tromba, le trombe. La fiamma, le fiamme. Il fungo, i funghi"». L'autrice non lo scrive, ma chiunque abbia in mente i disegni appesi alle pareti delle aule della scuola elementare, è tentato di integrare la serie con "La ciliegia, le ciliege" senza la i, perché nel XVIII secolo così doveva essere, perché così e solo così era nel Vocabolario degli Accademici della Crusca alla sua quarta edizione (1729-1738) e così doveva averlo imparato per forza Caterina Zani in Fallaci. Se si considera poi che quel cappello "pieno di ciliege", era per l'antenata, in quanto portato in aperta sfida al severo bando emanato nel 1781 da Pietro Leopoldo per ridurre l'eleganza delle suddite, anche il simbolo del "suo totale rifiuto delle regole e delle imposizioni" (p. 65), adeguare il titolo del romanzo alla regola introdotta nella seconda metà del Novecento, forse per Oriana Fallaci avrebbe significato non tanto, o non solo, contraddire il proprio apprendimento scolastico, ma piuttosto quello faticoso e appassionato dell'antenata Caterina.

http://www.accademiadellacrusca.it/i...scelta-dautore

Quinzio 09-02-2013 15:46

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Questa discussione merita un applauso, considerando ke ce gente ke scrive cs.

Herzeleid 09-02-2013 15:58

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da MeStessa93 (Messaggio 995780)
Questo topic è stupendo!:innamorato::cuore:

Quote:

Originariamente inviata da Quinzio (Messaggio 995810)
Questa discussione merita un applauso, considerando ke ce gente ke scrive cs.

Mi sento lusingato, non posso che dirvi grazie per l'apprezzamento.

Herzeleid 10-02-2013 00:31

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da zag (Messaggio 996165)
ma che significa che l'ausiliare con i servili è sempre essere? :o

Hai ragione, facciamo appello all'archivio dell'Accademia della Crusca:


"Ausiliare con i verbi servili

Per quel che riguarda l'uso degli ausiliari coi verbi servili, si tratta di una questione un po' intricata, ma risolvibile nella prassi seguendo poche regole:
1) Se si sceglie l'ausiliare del verbo retto dal servile, non si sbaglia mai: es. "Ha dovuto mangiare" (come "ha mangiato"); "è dovuto partire" (come "è partito").
2) Se il verbo che segue il servile è intransitivo, si può usare sia "essere" che "avere": es. "è dovuto uscire" o "ha dovuto uscire".
3) Se l'infinito ha con sé un pronome atono (mi, si, ti, ci, vi) bisogna usare "essere" se il pronome è prima dell'infinito (es. "non si è voluto alzare"), "avere" se il pronome è dopo l'infinito (es. "non ha voluto alzarsi").
4) Se il servile è seguito dal verbo "essere", l'ausiliare sarà sempre "avere": es. "ha dovuto essere forte", "ha voluto essere il primo".

http://www.accademiadellacrusca.it/i...-verbi-servili

Herzeleid 10-02-2013 00:35

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da zag (Messaggio 996192)
ah quindi ormai è accettato anche avere in questo caso :pensando: quando ho studiato io no :mrgreen:

Difatti ho usato e continuerò ad usare sempre l'ausiliare essere in quel caso.

Herzeleid 10-02-2013 01:37

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Non è da disdegnare anche questa lettura:

Ho potuto andare o sono potuto andare? Uso dell’ausiliare con i verbi servili

I verbi servili dovere potere volere solitamente prendono l'ausiliare del verbo che segue:

ho parlato - ho dovuto parlare
sono andato - sono dovuto andare

Questa regola ha però delle eccezioni, come ricorda il Fornaciari:

La regola che abbiamo data su volere, potere, dovere con infiniti intransitivi non è per altro così costante, che non se ne possa uscire quando giovi mettere in ispecial rilievo la forza di essi verbi. – Avrebbe poi voluto essere altrove. Berni. – Se Pietro pienissimamente non avesse voluto, non avrebbe potuto morire per Cristo. S. Gregorio. – Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese. Manzoni. [Sintassi, pp. 164-165]

Aggiungo due brevi passi boccacceschi dal Centonovelle:

•Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta monaca (5, 10)
•...di pari concordia diliberarono essere il miglior d'aver Tito per parente, poi che Gisippo non aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito nimico acquistato. (10, 8)

Nell'italiano contemporaneo, poi, i verbi servili hanno sempre l'ausiliare avere quando sono seguiti dal verbo essere:

non ho potuto essere presente

--------------------------------------------------------------------------------

Ferdinando Chiodo, a proposito dell'ultimo passo manzoniano citato dal Fornaciari (dal cap. IX dei Promessi Sposi), mette a confronto le due versioni; quella del 1842:

« Deve sapere, reverenda madre.... » incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò, con un'occhiata, le parole in bocca, e rispose: « questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de' gravi pericoli ecc.

con la precedente, dall'edizione del 1827:

« Deve sapere, reverenda madre.... » incominciava Agnese; ma il guardiano le ruppe con un'occhiata le parole in bocca, e rispose: « questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partirsi nascostamente dal suo paese, per sottrarsi a gravi pericoli ecc.

Secondo Ferdinando Chiodo la versione del 1827 può essere portata anche a dimostrazione di una regola o uso frequente, che vuole che con i verbi riflessivi si preferisca l'ausiliare avere (ha dovuto partirsi); l'ausiliare poi è rimasto anche nell'edizione del 1842 (ha dovuto partir)

Aggiunge poi due altre citazioni:

Per quanto riguarda l'uso dell'ausiliare nei verbi servili, nell'edizione definitiva dei Promessi Sposi (PS) Manzoni corresse una espressione usata nel 1827 (Cap. XXII):


Il signore entrò, e girato un'occhiata per la stanza, vide Lucia ravvolta nel suo cantuccio e quieta. « Dorme? » domandò sotto voce alla vecchia: « colà, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata? « Io ho fatto il possibile, » rispose questa: « ma non ha mai voluto mangiare, non ha mai voluto venire... (PS, 1827).

Il signore entrò, e data un'occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta. « Dorme? » domandò sotto voce alla vecchia: « là, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata?
« Io ho fatto di tutto, » rispose quella: « ma non ha mai voluto mangiare, non è mai voluta venire... (PS, 1842).


Nel cap. XXVIII, invece, il Manzoni « perdura nell'errore », avrebbe detto il mio professore di lettere delle scuole medie. Nell'edizione del 1827 viola infatti l'uso dell'ausiliare con i verbi servili (parere richiede l'ausiliare essere), e conferma la violazione nell'edizione definitiva del 1842:



È poi facile anche il vedere, e non inutile l'osservare come fra quegli strani provvedimenti vi sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell'antecedente, e tutti del primo, di quello che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo che sarebbe risultato dalla condizione reale delle cose. Alla moltitudine un tale provvedimento è sempre paruto, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all'equità, altrettanto semplice e agevole a porsi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nell'angustie e ne' patimenti della carestia, essa lo desideri, l'implori e, se può, lo imponga (PS, 1827).

È poi facile anche vedere, e non inutile l'osservare come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell'antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità. Alla moltitudine un tale espediente è sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all'equità, altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nell'angustie e ne' patimenti della carestia, essa lo desideri, l'implori e, se può, l'imponga (PS, 1842).

http://www.mauriziopistone.it/testi/...ausiliare.html

Herzeleid 16-02-2013 01:10

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Roboante e reboante

Noi diciamo roboante, e non ci piove. Sicuri del nostro buon italiano, consideriamo chi usa reboante prigioniero di un italiano dialettale. E invece ha ragione lui. L’aggettivo deriva dal latino reboans, reboantis, participio presente di reboare, rimbombare, verbo composto del prefisso intensivo re- e di boare, risonare, echeggiare (da cui anche il nostro boato). Poiché un prefisso intensivo ro- non esiste nella nostra lingua, sembra inspiegabile la nascita di roboante e la sua vittoria su reboante (tutt’al più avrebbe potuto nascere ri-boante). Eppure è andata così. È la dimostrazione del fatto che la lingua non nasce sul tavolo dei grammatici ma in mezzo alla vita, a volte anche da inspiegabili incidenti. Ma se una spiegazione proprio vogliamo trovarla, ebbene diciamo che roboante è onomatopeico: quelle due o appesantiscono la parola, rendendo l’effetto di un maggior frastuono.
Quest’ultima osservazione è convincente: teniamoci roboante. Ma nessuno potrà impedirci di fare i fighi (vedi giovani: una lingua “esagerata”) con reboante.

http://dizionari.corriere.it/diziona...reboante.shtml

Herzeleid 24-02-2013 03:24

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Forme verbali "difficili"

Con questa scheda speriamo di risolvere i dubbi di molti lettori su forme verbali irregolari o avvertite come "strane" e inconsuete. Si tratta di una lista (ordinata alfabeticamente) di verbi irregolari o difettivi di cui vengono messi in evidenza congiuntivi, participi passati e altre forme che possono far nascere qualche incertezza.


Accedere, passato prossimo e passato remoto
Si tratta di un composto del verbo cedere e, in quanto tale, ricalca la coniugazione del verbo di partenza. Il passato prossimo è io ho acceduto (tempo composto in cui si ritrova la forma del participio passato acceduto, analogo a ceduto); il passato remoto prevede, per alcune persone, doppie forme, ambedue corrette: io accedei/accedetti, tu accedesti, egli accedé/accedette. noi accedemmo, voi accedeste, essi accederono/accedettero.

Affacciare e affacciarsi

È corretto l'uso di affacciare su in frasi del tipo «la mia terrazza affaccia sul mare», o bisogna ricorrere ad affacciarsi? Dire che un edificio affaccia su un luogo è assolutamente corretto. Affacciare si adopera (solo nei tempi semplici) nel significato di 'essere prospiciente' e vuole un soggetto inanimato, come appunto casa, finestra, palazzo, ecc.; affacciarsi, invece, può essere usato sempre, con qualsiasi tempo e con qualsiasi soggetto: «Paolo si affacciò sulla porta», «Un cane si affacciava sul balcone», «Trinità dei Monti si affaccia su Piazza di Spagna».

Aprire, passato remoto: aprii o apersi?

In passato non c'era differenza: le due forme venivano usate con la stessa frequenza. Oggi è molto più comune la forma io aprii, lui aprì, loro aprirono, che per questo vi consigliamo. Ma se per caso ricorreste all'altra (io apersi, lui aperse, loro apersero) non fareste un errore. E ciò che abbiamo detto per aprire vale anche per il suo composto riaprire.

Benedire, imperfetto: benedicevo o benedivo?

Benedicevo! Tutti i composti del verbo dire (benedire, maledire, contraddire, disdire, predire, ridire) seguono infatti la coniugazione del verbo base dire: quindi benedicevo, maledicevo, benedicesti, maledicesti e così via. Fa eccezione la seconda persona dell'imperativo, che nel verbo dire è di', mentre nei composti è -dici: «Signore, benedici questa casa... »

Evitate, dunque, soprattutto negli usi scritti, forme come benedivo e maledivo, benedii e maledii, benedisti e maledisti, ecc., ricostruite popolarmente sul modello della coniugazione regolare dei verbi in -ire.

Convenire, passato remoto: convenne o convenì?

E qual è il passato remoto di altri verbi composti con il verbo venire, come ad esempio intervenire: intervenne o intervenì? Molto meglio convenne e intervenne. I composti del verbo venire (addivenire, avvenire, circonvenire, contravvenire, convenire, divenire, intervenire, pervenire, prevenire, provenire, rinvenire, rivenire, sconvenìre, sopravvenire, sovvenire, svenire) si coniugano tutti come il verbo base. Poiché il passato remoto di venire è venni, venisti, venne, venimmo, veniste, vennero, il passato remoto di un suo composto (come, per esempio, convenire) sarà: convenni, convenisti, convenne, convenimmo, conveniste, convennero. La forma convenii, convenisti, convenì si spiega con l'abitudine dei parlanti a ricostruire la coniugazione dei composti di venire sul modello della coniugazione regolare dei verbi in -ire, secondo un ragionamento di questo tipo:

dormire: dormì = convenire: convenì

Coprire, passato remoto: coprii o copersi?

Anche in questo caso, come per il passato remoto di aprire, anticamente venivano usate tutt'e due le forme; oggi è molto più comune il tipo io coprii, lui coprì, loro coprirono, ma le forme io copersi, lui coperse, toro copersero, non sono da considerare errori. E ciò che abbiamo detto per coprire vale anche per i suoi composti, cioè ricoprire, riscoprire e scoprire.

Cuocere, passato remoto e participio passato

Suona male, lo sappiamo, ma il passato remoto di cuocere è cossi, cuocesti, cosse, cuocemmo, coceste, cossero. Per il participio passato un tempo si usava anche la forma cociuto: oggi sopravvive solo cotto.

[n.b. invece per cucinare la coniugazione è regolare: passato remoto io cucinai, participio passato cucinato]

Dare, passato remoto: diedi o detti?

Sono corrette entrambe le forme, anche se la più comune e diffusa è la prima. Detti ha preso piede nel corso del Quattrocento per l'influsso esercitato da stetti, passato remoto di stare.

Dirimere, passato remoto e participio passato

La coniugazione del passato remoto del verbo dirimere prevede, per alcune persone, doppie forme, ambedue corrette: io dirimei/dirimetti, tu dirimesti, egli dirimé/dirimette, noi dirimemmo, voi dirimeste, essi dirimerono/dirimettero; il participio passato non è in uso.

Dovere, presente: devo o debbo?

Anche un verbo comune come dovere può talvolta lasciarci in dubbio, tanto più se dobbiamo usarlo in un contesto formale: è più corretto devo o debbo? devono o debbono? deva o debba? devano o debbano? Comunque scegliate, state tranquilli; non farete brutta figura. Le forme verbali citate sono, infatti, intercambiabili: potete ricorrere all'una o all'altra senza sbagliare. Le forme devo, devono, deva, devano sono più diffuse rispetto alle altre, ma questo non vuol dire che debbo, debbono, debba, debbano siano sbagliate (anzi, il congiuntivo debba ha ormai preso piede rispetto al concorrente deva).

Esigere, participio passato: qual è la forma giusta?

Stavolta esordiamo dicendovi quale non è il participio passato di esigere: non è esigìto, che rappresenterebbe la forma verbale regolare; è, invece, esatto. Per spiegarlo, sarà sufficiente ricordare che il verbo latino da cui deriva esigere era èxigo, exìgere, che aveva fra le sue voci un exactum da cui si è formato il participio italiano esatto.

Con questo valore verbale, esatto si usa solo nel linguaggio burocratico, col significato di 'riscosso': «La somma esatta (riscossa) ammonta a circa due miliardi di lire». La forma esatto ha la stessa origine, ma funzioni completamente diverse: è un aggettivo che significa 'preciso', 'giusto' e che spesso è usato senza necessità col valore avverbiale di 'precisamente', 'certamente'.

Espellere, indicativo presente, passato remoto, congiuntivo presente e participio passato

Diamo la coniugazione del verbo espellere per i modi e i tempi più problematici: indicativo presente io espello, tu espelli, egli espelle, noi espelliamo, voi espellete, essi espellono; passato remoto io espulsi, tu espellesti, lui espulse, noi espellemmo, voi espelleste, essi espulsero; congiuntivo presente che io espella, che tu espella, che egli espella, che noi espelliamo, che voi espelliate, che essi espellano; participio passato espulso.

Incutere, participio passato: qual è la forma giusta?

Il participio passato di incutere, cioè 'infondere', esiste? E qual è? Esiste, esiste, ed è incusso, esattamente come il participio passato di discutere è discusso e il participio passato di escutere è escusso. Alla base di tutti questi verbi c'è il verbo latino quatio, quatis, quassi, quassum, quatere, 'scuotere', che nella forma da cui deriva il participio passato italiano faceva quassum, da cui la finale -cusso.

Iniziare

Il verboiniziare si usa molto spesso, ma talvolta può metterci in imbarazzo. Può venirci qualche perplessità, infatti, a proposito del suo uso come intransitivo. Originariamente, iniziare era solo transitivo («Avevo appena iniziato la lettura del giornale»), o intransitivo pronominale («Il corso s'inizia a ottobre»). Per influenza del verbo cominciare, è stato usato anche come intransitivo, senza la particella pronominale, e con l'ausiliare essere: «La trasmissione non è ancora iniziata». Servirsi di iniziare come intransitivo è ormai considerato legittimo: quindi non abbiate esitazioni, e ricorrete a questo verbo senza timore di sbagliare.

Nuocere, passato remoto e participio passato

Non nuoce forse ricordare la coniugazione del passato remoto io nocqui, tu nocesti, egli nocque, noi nocemmo, voi noceste, essi nocquero; il participio passato è nociuto.

Piacere, indicativo presente, passato remoto, congiuntivo presente e participio passato

Riportiamo la coniugazione completa dei modi e dei tempi del verbo piacere che possono destare dubbi: indicativo presente io piaccio, tu piaci, egli piace, noi piacciamo, voi piacete, essi piacciono; passato remoto io piacqui, tu piacesti, egli piacque, noi piacemmo, voi piaceste, essi piacquero; congiuntivo presente che io piaccia, che tu piaccia, che egli piaccia, che noi piacciamo, che voi piacciate, che essi piacciano; participio passato piaciuto.

Premere, passato remoto e participio passato

Il passato remoto prevede, in alcune persone, doppie forme, ambedue corrette: io premei/premetti, tu premesti, egli premé/premette, noi prememmo, voi premeste, essi premerono/premettero; il participio passato è premuto.

Riflettere, passato remoto: io riflettei o io riflessi?

Il verbo riflettere ha una doppia anima: il suo passato remoto può essere riflettei o riflessi. Quando è riflettei significa 'considerare', quando è riflessi significa 'mandare riflessi'. Lo stesso vale per il participio passato: riflettuto (ma con questo valore si usa, più spesso, ponderato) e riflesso.

Rimuovere, indicativo presente, passato remoto e participio passato

Si tratta di un composto del verbo muovere, di cui ricalca la coniugazione. L'indicativo presente è quindi io rimuovo, tu rimuovi, egli rimuove, noi rimuoviamo, voi rimuovete, essi rimuovono; il passato remoto è io rimossi, tu rimovesti, lui rimosse, noi rimovemmo, voi rimoveste, essi rimossero; il participio passato è rimosso.


http://www.accademiadellacrusca.it/i...erbi-difficili

Herzeleid 24-02-2013 03:25

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Forme verbali "difficili" (Parte II)

Rodere al passato remoto: io rosi o io rodei?

Se vi capita di essere rosi da qualche dubbio riguardante questo verbo, ricordate che il passato remoto di rodere fa rosi, rodesti, rose, rodemmo, rodeste, rosero, mentre il participio passato è roso.

Sapere, passato remoto, participio presente e passato

Le forme del passato remoto del verbo sapere sono io seppi, tu sapesti, egli seppe, noi sapemmo, voi sapeste, essi seppero; participio presente è sapiente e il participio passato saputo.

Scuotere, passato remoto e participio passato

Il passato remoto prevede queste forme: io scossi, tu scotesti/scuotesti, lui scosse, noi scotemmo/scuotemmo, voi scoteste/scuoteste, essi scossero; il participio passato è scosso.

Seppellire, participio passato: sepolto o seppellito?

Sono corrette entrambe le forme: la più comune è sepolto, che continua l'originale latino sepultus. Seppellito è usato di meno, ma in alcune frasi i due participi si alternano. Potete dire, dunque, morto e sepolto o morto e seppellito.

Soccombere, passato remoto e participio passato

Il passato remoto prevede, per alcune persone, doppie forme, ambedue corrette: io soccombei/soccombetti, tu soccombesti, egli soccombé/soccombette, noi soccombemmo, voi soccombeste, essi soccomberono/soccombettero; il participio passato non è in uso.

Soddisfare: quali sono le forme giuste?

Soddisfaccio, soddisfo o soddisfò? Le prime due vanno bene; la terza non è sbagliata ma è rara. Come si spiega tanta varietà di forme? I composti del verbo fare (assuefare, contraffare, liquefare, rifare, sopraffare, stupefare) seguono la coniugazione del verbo semplice: quindi assuefaccio, assuefacevo, assuefeci, assuefarò; contraffaccio, contraffacevo, contraffeci, contraffarò, e così via. Tuttavia due composti - disfare e soddisfare - hanno sviluppato anche alcune forme autonome per il presente indicativo e congiuntivo, per il futuro e per il condizionale.

potete dire o scrivere... / ma potete anche dire o scrivere...

Presente indicativo: io disfaccio, soddisfaccio / io dìsfo, soddìsfo; tu disfài, soddisfài / tu dìsfi, soddìsfi; lui disfà, soddisfà / lui dìsfa, soddìsfa; noi disfacciamo, soddisfacciamo / noi disfiamo, soddisfiamo; voi disfate, soddisfate; loro disfanno, soddisfànno / loro dìsfano, soddìsfano.

Presente congiuntivo: che io disfaccia, soddisfaccia / che io dìsfi, soddìsfi; che tu disfaccia, soddisfaccia / che tu dìsfi, soddìsfi; che lui disfaccia, soddisfaccia / che lui dìsfi, soddìsfi; che noi disfacciamo, soddisfacciamo / che voi disfacciate, soddisfacciate; che loro disfàcciano, soddisfacciano / che loro dìsfino, soddisfino.

Futuro: io disfarò, soddisfarò / io soddisferò; tu disfarai, soddisfarai / tu soddisferai; lui disfarà, soddisfarà / lui soddisferà; noi disfaremo, soddisfaremo / noi soddisferemo; voi disfarete, soddisfarete / voi soddisferete; loro disfaranno, soddisfaranno / loro soddisferanno.

Condizionale presente: io disfarei, soddisfarei / io soddisferei; tu disfaresti, soddisfaresti / tu soddisferesti; lui disfarebbe, soddisfarebbe / lui soddisferebbe; noi disfaremmo, soddisfaremmo / noi soddisferemmo; voi disfareste, soddisfareste / voi soddisfereste; loro disfarebbero, soddisfarebbero / loro soddisferebbero.

S'intende che le voci non riportate non si usano, perché non sono documentate. S'intende anche che, nei tempi e nei modi non indicati, disfare e soddisfare seguono la coniugazione di fare: all'imperfetto indicativo disfacevo e soddisfacevo. non disfavo e soddisfavo, all'imperfetto congiuntivo disfacessi e soddisfacessi, non disfassi e soddisfassi, ecc.

Solere, indicativo presente, passato remoto e participio passato

Le forme dell'indicativo presente sono io soglio, tu suoli, egli suole, noi sogliamo, voi solete, essi sogliono; il passato remoto è io solei, tu solesti, egli solé, noi solemmo, voi soleste, essi solerono; il participio passato è sòlito.

Splendere, passato remoto e participio passato

Il passato remoto, per alcune persone, prevede doppie forme, ambedue corretre: io splendei/splendetti, tu splendesti, egli splendé/splendette, noi splendemmo, voi splendeste, essi splenderono/splendettero; il participio passato, raro e contemplato solo da alcuni dizionari, è splenduto.

Sposare, sposarsi

Marco si è sposato o Marco ha sposato? Il verbo che indica l'azione di sposarsi va usato con attenzione. Sposare, infatti, è un verbo transitivo: richiede un'anima gemella che faccia da complemento oggetto. Dobbiamo dire: «Marco ha sposato Giulia», «Giulia ha sposato Marco»; non possiamo dire: «Marco ha sposato», «Giulia ha sposato». Quando il complemento oggetto manca, bisogna usare la forma sposarsi: «Marco si è sposato», «Giulia si è sposata».

Stare

Il verbo stare è usato spesso al posto del verbo essere, soprattutto in frasi che esprimono il comportamento o lo stato d'animo d'una persona: «Stare attento», «Stare in ansia», «Stare sulle spine», oppure in frasi che contengono un ordine o un'esortazione: «Stia zitto!», «Sta' seduto», o in frasi fatte: «Se le cose stanno così...» In questi casi l'uso di stare al posto di essere è legittimo e corretto; in altri casi i due verbi non sono intercambiabili: non si può dire o scrivere «Sto nervoso», «Sta assente», «Il lavoro sta fatto bene».

L'abitudine di sostituire stare a essere è di origine meridionale; per questo carattere di accentuata regionalità va evitata negli usi ufficiali e formali. In famiglia e con gli amici, invece, potete stare..., più rilassati.

A proposito: approfittiamo dell'occasione per ricordarvi di nuovo che la prima persona del verbo si scrive sto senza accento e non stò.

Succedere, participio passato: succeduto o successo?

Può succedere a tutti d'ingarbugliarsi tra i due participi del verbo che abbiamo appena nominato. Succedere, infatti, ha due forme di participio passato: una finisce in -uto (succeduto), l'altra in -sso (successo). La difficoltà, questa volta, nasce dal fatto che sono tutt'e due forme corrette, ma hanno usi e significati diversi: succeduto va usato solo col significato di 'subentrato', 'venuto dopo' («Il presidente Ciampi, succeduto a Scalfaro, è stato eletto nel 1999»), mentre successo va usato col significato di 'accaduto', 'avvenuto' («Dimentichiamo l'incidente successo»)

http://www.accademiadellacrusca.it/i...erbi-difficili

Herzeleid 01-03-2013 16:57

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Regionalismi e geosinonimi


Quando si parla di italiano regionale il primo concetto che opportunamente si introduce è quello di interferenza tra lingue o sistemi linguistici che, per la storia linguistica italiana in particolare, rimanda principalmente alla situazione secolare di coesistenza e complementarietà in cui hanno convissuto i molti idiomi locali e la lingua nazionale. Il contatto tra codici diversi, tra i quali l'italiano ha svolto una funzione dominante, ha portato all'italianizzazione dei dialetti attraverso progressivi adeguamenti dei loro tratti locali caratterizzanti sul modello dell'italiano. Le molte descrizioni dell'italiano regionale (che alcuni studiosi hanno proposto recentemente di ridenominare con la dizione di italiano locale, data la nota non corrispondenza tra regioni amministrative e aree linguistiche) ci offrono ormai quadri abbastanza articolati in cui questa varietà, quasi esclusivamente parlata, risulta composita fino a dar luogo a un diasistema in cui si riconoscono più italiani regionali i cui tratti sono di volta in volta condizionati dalla situazione linguistica, dallo strato sociolinguistico di appartenenza del parlante. Proprio per questo continuo intreccio di fattori che contribuiscono a determinare varietà diverse tra loro, anche per l'italiano regionale alcuni studiosi hanno proposto classificazioni che tengono uniti tratti diatopici con tratti diastratici: l'italiano regionale colloquiale che prevede tratti del parlato in usi informali, e l'italiano regionale popolare che si caratterizza per la maggior presenza di tratti linguistici non standard e per essere una varietà sociale tipica di strati sociali bassi, di parlanti semicolti. Abbiamo a disposizione ampi e dettagliati repertori dei tratti intonativi, fonetici, morfosintattici e lessicali che caratterizzano ciascun italiano regionale e proprio queste analisi hanno permesso di distinguere i livelli che maggiormente risentono dell'interferenza dialettale, come l'intonazione, la fonetica, parte del lessico e la fraseologia, rispetto a quelli più conformi all'italiano come la morfologia e la sintassi.
Per quel che riguarda il lessico, che è l'oggetto della nostra riflessione, le interferenze tra italiano e dialetti sono intense in tutte e due le direzioni. Secondo questo duplice movimento, per esempio le parole nuove connesse alle novità tecnologiche e industriali che entrano nei vocabolari dialettali sono, com'è facile immaginare, di provenienza italiana; nella direzione dell'italianizzazione si muovono anche molti termini legati ad ambiti della cultura popolare e materiale che vanno perdendosi, si pensi ad esempio ai nomi delle piante; oppure denominazioni, come quelle degli animali e in particolare dei pesci che, per la sovrapposizione della commercializzazione e dell'informazione, tendono ad assumere la forma più vicina a quella italiana, a rendersi quindi riconoscibili anche al di fuori dei confini d'uso di una determinata varietà locale. D'altra parte i localismi di provenienza dialettale possono riemergere, nel parlato di italofoni che, anche inconsapevolmente, recuperano e talvolta affiancano a forme corrispondenti in lingua, parole appartenenti a un livello di italianità regionale o addirittura di una dialettalità strettamente legata al senso identitario.
Riprendendo una partizione tradizionale (da De Felice 1977, Canepari 1990 e anche da Beccaria nel suo Dizionario di Linguistica), possiamo distinguere tra regionalismi entrati in lingua, come ad esempio gondola, catasto, pizza, ormai panitaliani e accolti nei vocabolari, e regionalismi d'occasione o comunque di circolazione ancora ristretta come ad esempio balcone per 'finestra' in Veneto, schiacciata per 'focaccia' in Toscana e perciò poco riconoscibili dagli italofoni di altre regioni. Uno statuto un po' a parte può essere riservato ai regionalismi semantici, quelle parole cioè che in diverse regioni d'Italia hanno diverso significato rispetto a quello che normalmente veicolano nella lingua standard: tra questi vetrina che in Friuli (ma anche in Toscana) significa 'armadio da cucina', dispensa che in Sicilia è la 'cantina', villa che nell'Italia meridionale indica il 'giardino pubblico'.



I geosinonimi possono essere - se vogliamo semplificare - una sottocategoria dei regionalismi lessicali: ogni geosinonimo può tranquillamente essere considerato un regionalismo, mentre non tutti i regionalismi hanno una serie di sinonimi corrispondenti nelle diverse aree linguistiche italiane. Ogni geosinonimo si definisce attraverso un confronto areale degli usi di alcune parole a prescindere dalla loro origine e dal loro rapporto con i termini corrispondenti nella lingua standard: parole quindi che servono a indicare lo stesso oggetto, ma che hanno altra forma (come appunto avviene per i sinonimi) a seconda della zona in cui ci si trova. Esempi classici sono le espressioni, diverse nelle varie parti d'Italia, che si usano per 'marinare la scuola': bucare o tagliare in Piemonte, fare sega a Roma, fare forca a Firenze, fare lippe, fare buco, fare filone, bigiare, ecc.; oppure le denominazioni di anguria al nord, cocomero in Toscana e al centro e mellone d'acqua al sud: sono tutte espressioni che hanno una precisa localizzazione e che non sempre trovano corrispondenze in forme dialettali della stessa area. Nell'analisi dei geosinonimi l'aspetto che interessa è quello del confronto di un termine, un'espressione presente in una determinata zona, con sinonimi presenti in altre zone del territorio italiano.
All'interno di ogni coppia o gruppo di geosinonimi è possibile effettuare comparazioni utili a riconoscere, ad esempio, il grado di vitalità di ciascuno di essi o il termine che gode di maggior "prestigio". Si distinguono infatti i geosinonimi vitali dai geosinonimi desueti che possono essere caduti in disuso sia perché si sono abbandonate usanze e attività tradizionali non più redditizie (terminologie proprie, ad esempio, della bachicoltura o della pastorizia), sia perché tra i diversi geosinonimi se n'è imposto uno che è diventato forma interregionale (come lavello rispetto agli altri sinonimi prima citati o prosciuttorispetto al piemontese giambone, calco sul francese). D'altra parte, il maggior prestigio può derivare all'affermazione di uno degli elementi che compongono la serie in aree più estese grazie, ad esempio, ad attività economiche più forti che riescono a imporre un prodotto con un determinato nome che conquista terreno rispetto agli altri sinonimi (si pensi a formaggio rispetto a cacio o a lavello rispetto ad acquaio o lavabo). In alcuni casi poi la serie geosinonimica può essere formata da sinonimi che si differenziano anche a livello sociale (sull'asse quindi diastratico) o a livello stilistico e di registro (sull'asse di variazione diafasico): ad esempio l'aggettivo sazio, non marcato e di diffusione panitaliana, rispetto ai sinonimi abboffato, abbottato, ecc. sarà più probabile in enunciati di parlanti colti in contesti di media e alta formalità.



In generale quindi si parla di geosinonimi, non tanto per indicare una singola forma locale diversa da quella panitaliana, ma quando ci si trovi di fronte a una serie di sinonimi, con una distribuzione geografica differenziata sul territorio, che servono a denominare lo stesso referente.

http://www.accademiadellacrusca.it/i...mi-geosinonimi

Who_by_fire 01-03-2013 17:35

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da VUCHAN94 (Messaggio 891834)
Vabbeh ma la tastiera che io sappia ti da la possibilità di inserire solo questo di accento è :pensando:

la possibilità ;)

Herzeleid 01-03-2013 17:51

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Quote:

Originariamente inviata da Who_by_fire (Messaggio 1012074)
la possibilità ;)

Uniti possiamo vincere.

Herzeleid 06-03-2013 12:01

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
A proposito di scatolone e del regionalismo scatolo

Scatolone è un accrescitivo di scatola, così come scatolino un diminutivo; senza con questo escludere che si possa dire e si dica altrettanto spesso scatolona e scatolina. Si sa che negli alterati d'un nome può cambiare tante volte il genere grammaticale; e che nel cambio è favorito più spesso il maschile, così per gli accrescitivi come per i diminutivi. Non ci sono soltanto, per restringersi ai primi, febbrone e parolone accanto a febbrona e parolona, e poi con significati particolari cupolone e pallone e polpettone e seggiolone solo maschili, ma perfino barcone, donnone, salone, scalone, i quali a prima vista potrebbero parere alterati di barco, donno, sale, scalo, che pure esistono, e invece sono una barca, una donna, una sala, una scala fattesi in un tempo stesso più grandi e di genere maschile.


Dunque non è il caso di far leva su scatolone per giustificare l'uso di scatolo. Quanto alla sua struttura, questa variante di scatola è paragonabile a tante altre, come cassetto, tavolo, materasso accanto a cassetta, tavola, materassa; soltanto, è molto meno frequente nell'uso, limitata com'è alle parlate meridionali. Le fanno un posticino alcuni dei dizionari più ricchi. Il Grande Dizionario della Lingua Italiana fondato da Salvatore Battaglia ne riporta tre citazioni: "scatoli mezzi sfasciati", dal siciliano Capuana; "scatoli di carta da lettere, dal Pirandello pure siciliano; "scatoli da conserva", dal napoletano Bernari. Il Vocabolario Treccani di Aldo Duro precisa che questo regionalismo (meridionale) per scatola è usato "soprattutto per indicare scatole di maggiori dimensioni, cioè scatoloni". Un'indicazione, questa, da tener presente nel caso che un domani scatolo potesse fissarsi in un significato più definito e così, riuscendo utile a una qualche migliore distinzione di concetti, finisse coll'affacciarsi nell'uso italiano più comune. Ma è solo un'ipotesi. Per il momento non si può dire che ci sia entrato.


L'uso scritto della parola scàtolo richiederebbe in tutti i modi una certa attenzione, perché certamente si vorranno evitare equivoci con una parola omografa altrettanto rara, scatòlo. È un termine chimico, indica un composto organico dall'odore nauseabondo. Non mette voglia di parlarne di più".

Piero Fiorelli

http://www.accademiadellacrusca.it/i...alismo-scatolo

Herzeleid 08-03-2013 21:32

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Conoscenza linguistica in costante calo

L’ombra dell’analfabetismo di ritorno in Italia


Intervista a Tullio De Mauro: «Non abbiamo alle spalle nessuna età dell’oro da cui siamo decaduti»


Il linguista Tullio De Mauro ha recentemente esternato la sua preoccupazione riguardo al cosiddetto 'analfabetismo di ritorno'. In una società che richiede sempre maggiori conoscenze e competenze, il livello di conoscenza linguistica in giovani e adulti è in costante caduta. Ad aggravare questa situazione l’assenza di infrastrutture -biblioteche, centri di lettura- in grado in garantire alle persone che hanno completato la loro formazione (ad esempio lavoratori che hanno lasciato gli studi da tempo) di ricevere nuovi stimoli alla ricerca e allo studio.



Professore, in che momento le conoscenze linguistiche erano maggiormente diffuse in Italia?

Se “conoscenze linguistiche” si riferisce alla capacità di conoscere, capire e usare la lingua italiana la risposta è: mai. Non abbiamo alle spalle nessuna età dell’oro da cui siamo decaduti. Cinquant’anni fa soltanto poco più d’un terzo della popolazione nel parlare sapeva usare l’italiano, due terzi parlavano soltanto uno dei dialetti, e le capacità di lettura e scrittura erano molto limitate: l’indice medio di scolarità (gli anni di scuola fatti a testa da ciascuno) era di poco superiore a tre. Oggi ha raggiunto i dodici anni e il 95% della popolazione riesce a esprimersi in italiano. Il progresso è stato molto grande. Un problema è che nel frattempo sono cresciute anche le esigenze di comprensione e conoscenza, un altro problema è che al grande sviluppo quantitativo dell’istruzione non ha corrisposto una pari crescita di qualità nella scuola medio-superiore e universitaria. Quel po’ di lingua italiana che si parlava e quel po’ di scuola che si faceva permetteva la sussistenza in una società a base agricola. Oggi abbiamo bisogno di una quantità enormemente superiore di conoscenze e informazioni perfino per fare la spesa senza essere imbrogliati o avvelenati e, insomma, per orientarci nella vita sociale, anche quotidiana. Rispetto a queste crescenti esigenze le nostre conoscenze linguistiche si rivelano troppo povere per gran parte della popolazione.

Quando queste conoscenze sono entrate in crisi?

Con l’entrata del paese nella società della conoscenza, grosso modo tra anni ottanta e novanta del secolo scorso. Come si chiedeva già dagli anni settanta sarebbe stato necessario investire in un adeguato sviluppo dell’istruzione secondaria superiore, dell’istruzione terziaria e della ricerca. Questo non è avvenuto. Inoltre almeno dagli anni novanta ci si rese conto che la scuola ordinaria da sola sarebbe stata impari ai compiti della società della conoscenza e che si sarebbero dovute sviluppare agenzie di cultura (centri di lettura sul territorio, biblioteche ecc.) e istituzioni di educazione degli adulti. Non abbiamo investito né nella scuola ordinaria né in queste strutture collaterali. Il divario tra crescenti esigenze e competenze è andato crescendo, senza che i gruppi dirigenti se ne preoccupassero. L’ascolto televisivo, l’ascolto di una televisione che dai primi anni novanta si è andata sempre più commercializzando, è diventato la principale fonte di conoscenze per la maggior parte della popolazione.

In cosa la tecnologia ostacola l’alfabetizzazione e in cosa potrebbe aiutarla?

«Le tecnologie dell’informazione e comunicazione non creano ostacoli, ma solo grandi opportunità a una popolazione che sappia leggere, scrivere e (fondamentale) far di conto».

La televisione, che fu importante per diffondere l’italiano standard, che ruolo può avere oggi?

Potrebbe tornare a essere un’agenzia di promozione della cultura e delle competenze.

Come la politica può aiutare l’istruzione in un momento così delicato per l’economia?

Investendo in istruzione e ridisegnandola, come avviene in altri paesi europei ricchi e non ricchi, ma anche nell’Asia Orientale, in America Latina e negli USA.

Il livello di istruzione e benessere economico sono direttamente proporzionali?

Sì, secondo gli studi accurati come, per esempio, l’ampia ricerca macroeconomia di Robert Barro e Jong Wh-Lee.

Come creare un circolo virtuoso tra istruzione ed economia?

Orientando le risorse verso l’istruzione anzitutto.

L’informazione giornalistica ha un ruolo in questo processo? Come influisce?

Potrebbe averlo se badasse meno alle proprietà e all’incetta pubblicitaria e più ai lettori o ascoltatori.


http://www.lindro.it/cultura/cultura...orno-in-italia

Sverso 10-03-2013 21:02

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
"Sono il Re di Roma e sono superiore alla grammatica" (cit.)

Herzeleid 10-03-2013 21:38

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Accordo del participio passato

«Il problema dell'accordo del participio passato è uno dei capitoli più spinosi della sintassi italiana. Le principali incertezze possono essere schematizzate nel modo seguente: 1) accordo del participio d'un verbo composto con l'ausiliare avere col complemento oggetto posposto ("ho scelto le migliori opere" - "ho scelte le migliori opere": nettamente prevalente, e quindi anche preferibile, la prima soluzione); 2) accordo del participio d'un verbo composto con avere con l'oggetto anteposto, costituito da un pronome personale o relativo ("ci ha ingannato" - "ci ha ingannati", "la casa che ho comprato" - "la casa che ho comprata"); 3) accordo del participio di essere o di un verbo copulativo col soggetto o col nome del predicato ovvero col complemento predicativo ("il suo discorso è stato, è risultato una sorpresa" - "è stata, è risultata una sorpresa"); 4) accordo del participio d'un verbo pronominale col soggetto o col complemento oggetto, sia esso anteposto o posposto ("la meta che ci siamo prefissati" - "che ci siamo prefissata".

La possibilità di scelta per i punti 2, 3 e 4 è esistita da sempre in italiano e le restrizioni di tanto in tanto indicate da qualche grammatico sono da considerarsi infondate. Anche in uno scrittore particolarmente sensibile al problema dell'omogeneità linguistica come Alessandro Manzoni si possono cogliere alternative: "le cose che m'hanno fatto" (I Promessi Sposi, cap. XXXV) - "le ciarle che avrebbe fatte" (cap. III), - [gli uomini] "si riunivano in crocchi, senza essersi dati l'intesa" (cap. XII) - "altri passeggeri s'eran fatta una strada ne' campi" (cap. XI) ecc.»

http://www.accademiadellacrusca.it/i...icipio-passato

Herzeleid 14-03-2013 02:20

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Da Napoli a Roma: evoluzione dell'inciucio


Severina Parodi sulle pagine della nostra rivista La Crusca per voi (n. 12, aprile 1996) scriveva: «Propriamente il napoletano 'nciucio significa 'pettegolezzo, chiacchiericcio' e il verbo 'nciucià 'spettegolare, fare e riportare chiacchiere; malignare; mettere zizzania fra persone col proprio sparlare'; questo secondo i moderni dizionari del napoletano che riportano anche 'nciucessa 'pettegola', mentre nei dizionari più antichi (Galiani ad es.) il termine non figura. Nell'uso odierno, tuttavia, la parola tende a scostarsi dal suo significato originale per assumere quello di 'imbroglio, intrallazzo, finta'. Così come si nota nel leggere, ad es., nella "Nazione" del 23.02.1996, a proposito della rissa tra un giornalista e i "gorilla" di Pippo Baudo al recente festival di Sanremo, la dichiarazione del noto presentatore: "Colpa dell'inciucio che non c'è. Se ci fosse stato l'inciucio forse ci divertiremmo di più", come dire "se avessimo fatto le finte, la cosa sarebbe stata più divertente".»


La Parodi scriveva quando il termine dialettale era da poco entrato nell'uso del linguaggio della politica nazionale come "compromesso poco chiaro, accordo pasticciato, soluzione non trasparente, intrallazzo" (S. Novelli, G. Urbani, Dizionario della Seconda Repubblica, Roma, 1997). Negli Annali del lessico contemporaneo italiano: Neologismi 1995, a cura di Michele A. Cortelazzo (Padova, 1995) si cita come primo esempio una frase di Roberto Maroni pubblicata sul "Corriere della Sera" del 23 dicembre 1995, ma si aggiunge che il "battesimo della politica" è stato dato al termine, o meglio al suo accrescitivo inciucione, da Massimo D'Alema in una intervista rilasciata a Mino Fuccillo su "Repubblica" del 28 ottobre dello stesso anno; accrescitivo che sarà subito ripreso nel titolo di un articolo del 30 ottobre, che commentava quell'intervista.


La cosa non passò sotto silenzio tanto che, dalle pagine del "Corriere", già il 29 ottobre, Beppe Severgnini, con la consueta ironia, commentava l'uscita di D'Alema, il quale non forniva la spiegazione del termine, rimproverandogli di aver lasciato in ansia gli italiani, perché "Qualunque cosa sia, ha un suono minaccioso. Molte porte italiane, la notte scorsa, erano chiuse a doppia mandata. I pidiessini giurano che non mangiano più i bambini; adesso non possono terrorizzarli con l'inciucione". Dichiarava di aver "provato a telefonare in giro per l'Italia: niente da fare. Lombardi, veneti, piemontesi, liguri, emiliani, toscani e sardi, davanti all'inciucione, sono perduti"; finalmente "I primi indizi sono arrivati da Napoli, l'inciucione, mi è stato assicurato, è un grande inciucio. D'accordo, ho chiesto: ma cos'è un inciucio? Inciucio, mi è stato risposto, è il pettegolezzo; inciucesso (parola non entusiasmante), il pettegolo. No, hanno ribattuto da Roma. Inciucione viene da inciuciamento, chiacchiera intima e compiaciuta tra più persone".
Il titolo dell'articolo è appunto Potevano dire "pettegolezzo". Avrebbe fatto meno paura, ma D'Alema intendeva ben altro che 'pettegolezzo', come è chiarito dall'interpretazione di Fuccillo nel suo commento: "Quel che non si sa o si vede poco è che, purtroppo, c'è una terza via, all'italiana. Niente elezioni, niente accordi prima del nuovo governo, solo grandi fanfare che annunciano riforme. Per questa terza via si va a un governo dove uno strapuntino non si nega a nessuno, tutti insieme si galleggia e questo è l'obiettivo. È questo e non altro l'inciucione: nessuno lo propone". Benché il termine non fosse ancora chiaro agli italiani in ansia, doveva esserlo per i politici interlocutori di D'Alema, visto che «Berlusconi lo considera[va] "un'ammucchiata"» (Fini: il governissimo è la fine del Polo, "Repubblica", 29.10.1995), usando un altro termine del "politichese", che non risultava certo ansiogeno per il pubblico nazionale.
Quale fosse il valore di inciucio poteva averlo chiarito ai suoi colleghi Alessandra Mussolini, napoletana, che l'anno prima aveva lanciato «Una sequela di attacchi, anche feroci. [...] contro Gianfranco Fini e le sue "cannonate" d' oltremare, contro l'"inciucio", arte sommersa del "tessere le reti di nascosto"» come testimonia un articolo del "Corriere", che doveva esser sfuggito a Severgnini (La Mussolini: Gianfranco, basta con i siluri al Duce, 5.7.1994). In realtà la voce era già entrata nell'agone politico da almeno quattro anni, anche questa volta proposta da sinistra: "Adesso non mettevi a parlare di inciucio, supplica Rina Gagliardi, [...]. E certo, a sentire le battute di Valentino Parlato, è difficile pensare a un compromesso qualsiasi tra lui, Pintor e Rossanda e la ciurma ribelle del giornale" (Disgelo in vista al Manifesto, 27.6.1990).


Evidentemente a Roma i politici, qualsiasi fosse la loro origine (la Gagliardi era pisana), usavano il termine nel significato specialistico, mentre i romani, anche se dell'ambiente, continuavano a impiegarlo in quello rilevato da Severgnini: "E che vacanze vuoi che faccia Costanzo. È lì, fra il teatro e gli uffici, le carte, il caffè, l'inciucio al telefono, le passate di cerone al trucco", scriveva meno di due mesi dopo il romano Paolo Guzzanti (Credetemi la gioia non è peccato, "Repubblica", 12.8.1990). In realtà, il particolare valore che le "inchieste telefoniche" del giornalista attribuiscono all'inciuciamento romano, era già un'evoluzione presente nel napoletano, visto che Vittorio Parascandola in Vèfio. Folk-glossario del dialetto procidano (Napoli, 1976) citato negli Annali aggiunge al valore di 'pettegolezzo' per inciucio la precisazione: "che si realizza con una serie di conciliaboli e conventicole e, soprattutto, con una serie di parlottamenti sottovoce". Ciò fornisce il tramite tra il significato tradizionale del napoletano ricordato da Severina Parodi e quello "politico", e ben presto anche generico, che il termine ha assunto.
Per quel che concerne l'origine remota della voce, come la Parodi giustamente notava, essa non compare nei repertori napoletani più antichi, ma nel Vocabolario Napolitano-Toscano di Raffaele D'Ambra (Napoli, 1873) troviamo le forme onomatopeiche ciociò e ciù ciù "per indicare quel suono confuso che si fa quando si parla a voce bassa" e i verbi ciocioliare e ciuciuliare per 'bisbigliare, parlottare', da cui è probabile che inciucio derivi.


In ogni caso non c'è dubbio che la voce abbia avuto successo (mi sento di poter aggiungere purtroppo), tanto che nel 2005, quindici anni (nel libro si dichiara dieci) dopo il suo "ingresso in politica", Peter Gomez e Massimo Travaglio hanno titolato Inciucio il volume uscito per la Biblioteca Universale Rizzoli e che il termine compare in oltre 1400 pubblicazioni a stampa (Google libri 17.01.2011); se si passa alla rete il numero delle occorrenze balza a oltre 80.000 (Google alla stessa data). Del resto il termine è registrato nei dizionari di lingua (Vocabolario Treccani, Supplemento 2004 al GDLI, GRADIT, che dall'edizione 2007 anticipa la datazione al 1990, DISC 1997, ZINGARELLI 1997, Devoto-Oli 2002-2003), alcuni dei quali riportano anche derivati come inciucismo, inciucista,inciucioso, inciuciare.
Per ciò che riguarda i quotidiani, "luogo deputato" per questo genere di voci, sul "Corriere" ad oggi inciucio ha raggiunto le 1082 occorrenze, non molte meno delle 1175 su "Repubblica"; inoltre su "Repubblica" l'uso più recente risale solo al 12 gennaio scorso e nello stesso quotidiano il 31 dicembre 2010 la voce compariva in ben tre articoli diversi.


Nel 1995 Severgnini concludeva così il suo articolo: "Siccome la politica italiana non è abbastanza allucinante, ci volevano giusto i mostri e le sciarade"; ci possiamo domandare se l'inciucione fosse la cosa peggiore che potesse capitarci.

http://www.accademiadellacrusca.it/i...e-dellinciucio

Herzeleid 15-03-2013 20:54

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Sull'uso del passato remoto

Sull'uso del passato remoto

«Quando ci riferiamo ad avvenimenti del passato, lontano o recente, noi possiamo percepirli o come collegati col presente o come separati da questo. Li sentiamo collegati col presente quando fissiamo l'attenzione sul perdurare dei loro effetti: "L'uomo è comparso sulla terra all'inizio dell'era quaternaria" (=è comparso e ci vive tuttora), oppure quando collochiamo eventi e azioni in una cornice temporale che include il presente: "Fin dai tempi più lontani (=dai tempi più lontani fino ad oggi) l'uomo ha sfruttato l'ambiente naturale". Avvertiamo invece eventi e azioni come separati, distaccati, dal presente quando li consideriamo nel loro compimento, e conclusi; non ne cerchiamo le tracce nel momento attuale, ma li collochiamo in un momento particolare del tempo già trascorso: "Quando l'uomo apparve sulla terra, era appena incominciata l'era quaternaria".

La scelta del passato prossimo e del passato remoto non dipende dalla distanza temporale degli avvenimenti; dipende dalla collocazione che diamo a questi rispetto al momento in cui ne parliamo e dal "punto di vista" dal quale li consideriamo, cioè dall'atteggiamento con cui percepiamo il passato. Usiamo il passato prossimo per esprimere un'azione compiuta o un accadimento che "lasciano tracce" (come diceva Giacomo Devoto) nel presente. Usiamo il passato remoto per manifestare il distacco, e quindi la lontananza, di tali avvenimenti dal momento in cui ne parliamo. Dobbiamo perciò intendere remoto nel suo significato etimologico di "separato", "staccato", "rimosso"; e prossimo come indicante vicinanza o attualità psicologica.
È naturale che i "legami" col presente si allentino più facilmente per gli avvenimenti lontani nel tempo e si mantengano più saldi quanto più questi sono recenti. Dirò: "Giulio Cesare morì nel 44 a.C." perché il fatto non mi appare in alcun modo collegato con la situazione in cui mi trovo a parlarne, e dirò: "Stamattina (ma anche 'ieri', 'due giorni fa') è morto il mio vicino di casa" perché sento come attuale l'accaduto, ne avverto le conseguenze, lo riporto alla mia esperienza soggettiva: conoscevo quella persona, ora non c'è più [...].

Le cose cambiano quando cambiano le circostanze della comunicazione e i tipi di testo che si vogliono produrre. In una narrazione obiettiva di eventi passati che non siano messi in relazione col presente né abbiano alcun collegamento con l'esperienza personale di chi parla o chi scrive (pensiamo, per esempio, all'esposizione di vicende appartenenti a epoche più o meno lontane, di biografie di personaggi storici ecc.) anche i non toscani ricorrono al passato remoto (o, in alternativa, al presente storico) nello scritto o nel parlato più sorvegliato.

Le risorse della lingua ci consentono di manifestare il nostro punto di vista su azioni e accadimenti: la scelta che facciamo dei tempi verbali rispecchia dunque le nostre valutazioni riguardo alla durata, all'ambito temporale, alla persistenza di effetti e risultati della azioni e degli eventi. Esserne consapevoli significa orientare al meglio le proprie decisioni» (Bice Mortara Garavelli, La Crusca per voi, n°2, p. 5).

Giovanni Nencioni (La Crusca per voi, n°6, p. 10), pone anche l'accento sull'aspetto diatopico del problema, ovvero sulla diversa distribuzione geografica della scelta fra i due tempi verbali, sottolineando come «l'alternanza del passato prossimo col passato remoto, nella lingua sia parlata che scritta, non è uniforme in Italia, perché vi influisce anche il sostrato dialettale dei parlanti o scriventi. Le migliori grammatiche dicono che nell'Italia settentrionale prevale l'uso del passato prossimo, nell'Italia meridionale l'uso del passato remoto, benché il passato prossimo vi acquisti terreno; in Toscana l'alternanza è tuttora viva e significativa».

http://www.accademiadellacrusca.it/i...passato-remoto

Herzeleid 22-03-2013 11:12

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Uscire fuori, salir su e altri pleonasmi

Nonostante che nel significato del verbo sia già contenuta l'idea ribadita dall'avverbio fuori, la forma "uscire fuori" è largamente attestata nell'italiano scritto, anche letterario, da Dante a oggi. In particolare nel Grande Dizionario della Lingua Italiana (Barberi-Squarotti, UTET), sotto la voce "fuori" si trova un paragrafo dedicato proprio alla locuzione "uscire fuori" con la seguente definizione: "portarsi all'esterno di un luogo chiuso, di uno spazio circoscritto; sfuggire. Anche: avviarsi ad affrontare il nemico in campo aperto"; qualche rigo più sotto poi viene trattata la particolare accezione di "uscire fuori dalla bocca" (es. da Piccolomini: "come le esce fuora una parola di bocca, non è più possibile di farla ritornar dentro"). Nell'italiano contemporaneo e in particolare nella lingua parlata sono frequenti forme e locuzioni ridondanti, in cui cioè il significato che si vuole esprimere viene ribadito da più elementi presenti nella stessa frase: si tratta di un fenomeno normale, volto a conferire maggiore incisività ed espressività a quello che si dice.

Sulla questione degli usi pleonastici era già intervenuto Giovanni Nencioni sulle pagine della Crusca per Voi (n° 8, p. 12) in un confronto con la diffusione di particelle combinate a verbi in inglese:
«Le nostre grammatiche distinguono il verbo semplice dalla locuzione verbale, composta di una testa verbale che si appoggia semanticamente a un aggettivo (farsi bello, farsi vivo) o a un sostantivo (far menzione, prender le parti) o a un avverbio (metter su, andar via); si veda Serianni e Castelvecchi, Grammatica italiana, IV, 72; XI, 2, 365. La locuzione verbale può corrispondere a un verbo semplice, ma, se formata con particelle avverbiali, è fortemente polisemica ed espressiva, come prodotto eminentemente popolare. Dimostrano tale origine la sua frequenza nei dialetti (che è indubbio segno di antichità) e il suo uso pleonastico: salir su, scender giù, cacciar via. Quanto alla polisemia, che si risolve nel contesto, basti pensare ai casi di metter su famiglia, metter su uno contro il fratello, metter su superbia, metter su il brodo e, nell'italiano regionale, metter su (o far su) il cappotto; oppure a buttar giù nei sensi di "buttare in basso o abbattere o scrivere in fretta qualcosa o deprimere".

L'uso inglese è sistematico, quindi normativo, e vasto ben più dell'italiano; ma questo, a osservazioni recenti, appare in via di sviluppo, il che può attribuirsi sia all'influenza dell'italiano settentrionale, dove è largamente penetrato dai dialetti, sia a un processo di semplificazione cui l'italiano parlato da quasi tutti gli italiani va soggetto, perdendo la ricchezza della varietà sinonimica e delle forme sintetiche posseduta dalla lingua letteraria. La sostituzione, però, di verbi semplici con locuzioni verbali (o verbi complessi), se pare una semplificazione, è in realtà, sotto l'aspetto semantico, una complicazione, perché il significato della forma analitica non si spiega con la somma del significato dei suoi componenti: tirar su è semanticamente divaricabile tra il significato di sollevare, confortare, migliorare una condizione e quelli di costruire (un edificio), attingere (l'acqua) o tirar su col naso. Nel suo bel saggio Stabilità e instabilità nei caratteri originali dell'italiano, inserito nel volume miscellaneo Introduzione all'italiano contemporaneo. Le strutture a cura di A. Sobrero, Laterza, Bari 1993, Raffaele Simone osserva acutamente: "II funzionamento di questi verbi... è molto somigliante a quello dei phrasal verbs inglesi (set up, set off, blow up, drop by, ecc.). Questi verbi italiani sono infatti, come quelli inglesi, pienamente sintagmatici: solo in pochi casi è possibile sostituirli con la pura e semplice testa verbale (Mi ha fatto fuori ma *Mi ha fatto); per lo più solo la coppia sintagmatica è possibile" (p. 95).»

A cura di Raffaella Setti
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

http://www.accademiadellacrusca.it/i...ltri-pleonasmi

Infinite Jest 25-06-2013 02:47

Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
 
Nero, negro e di colore


«Sull’uso di negro, nero e di colore per descrivere e caratterizzare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della sua (o della loro) pelle si è discusso non poco, negli ultimi decenni. E tuttora si continua a discutere, a voler scorrere, in Internet, i forum dedicati al tema. Non è un caso. Perché non vi è dubbio che l’argomento e le connesse scelte linguistiche presentino alcune incertezze e insidie sia sul piano squisitamente lessicale, sia su quello dell’accettabilità o dell’interdizione sociale. Fino agli anni Settanta, negro, nero e di colore sono stati usati quasi come sinonimi e con connotazioni di significato molto simili (tutt’al più, erano caratterizzati da un diverso uso sintattico, essendo gli ultimi due impiegati soprattutto in funzione aggettivale).


Negro, fra i tre, era certamente quello più storicamente attestato, più semanticamente pregnante. Tradizionalmente, identificava una presunta «razza» (la «razza negra», o «i negri», appunto) a cui nei secoli erano state attribuite precise e specifiche caratteristiche, sia fisico-somatiche sia morali (ancora negli anni Cinquanta – anni in cui cominciò a vacillare lo stesso concetto di «razza» – era possibile leggere sullo Zanichelli che «i negri» erano “popoli d’Africa di colore scuro… con cranio stretto e alto, prognatismo… collo grosso, pelle grossolana, statura piuttosto alta, vivaci, facile da imitare…»). Veicolava giudizi di inferiorità. Ed evocava secoli di «razzismo», e di crimini commessi in suo nome. Tuttavia, poteva essere utilizzato – soprattutto, in funzione aggettivale – senza provocare scandalo, o senza essere ritenuto necessariamente offensivo (cfr. F. Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del diverso in italiano e nei dialetti, Milano, 2004, pp. 99 sgg.).


Solo all’inizio degli anni Settanta, in seguito alle lotte dei «neri» americani, alcuni traduttori avrebbero cominciato a bandire l’uso di negro in favore di nero, che pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black, assurto a simbolo e parola-chiave dei movimenti per i diritti delle minoranze negli Stati Uniti («Black power», «Black is beautiful»). Cominciò anche a diffondersi l’espressione di colore, calco dall’anglo-americano coloured (che dagli anni Trenta aveva vissuto alterne fortune: cfr. K. Johnson, «The vocabulary of race», in Rappin’ and stylin’ out. Communication in Urban Black America, a cura di T. Kochman, Chicago, pp. 140 sgg; H. Mencken, The American Language, New York, 1985, p. 381). Ciò non inibì, comunque, la circolazione di negro, che anzi negli anni Ottanta poteva essere usato – con pretesa di neutralità – dai più importanti media nazionali in relazione al fenomeno dell’immigrazione, e alla crescente presenza, in Italia, di immigrati provenienti – in prevalenza – dall’Africa, e quindi «negri» o «neri» per definizione (da un articolo di «Epoca», del 13 dicembre 1987: «... il 24 per cento degli italiani non vorrebbe avere una relazione sentimentale con un negro...»; cfr. Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia, a cura di L. Gariglio, A. Pogliano, R. Zanni, Bruno Mondadori, 2010, in particolare pp. 103 sgg.).


Qualcosa probabilmente cambiò con l’inizio degli anni Novanta, quando importammo il dibattito sul «politicamente corretto» dai paesi anglosassoni (cfr. E. Crisafulli, Igiene verbale. Il politicamente corretto e la libertà linguistica, Roma, 2004; Geoffrey Hughes, Political correctness. A history of Semantics and Culture, London: Wuley-Blackwell, 2010; R. Fresu, Politically correct, in «Enciclopedia dell’Italiano», diretta da R. Simone, Vol. 2, Roma, 2011, pp. 1117-1119). Con degli esiti sia sull’asse paradigmatico – nella scelta, cioè, fra negro, nero, di colore (o afro-americano, che però da noi ha attecchito solo in certi contesti d’uso, e in certi registri) – sia, più in generale, nella percezione del rapporto tra lingua e società, e tra usi linguistici e sensibilità (individuali e collettive). Ricevendo quindi non soltanto indicazioni – secondo alcuni, prescrizioni – lessicali (ad esempio, l’interdizione dei vocaboli anglo-americani negro e nigger, che ha certamente avuto dei riflessi nell’interdizione dell’italiano negro), ma soprattutto spunti di discussione sul valore discriminante di alcune categorie ed etichette verbali all’interno di una società complessa, dove i rapporti di forza e di potere tra la maggioranza e le minoranze passano anche attraverso il linguaggio.


Quale che sia l’opinione rispetto al movimento del «politicamente corretto» e alle sue rivendicazioni, è stata probabilmente questa maggiore attenzione all’uso delle parole (e alle loro ripercussioni sociali, con l’innescarsi di atteggiamenti di stigma, o di fenomeni di interdizione), seppur indotta, ma suscitata non a caso nei decenni in cui il fenomeno dell’immigrazione ci ha messo di fronte alla presenza dell’«altro», a far sì che negro, oggi, appartenga ormai alla sfera del vituperio. Perché è nella prassi che negro è generalmente avvertito dai parlanti come offensivo, discriminante: sia da chi lo utilizza, consapevolmente, per insultare (ad esempio, in binomi lessicali pressoché fissi come «sporco negro», «negro di merda»), sia da chi lo riceve, come epiteto (cfr. J. Butler, Parole che provocano, Milano, 2010; Federico Faloppa, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Laterza, 2011, pp. 17 sgg.). E sia da chi, pur obiettando che esso è etimologicamente giustificato, e sottoposto a censura solo per motivi di fastidiosa pruderie linguistica, avverte la necessità di sostituirlo con nero, consapevole tanto delle connotazioni legate storicamente a negro quanto delle norme sociali che ormai ne regolano l’uso. Certo, sarebbe bene – come sempre, in fatto di lingua - non prescindere dai contesti, dalle intenzioni del parlante, o dai tratti sovrasegmentali (come l’intonazione). Ed evitare, in ogni caso, tentazioni censorie o posizioni isteriche (come quella di quel tale che un giorno – il racconto è autentico - in piscina sentì un ragazzino che urlava «negro, negro», gli si avvicinò indignato per rimproverarlo, e si sentì rispondere: «ma sto chiamando il mio amico: si chiama Negro di cognome»). Tuttavia, negro resta indubbiamente un termine problematico: occorre tenerne conto.


Quanto a nero o di colore, il dibattito è tuttora aperto. L’espressione di colore – da molti ritenuta neutra e priva di connotazione negativa – è stata in anni recenti messa sotto accusa. In proposito, si ricorderà la poesia anonima, circolata ampiamente sul web con intento ironico-polemico, Uomo di colore («Io, uomo nero, quando sono nato ero Nero/Tu, uomo bianco, quando sei nato, eri Rosa/Io, ora che sono cresciuto, sono sempre Nero/Tu, ora che sei cresciuto sei Bianco/Io, quando prendo il sole sono Nero/Tu, quando prendi il sole sei Rosso/Io, quando ho freddo sono Nero/Tu, quando hai freddo sei Blu/Io, quando sarò morto sarò Nero/Tu quando sarai morto sarai Grigio/E tu mi chiami uomo di colore»), o anche, forse, il vivace battibecco, negli Stati Uniti, tra il senatore Harry Reid e il giornalista Cord Jefferson, rispettivamente contro e a favore dell’uso del termine colored. In attesa di uno studio che dell’espressione ci fornisca, tanto in diacronia quanto in sincronia, contesti, occorrenze e co-occorrenze, frequenze d’uso, si fa strada la sensazione che il significato di di colore – eufemismo adottato per sostituire l’offensivo negro – invece di essere percepito come neutro, metta l’accento proprio sulla caratteristica (il colore della pelle) che si vorrebbe non evidenziare e non discriminare. E quindi si tende a preferire nero, in generale, per indicare tutte le gradazioni più scure del colore della pelle.


Detto questo, anche il termine nero non è privo di connotazioni ambigue. Quando usato come sostantivo per identificare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della pelle, rischia anch’esso di creare una categoria approssimativa, omogenea e omologante («i neri», «le nere»), basata non solo sul contrasto cromatico, ma anche – è sensazione di chi scrive – sulla mancanza, difettiva, di alcuni tratti (tanto fisici quanto culturali tout court) che si presume appartengano al gruppo (bianco) di maggioranza. Quando usato come aggettivo, rischia di apparire sovrabbondante: di essere usato, cioè, anche quando non ce ne sarebbe bisogno (ad es. Il cameriere nero ci ha serviti).


Il punto vero, infatti, è che – al di là di opzioni più o meno accettate – sarebbe meglio specificare il colore della pelle solo se effettivamente necessario ai fini della comprensione del messaggio o dell’informazione che si vuole trasmettere. Non certo per nascondere una caratteristica fisica; semmai – al contrario – per non rimarcarla quando non serve. Come si fa, d’altronde, comunemente con tutte le altre pigmentazioni: quante volte ci è realmente capitato, o ci capita – e la domanda è retorica – di dover specificare che qualcuno è "bianco", o appartiene al gruppo dei "bianchi"?»

http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/nero-negro-colore


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