L’umana troppo umana solitudine nella poesia di Charles Bukowski
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La notte in cui stavo per morire stavo sudando nel letto e potevo sentire i grilli e c’era una lotta fra gatti fuori e potevo sentire la mia anima sgocciolare attraverso il materasso e appena prima che toccasse il pavimento sono saltato su ero quasi troppo debole per camminare ma ho camminato un po’ e acceso tutte le luci poi sono tornato a letto e ancora la mia anima sgocciolava attraverso il materasso e sono saltato su appena prima che toccasse il pavimento ho camminato un po’ e acceso tutte le luci poi sono tornato a letto e lei ancora sgocciolava e io mi alzavo accendendo tutte le luci. Avevo una figlia di sette anni ed ero sicuro che lei non voleva che io morissi altrimenti non avrebbe importato. Ma per tutta quella notte nessuno telefonò nessuno venne con una birra la mia ragazza non telefonò tutto quello che sentivo erano i grilli ed era caldo e io badavo a continuare ad alzarmi e stendermi finché il primo sole arrivò attraverso la finestra attraverso i cespugli e io mi sdraiai sul letto e l’anima restò dentro finalmente e io dormii. Adesso le persone vengono a bussare alla porta e alle finestre il telefono squilla il telefono squilla di continuo ricevo bellissime lettere con la posta lettere d’odio e lettere d’amore. Tutto è di nuovo come prima. Non ha bisogno di molte presentazioni, “il bravo, vecchio Hank”. Già, Hank; così preferiva essere chiamato Henry Charles Bukowski. Un nome semplice, immediato e comune, più adatto a uomo invaso da una rabbia “umana troppo umana” nei confronti della vita. Genio e sregolatezza, Bukowski è l’emblema dell’andare contro: è il fallito, l’ubriacone, il donnaiolo… ma non solo. È anche lo scrittore determinato, autore di centinaia di racconti, romanzi e migliaia di poesie; un uomo salvato dalla scrittura, che trova attraverso di essa un senso allo scorrere del tempo e a quella vita contro cui pure spesso si era scagliato, cercando di sprecarla, calpestandola. Conosciuto soprattutto per le sue opere in prosa, Bukowski è anche autore di versi straordinari, impregnati di quella disillusione, amarezza e sdegno che tanto gli erano congeniali. Al centro della poesia sopra riportata troviamo, infatti, un uomo deluso, occupato a portare a termine uno strano rito pur di non lasciar scivolare l’anima fuori dal corpo. Panico, forse. E mentre sale e scende dal letto, mentre cerca di calmarsi, di attaccarsi alla vita con le unghie, proprio quando anche una sola parola gli faciliterebbe il compito, ecco che scopre e incontra la solitudine caratteristica di ogni essere umano. Perché capita spesso: circondati da persone quando potremmo farne a meno e soli quando avremmo bisogno di una presenza, che fosse una. È per una figlia che il poeta si sforza di sopravvivere; ognuno di noi trova e ha le sue ragioni. E quando finisce la notte, quando il giorno torna a bussare alla finestra, ecco riattivarsi la routine, ecco che la vita si riempie nuovamente di comparse: amici, colleghi, parenti, compagni. E dov’erano tutti la notte in cui stava per morire? Ognuno chiuso, forse, nel proprio guscio, intento a leccarsi le proprie ferite. Neanche l’amore è capace di farci sentire meno soli; nonostante gli sforzi per diventare tutt’uno con il corpo e con l’anima, nonostante le parole spesso sussurrate tra le lenzuola, gli abbracci così forti da non lasciar capire dove finisca uno e cominci l’altro, i baci sentiti, le mani desiderose, gli occhi pieni. Lo sa bene, il nostro Hank. http://www.letteratu.it/2012/01/16/l...rles-bukowski/ |
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