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Carletto...
continuo
2 Il cielo è bianco. Sul dopopranzo domenicale casca una calda luce abbagliante. Una macchina attraversa silenziosa la strada deserta; il riverbero della carrozzeria scivola sulle facciate delle case a fianco. Da appartamenti sconosciuti e mai visti arriva lo stridere delle forchette sul piatto e il commento disperso di un telegiornale. Sorseggio un caffè e appoggio il mento sul palmo gustandomi questi rumori sazi e pigri: il pranzo è terminato. Nelle giornate più calde la città è svuotata dai rumori e riempita dal silenzio. C’è un angolo della terrazza con un po’ di ombra. Mi ci distendo supino, con le mani sulla pancia, e pian piano serro le palpebre, con un caldo tepore che prende a riempirmi lo stomaco. Penso che farò la pennichella qui: u filu vespere, come direbbe mio nonno. Un altro termine che scompare, come scompare la gente. Scompare tutto un mondo umile e semplice, sostituito da un altro mondo stupido e cinico. Un mondo che è entrato lentamente come un ago nella carne, ma con l'effetto di una spallata da giocatore di Football. Mentre ho gli occhi chiusi, dentro mi si aprono gli occhi del bambino di quasi 20 anni fa. La città è cambiata così in fretta, e anche i modi. In un estate così, 20 anni fa, le terrazze avrebbero mostrato le tavole con i pomodori tagliati a metà ad asciugare al sole. Nessuna tavola, niente pomodori; fra un po’ non ci saranno neanche le terrazze. La recente fame di spazio, insaziabile anche di fronte alla vista sul nulla, è scomparsa anch’essa; ora si alzano tetti e mansarde. La famiglia scompare, la terrazza è in disuso, e su ciò si stende un velo pietoso di tegole. Non si fa più l’estratto di pomodoro, non si fa più niente, e in una domenica come questa, 20 anni fa, avrei visto i balconi e le terrazze fumare di carne e pesce arrostiti. Sentivi l’odore arrivare da altre case, e le urla delle madri al balcone che chiamavano i figli al pranzo. Prima si sentiva più Sicilia. Mentre altre cose muoiono di netto, le cose della morte lo fanno più lentamente. Oggi non c’è più il lutto per la morte come 20 anni fa: piuttosto oggi vige la morte del lutto. E’ raro catturare una nera sagoma ingobbita che si allontana in fondo alla strada. Si, è cambiata pure la morte. Il ricordo è più sobrio, ma la marcia dietro al carro funebre resiste ancora. E’ una marcia più colorata, senza la divisa luttuosa, ad eccezione dei più vicini al caro scomparso. Il mondo antico è agli sgoccioli. La marcia dietro al carro continua: diamogli un po’ di tempo che morirà anch’essa. Forse. Quattro anni fa sono stato al funerale di Carlo. Tutti a commentare il gesto del cappio: un po’ a condannarlo, un po’ a compatirlo. A parte me, degli ex amici d’infanzia c’era solo Samuele, uno che abitava proprio di fronte a casa di Carlo. Io sto tra queste gente più come un conoscente del suicida che come un suo vecchio amico: da quel giorno sotto l’albero ho smesso di considerarmi tale, e sono certo che l’ha fatto pure Carlo. In questa città di cui è originario Carlo, nel cuore della Sicilia, il funerale è diverso rispetto alla mia città di mare. Dopo la camera mortuaria fatta in casa, qui è usanza che siano gli uomini ad accompagnare il morto nel suo penultimo viaggio. Lo si accompagna in chiesa. Il giorno dopo, in chiesa, ci sarà l’ultimo saluto al quale potranno partecipare tutti. La madre di Carlo è in un’altra stanza, non si sente bene. Ho stretto la mano a suo marito, occhi negli occhi: << Io e Carlo eravamo compagni di giochi… >> e poi gli avrò detto qualcos’altro che non ricordo, ma mi ricordo gli occhi di suo padre che hanno luccicato, come se le mie parole avessero soffiato sul fuoco del suo dolore. Nelle mie parole avrà anche rivisto suo figlio da piccolo, chissà. Dicono che ‘”per sempre” non esiste’. Dicono una stronzata. Sta di fatto che cerco di redimermi, eppure, il tempo per assolvermi, il tempo per chiedere scusa è finito: Carlo non c’è più. Non ci sarà mai più. Per sempre. L’ho accompagnato al penultimo viaggio, insieme agli altri uomini, di fianco a Samuele. Il cielo era di piombo come quel giorno dentro l’albero. La chiesa ci aspettava con le fauci spalancate. In alto la campana riecheggiava su tutta la piazza: lunghe pause tra un rintocco e l’altro. Delle pausa col vibrato della campana che si dissolve. Quello stesso strumento che come nessun’altro riesce ad essere più giubilare, oggi suona per Carlo un rintocco triste. Tra queste pause, lo scalpiccio è come non mai, lo si sente distintamente, ha persino qualcosa di cameratesco. Durante un funerale, la polvere e i granelli sulla strada diventano cavi, li schiacci davvero, e si sentono pure loro. La facciata della chiesa è sempre più grande. Adesso siamo dentro. In chiesa c’è sempre qualcuno che tossisce: forse per darsi del coraggio, oppure sarà qualcuno allergico a Cristo. Adesso i passi sono raccolti tra il vuoto delle navate. Sono più rumorosi, ma non più veloci. La gente si stringe attorno al padre di Carlo. Lui stringe tra le proprie mani il viso di suo figlio. Nell’ombra della chiesa, tra i marmi e lo spazio arioso della volta, sembra che ci sia più freddo che in piazza. L’ultimo saluto a Carlo. Il padre gli stampa un bacio sulla fronte gelida. Sembra trattenere della resistenza affinché non venga chiuso il coperchio. Cerca di guardarlo ancora un po’, per l’ultima volta. Ciao Carlè. << Domani ci vieni al funerale ? >> Mentre aspetta la mia risposta, Samuele trova l’attimo per accendersi una sigaretta. Infilo il cellulare in tasca guardando la piazza: << No. E’ già assai se oggi sono venuto qui: i funerali proprio non li reggo >>. Samuele mi guarda immobile dietro i suoi occhialoni da sole, poi annuisce: << Si, mi sa che manco io ci vengo domani… >>. A sua insaputa, Samuele ha sposato il mio senso di colpa: il fatto di non essere l’unico a non andare al funerale di domani lo fa sentire meno in colpa, quanto io non ci vado proprio per l’opposto. Fa un tiro, poi butta il fumo dal naso, aggiungendo con impotenza : << Che fine eh? >>. Scuoto la testa guardando per terra una cartaccia che rotola: << Non me lo sarei aspettato, davvero… >>. << Nessuno se lo sarebbe mai aspettato… >> fa Samuele alzando le spalle, << purtroppo le tragedie arrivano così… sono le sorprese più brutte le tragedie. >>. |
Re: Carletto...
Quote:
non uso termini che costringono ad aprie il vocabolario poi, che si capisse dopo che Emanuele fosse una cattiva persona, bè, era voluto: chiamalo effetto sorpresa Sta cosa da frasari ricercati ad altri più plebei ha funzionato benissimo con Gomorra ;), e in un contesto meridionale mi è sembrato quasi inevitabile per dare crudezza al luogo, detto sempre facendo tesoro della tua critica, dato che non ho nessuno a cui fare leggere la mia robaccia... al prossimo racconto :D |
Re: Carletto...
ho messo il continuo sempre nella prima pagina, cancellando quello che avevo postato precedentemente
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Re: Carletto...
Quote:
allora, partiamo adalle spiegazioni dei concetti: Mentre altre cose muoiono di netto, le cose della morte lo fanno più lentamente ... si, in un certo senso è come hai detto tu sopra: mentre tutte le altre cose sono scomparse nel giro di poco, la tradizione del funerale, le cose delle morte , muoiono più lentamente... nel secondo concetto avevo iproprio il dubbio nel quale sei cascato tu, ossia, dopo essere stato così scorrevole me ne esco con un concetto che impone a fermarsi e a rompere il ritmo, ma in realtà è semplicissimo. Il fatto che io non vada domani al funerale fa sentire Samuele meno in colpa, quando io non ci vado per il motivo opposto. In questo passaggio il protagonista fa un'autocritica è una critica: lui non va domani al funerale di domani perchè si sente in colpa, si sente ipocrita ad andare al funerale di una persona che ha fatto soffrire, mentre Samuele non lo fa sentire meno in colpa di non andarci dato che non ci vado pure io. E' un gioco di contrasti, dicotomie ed opposti... Audrey non è critica, è presuntuosa ( detto con tutta la simpatia che mi fa)...A me serve una ciritica con osservazioni, dal quale possatrarre spunti, e non una critica con con indici puntati e semplicistici... Grazie viri |
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