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Re: Il Commediaforum
O come il colore rosso premonitore nel Capolavoro di Roeg:
http://www.fobiasociale.com/il-cinef...41/#post717346 :figo: |
Re: Il Commediaforum
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Re: Il Commediaforum
E' con grande gioia che mi accingo a riprendere, dopo aver ritrovato ispirazione e lucidità, il mio topic prediletto. Che l'Eccelso ci assista :riverenza:
Non ho ancora molto da dire sul IV canto al quale ci eravamo fermati (sempre che altri graditi ospiti vogliano intervenire): aggiungo solo che dal punto di vista stilistico e narrativo esso segna un ritorno, dopo la parziale eccezione di Caronte, ai personaggi che sono poco più che puri emblemi, e alla descrizione di gruppi di anime caratterizzate da un sintetico, pur se spesso efficace, attributo (Cesare con li occhi grifagni, il Saladino solo, in disparte). Anche l'allegoria riprende un ruolo preponderante, con la descrizione delle sette cerchia di mura del castello e del fiume da cui è circondato, attraversato come terra dura dai poeti (le sette arti liberali? le porte della conoscenza?). A mio avviso, gli spiriti magni sono ancora molto più degli exempla che degli individui concreti, forse perché del resto la loro funzione principale nel poema è quella (rappresentare il massimo grado di perfezione a cui l'uomo può giungere con le sue sole forze) o comunque perché l'intento moralistico è ancora prevalente in Dante a questo punto della composizione del Poema. In particolare è da notare come l'incontro con i poeti più importanti dell'antichità venga messo sotto la luce del reciproco onore (parola chiave del canto) che essi tributano l'un l'altro, mentre vengano taciuti gli argomenti "tecnici" di discussione sull'arte poetica di cui Dante ci fa immaginare abbiano parlato, senza però entrare nei dettagli: Così andammo infino a la lumera, parlando cose che ’l tacere è bello, sì com’era ’l parlar colà dov’era con un tocco di realismo che sarà ripreso in altri momenti successivi (durante il viaggio, come in un normale viaggio sulla Terra, non tutto ciò che si dice e si fa è degno di nota o affine al tema principale). Se nessuno ha qualche altro intervento da fare, direi che si può fissare il 15 agosto come termine per la lettura del V canto e l'inizio dei commenti. Buona lettura. |
Re: Il Commediaforum
L'ora è giunta :occhiali:
Sempre sperando che qualcuno abbia voglia di intervenire, ché i monologhi non sono il mio forte, posto per ora solo qualche impressione sulla prima parte del canto, quella dell'incontro con Minosse. Siamo ora davvero dove non è che luca, nell'Inferno vero e proprio, e Dante ci tiene a sottolineare lo stacco con quanto si è visto in precedenza (il secondo cerchio, quanto è più piccolo del primo, tanto più dolore racchiude, e punge a guaio). La figura di Minosse, con quello stavvi posto a inizio verso, accentua ancora di più il distacco e richiama Caronte sia nell'aspetto spaventoso sia nell'invito a ripensare l'opportunità di continuare il cammino. Non a caso Virgilio ripete a lui (e farà altrettanto con Pluto) la stessa formula usata con il nocchiero per comunicargli l'insuperabile volere divino. I guardiani dei cerchi dell'Alto Inferno, da Minosse in poi, non hanno molto più della loro "presenza scenica" per incutere timore al pellegrino, e tutta la messinscena, appunto, dei loro incontri con Dante e Virgilio sembra quasi un rito (d'iniziazione?) in cui ognuno di loro recita un ruolo predefinito, che si traduce alla fine nel lasciapassare per l'iniziato. C'è del grottesco, forse, in questo (grottesco che invece era praticamente assente in Caronte, che manteneva molto dell'impostazione classica virgiliana), e direi senza dubbio nel processo post mortem e post iudicium Dei che Minosse intenta a tutte le anime dannate (per non parlare del particolare della coda che si avvolge sul petto, con tanti giri quanti ne corrispondono al cerchio infernale di destinazione). Non c'è davvero bisogno che esse dicano la loro colpa e ascoltino la sentenza che spetta loro, dato che tutto è già noto e deciso da ben altra autorità. Questa non è altro che una formalità, forse necessaria ad esplicitare davanti all'anima dannata la colpa che la condanna, di certo un rito di passaggio come quello dell'Acheronte. |
Re: Il Commediaforum
Proseguo (spero non da solo ^^) nell'analisi del canto.
Il primo impatto di Dante con l'atmosfera del secondo cerchio (e dunque con quella dell'Inferno propriamente detto), mi ricorda, non saprei dire quanto appropriatamente, quello del Poeta con l'Antinferno. In entrambi i casi, infatti, le prime impressioni sono soprattutto uditive (sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere sanza stelle tra gli ignavi, mentre nel cerchio dei lussuriosi sono le dolenti note a farsi sentire e il pianto a percuotere l'orecchio del viandante) e "atmosferiche" (nel canto III il tumulto delle voci in mille lingue e accenti diversi crea un turbine che rotea come la rena quando turbo spira, nel canto V il luogo mugghia come fa mar per tempesta). Una differenza, però, pare potersi intuire: nel caso degli ignavi il tema dominante è quello dell'immensa moltitudine di persone, che per la prima volta in assoluto si offrono allo sguardo di Dante (ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta). Lo stupore nel sentire espressioni di dolore in tutte le lingue del mondo e così disperate non può che turbare il pellegrino (per ch’io al cominciar ne lagrimai). Nel caso dei lussuriosi, invece, la rappresentazione della bufera infernale è già funzionale alla concreta presentazione del particolare tipo di peccato commesso da costoro: la sottomissione della ragione al talento, all'istinto, che come in vita li ha fatti errare senza una meta precisa, così nell'aldilà li mena di qua, di là, di giù, di su. Non a caso Dante riconosce subito il tipo di colpa punita in questo cerchio (a differenza che per gli ignavi, per i quali chiede spiegazioni a Virgilio) già solo osservando la loro condizione. E così detta l'epigrafe che può essere considerata la chiave di lettura dell'intero canto, nei suoi diversi livelli interpretativi: Intesi ch’a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento |
Re: Il Commediaforum
Finalmente siamo giunti all'inferno vero e proprio!
Sì Minòs appare proprio come una presenza grottesca ma nonostante l'aspetto sgradevole lo si può immaginare preso dall'intento di conservare la sua dignità regale col contegno che mostra nell'esercizio del suo ufficio. Un giudice infernale non può che essere una triste parodia di un giudice terreno: incompetente perché privo di qualsiasi nozione del vivere moderno e quindi di dottrina e teologia cristiana, è solo un automa che solo per un momento smarrisce la sua disumanità di fronte all'incredibile presenza di un'anima viva nella dimora di quelle perdute. "Ora incomincian le dolenti note" quante volte in contesti più o meno seri abbiamo e con qualche variante, abbiamo sentito ripetere questo verso nel parlare comune? E' talmente popolare questo canto che l'approccio nella sua rilettura rischia di essere un po' superficiale per la presunzione di sapere già tutto. Così quando si arriva a leggere la terzina: Intesi ch’a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento si può credere che sia superfluo che il poeta precisi di aver capito a cosa corrisponda la punizione della bufera infernale. Naturalmente una lettura così semplificatrice è errata! In questo intendimento del poeta c'è già tutta la drammaticità del canto. |
Re: Il Commediaforum
Sono contento che qualcun altro sia voluto intervenire :applauso:
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Resta però, secondo me, il cotanto uffizio che, automatico e puramente formale quanto si vuole, conserva un residuo di dignità autentica in quanto esplicazione del volere divino. E' sorprendente notare, a questo proposito, come tutti i demoni dell'Alto Inferno non oppongono resistenza al viaggio di Dante, in quanto anche loro sono esecutori dei decreti di Dio (nella fattispecie, del Dio giudice). Quote:
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Re: Il Commediaforum
Il 2014 è l'anno dei miei trentacinque anni, quindi non posso esimermi dal proseguire il cammino alla ricerca della diritta via. Dai Winston, ché dopo ti sentirai meglio.
Riprendiamo le trasmissioni :occhiali: Dunque, eravamo al quinto canto dell'Inferno, con all'ingresso in scena della prima moltitudine di dannati a tutti gli effetti. Chi sono costoro? Per Dante sono i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento. La definizione non lascia spazio ad equivoci, così come la descrizione della pena, dove la bufera infernal simboleggia efficacemente quel talento, quell'istinto, quel capriccio che va di qua, di là, di su, di giù senza senso e senza direzione prestabilita. Si può dire che tutto o quasi l'Inferno sia la conseguenza delle azioni esercitate da chi ha tradito la ragione (impedendole di esercitare il suo compito di moderatrice della violenza e dei sentimenti negativo e di indirizzare le passioni e i sentimenti in sé positivi o non necessariamente negativi verso un fine superiore) e da chi invece ha lasciato che la ragione stessa tradisse il suo compito e venisse usata per compiere il male (i frodolenti). In più il motivo particolare di questo canto sta nel fatto che Dante stesso ha vissuto esperienze molto vicine a quelle descritte, specialmente dal punto di vista della poetica d'amore cortese che qui viene incarnata nel personaggio concreto di Francesca e che Dante qui oltrepassa per dirigere la sua poesia e la sua vita verso un idea d'amore che si liberi dal legame con la realtà dei sensi e si avvicini all'amore nel senso più cristiano del termine (tale processo arriverà a compimento quando nel Paradiso terrestre Beatrice gli farà notare che proprio la sua morte avrebbe dovuto fargli capire che la sua bellezza fisica, la bella persona come dice Francesca, non era che il primo gradino di un processo di elevazioni spirituale ben più lungo, e il meno importante). Se qualcuno vuole contribuire con osservazioni, impressioni, sfottò :mrgreen: è il benvenuto. |
Re: Il Commediaforum
I miei topic sono sempre un successone :sisi:
Aggiungo un'altra piccola considerazione, che riguarda il paragone con gli uccelli. E' una delle caratteristiche più riconosciute di Dante quella di non perdere mai il contatto con la realtà e con l'efficacia della "resa" di ciò che narra. Tanto più in un poema dove l'argomento principale è il racconto di ciò che travalica l'esperienza quotidiana e che in altri scrittori potrebbe dar luogo a divagazioni fantastiche. Qui invece ogni dettaglio non è mai superfluo. Nel caso del paragone dei dannati con gli uccelli, si può notare come Dante operi una vera e propria "zoomata", attribuendo ai diversi gruppi di personaggi un differente termine di paragone: gli stornei (storni) in formazione compatta per i lussuriosi nel loro insieme, le gru per la schiera ov'è Dido (i lussuriosi morti per amore) e le colombe per Paolo e Francesca. Queste metafore mi sembrano, nello stesso tempo, un mezzo per ingentilire la presentazione di questi spiriti o almeno di alcuni di essi (la delicatezza e la cortesia dei modi saranno una costante nel colloquio con Francesca, e costituiranno un amaro contrasto con le conseguenze nefaste del suo peccato) e un elemento di richiamo a quella tradizione di lirica d'amore che rappresenta la cornice in cui trova alimento e giustificazione l'incontro delle due "anime nobili", sebbene fedifraghe. Non a caso i lai delle gru richiamano il genere di poesia provenzale omonimo, e le colombe sono l'uccello di Venere; la descrizione del loro volo verso il dolce nido prima dell'accoppiamento è ripresa da Virgilio, ma come altre volte in Dante è "asciugata" e in essa viene messo in risalto soprattutto uno dei motivi chiave del canto: il disio che con un'umanizzazione dei due animali diventa voler, cioè nient'altro che il talento che ha dominato la vita di queste anime. E' appunto il definitivo distacco dalla concezione di Amore come terribile signore, al quale non si può resistere in nessun modo e in nessuna circostanza, che Dante esplicita in questo canto, in nome del libero arbitrio e della possibilità per l'uomo di pensare all'amore in maniera diversa. |
Re: Il Commediaforum
IO leggo volentieri :)
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Re: Il Commediaforum
OK, riprendiamo e stavolta andiamo a quello che è il cuore del canto (secondo me, eh :mrgreen: ).
La pietà di Dante offusca il suo rigore morale? La risposta è ovviamente no :mrgreen:, ma vale la pena di soffermarvisi di più. Uno dei momenti di maggiore poesia della DC è quello in cui vengono a essere compresenti la pietà umana verso la singola persona e l'accettazione del giusto giudizio di Dio. Francesca è solo il primo di una serie di esempi di questo genere. Tutto ciò che la riguarda, quello che dice e soprattutto come lo dice, esprime la sua nobiltà d'animo e la sua gentilezza (fino all'iperbole della preghiera solo ipotetica a Dio per la pace di Dante, pace altrettanto irrealistica per la coppia di dannati). E quanto più viene sottolineata la raffinatezza e l'elevazione spirituale di Francesca, tanto più acuto è il dolore per come tale altezza si sia degradata: è il dolore per la volontaria esclusione dell'uomo dal suo destino di grandezza e di felicità (Non sapei tu che l'uomo è qui felice? dirà Beatrice all'Eccelso nel giardino dell'Eden). Non sorprende che Dante alla fine sia vinto da un tale dolore fino a svenire. Ma è noto che nel caso particolare di Paolo e Francesca la pietà di Dante ha un motivo in più per renderlo a lagrimar tristo e pio. La famosa serie di terzine che iniziano con l'anafora (ripetizione) di Amor, il potente e terribile signore della tradizione letteraria provenzale e cortese, è invocata da Francesca quasi a giustificazione del suo (e di Paolo) sottomettere la ragione al talento, a scinderlo dalla virtù e da ogni considerazione morale. L'amore, in questa visione, s'innesca dalla bella persona, dall'aspetto fisico ed è in sé stesso buono, perché nasce da un cor gentile, come nella famosa canzone del maestro dello Stilnovo e di Dante, Guido Guinizzelli. E' un amore tra due spiriti nobili, tra due anime elette e culturalmente raffinate, che conoscono la gentilezza e la leggiadria: è quasi consequenziale che esso sia presentato come una forza a cui non si possa resistere, che a nullo amato amar perdona (ci sono alcune interpretazioni di questa frase che si discostano un po' da quella tradizionale, ad ogni modo il senso di ineluttabilità degli eventi, di tessere del puzzle che combaciano, rimane). Dante, con sofferenza e fatica simboleggiate dal suo perdere coscienza (per acquisirne una nuova, aggiungerei) si distacca invece da questa concezione che ha coinvolto anche il movimento letterario di cui è stato interprete. Il vero amore è quello che non si separa mai dalla virtù. Alla fine del canto sono ricercati con una precisa domanda e indicati chiaramente i principali colpevoli del sovvertimento morale derivante dall'annebbiamento della ragione: Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. La letteratura non è puro svago, propagandare un modo di vedere la vita ha le sue conseguenze tramite l'influsso esercitato sui lettori e Dante, intellettuale impegnato per eccellenza, ne è pienamente consapevole: l'intera DC, tra le tantissime cose che è, è anche un gigantesco esercizio di pedagogia rivolto all'umanità tutta. Dunque la pietà di Dante non scusa affatto il peccato di Francesca, né contrasta o pone riserve alla sua adesione al giudizio divino, ma anzi è un ulteriore strumento con cui viene evidenziata la stortura dell'agire umano, è un ulteriore passaggio necessario alla presa di coscienza del pellegrino (che in ogni dannato rivede e supera una parte di sé), è un ulteriore monito affinché la dignità, la nobiltà e la grandezza dell'uomo, che muovono a compassione in Francesca, non siano gettate alle ortiche da un uso sbagliato del libero arbitrio. -- Direi che possiamo (o potrò :sisi: ) cominciare a discutere del VI canto a partire da sabato 3 maggio. Sempre aperto a osservazioni, commenti, fischi e pernacchi :mrgreen: |
Re: Il Commediaforum
OK, cominciamo (plurale maiestatis :sisi: ) a discutere del VI canto.
Per la tirannia del tempo posso dire solo, per ora, che questo canto è il primo in cui viene esplicitamente introdotto il tema "politico" della decadenza etico-civile (accennato con la figura della lupa e del Veltro nel I canto), che a macchia d'olio si estende da Firenze, di cui si parla in questo canto, all'Italia e all'intero mondo soggetto all'Impero universale (argomenti rispettivamente del VI canto del Purgatorio e del VI canto del Paradiso, con evidente simmetria). |
Re: Il Commediaforum
Altro punto rilevante del canto: la continua commistione tra uomini e animali, a sottolineare la natura particolarmente degradante di questo peccato di incontinenza (considerato come grave spreco in un'epoca dove mangiare carne era per i più legato a festività particolari; alcuni come Boccaccio ne spiegavano la maggiore gravità rispetto alla lussuria considerando che quest'ultima poteva essere favorita dalla gola, specie dal bere, mentre non si davano prove del contrario).
Cerbero è fiera crudele e diversa, anche nel senso che ha molteplice natura: infatti ha anche barba e mani. Di contro i dannati urlano sotto la pioggia come cani, e la loro pena consiste essenzialmente sì nel contrappasso della sporcizia e del puzzo in cui sono immersi come maiali nel fango, a punizione dell'eccesso di cibo e bevande raffinate a cui si sono abbandonati, ma anche in quello stato di prostrazione in cui la loro condizione degradante li schiaccia. Dante insiste non a caso su questo aspetto psicologico: le anime sono adonate (prostrate, appunto) dalla pioggia greve (pesante), esse giacean per terra tutte quante e l'eccezionalità del comportamento di Ciacco (il primo dannato del poema che apostrofi di sua iniziativa il viaggiatore vivo) è rilevato dal fatto che quel temporaneo stato di coscienza umana che acquisisce durante il colloquio con Dante è destinato a scomparire, e per sempre, quando ritornerà ad abbrutirsi in uno stato di semi-intorpidimento come gli altri: Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi. E ’l duca disse a me: "Più non si desta di qua dal suon de l’angelica tromba [...] |
Re: Il Commediaforum
*__* ma perchè non ho visto prima questo post?
non ho assolutamente tempo, quindi scrivo giusto qualcosa velocemente così Winston può(massì siamo ottimisti, anche con doppia interpretazione già che siamo in tema) smettere di usare il plurale maiestatis, solo Cicerone può U_U. la seconda terzina richiama il tema dell'incubo con figura etimologica e climax. Viene sottolineato come la pioggia sia eterna e immutabile, per conferire la solennità che deve caratterizzare la punizione, la quale dev'essere si orribile ma deve anche tenere quell'aria grave da cui non può prescindere la giustizia divina. Per renderla però orribile si parte da coloro che la subiscono, li si inizia a sottolineare lo squallore della loro condizione. Mi sembrava una cosa abbastanza banale ma l'ho scritta comunque perché la mia insegnante definiva le punizioni orribili e misere ma è un'assurdità. Grazie all'insieme di solennità e orrore è possibile rendere a pieno l'atmosfera delle inferno. è venuto un po generico, comunque ecco due esempi in questo canto Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l’è nova. Urlar li fa la pioggia come cani; de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani. non è un granché ma l'ho scritto anche all'inizio che non sapevo se si sarebbe potuto considerare un commento U_U, spero di avere più tempo per la prossima volta. |
Re: Il Commediaforum
Ringrazio Aria per aver portato un po' di aria fresca nel topic (muahahaha, sono pronto per Zelig :sisi: ).
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Una curiosità, se permetti: sei anche tu appassionata della Divina Commedia? Quote:
In questo canto, come giustamente fai notare, la stessa monotonia della punizione è elemento essenziale per l'effetto soprattutto psicologico che ha sulle anime. A parte il primo contrappasso legato al disgusto e all'umiliazione di essere immersi nel fango, è proprio la sensazione di annichilimento, di prostrazione a dominare nei dannati, che addirittura urlano sotto la pioggia. L'annichilimento deriva dalla loro impotenza di fronte a un "semplice" fenomeno atmosferico che li degrada a un rango subumano (e per l'appunto sottolineavi il paragone con i cani), come per tutte le creature per le quali la natura è qualcosa di potente e immutabile, non modificabile con interventi attivi come per l'uomo (regola e qualità mai non l'è nova). Ovviamente ciò è dovuto anche al fatto che la pioggia ha natura parzialmente ultraterrena: come per tutto ciò che avviene sulla Terra, l'uomo ha la speranza che le cose possano cambiare e che la pioggia possa attenuarsi o cessare. Ma non qui, non dove ogni speranza deve essere deposta, come scritto all'ingresso. Quote:
Ovviamente il topic è aperto a chiunque voglia intervenire, non c'è bisogno di ripeterlo, non servono lauree e non è obbligatorio fare interventi geniali, basta un po' di passione. Se siamo :sisi: d'accordo, comincerei a parlare del VII canto da sabato 24 maggio, intanto possiamo :sisi: continuare a commentare il VI. |
Re: Il Commediaforum
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra
E' da versi come questo, duri, "strani", quasi "petrosi", nell'accezione delle Rime Petrose che una tradizione consolidata attribuisce a Dante, che si capisce che siamo ben lontani dall'atmosfera rarefatta e tragica del canto precedente, dove non ci sono dannati che urlano come cani ma lamenti, o meglio lai. Sembrano quasi dei sospiri, no? Qui non sia parla di amori più o meno nobili finiti tragicamente, ma di peccati che riguardano la pura dimensione materiale dell'uomo. Al contempo, però, tema del canto è anche la trattazione di argomenti a carattere etico e politico. Tutto ciò fa del VI canto un canto "medio", "comico" nel senso in cui va inteso il termine Commedia, cioè stile non "alto" e "tragico", ma contaminato con espressioni più vicine all'esperienza comune e quotidiana, sebbene con una specifica valenza poetica e combinate mediante una tecnica non banale. Infatti questo canto porta in sé tutte le tipicità di un canto della DC: descrizione della condizione del luogo, apostrofe e colloquio con un dannato e soprattutto considerazione sul modo in cui vivono gli uomini sulla Terra, indagine sulle cause dei loro mali, condanna degli odi e delle lotte scatenate in particolare dalla cupidigia di beni terreni, e al termine anche una discussione sul destino ultraterreno dell'umanità dopo il Giudizio, uno dei leitmotiv dell'intera opera, soprattutto in Purgatorio e Paradiso. La componente "materiale" di questo canto è ben espressa, a mio avviso, oltre che ovviamente nella descrizione di Cerbero e della pena dei golosi, anche come ho già detto nell'annichilimento dei dannati, che addirittura acquisiscono, in certi punti, anche uno status inferiore persino a quello degli animali: Noi passavam su per l’ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona. [...] Sì trapassammo per sozza mistura de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti Dante e Virgilio addirittura camminano sulle anime (cosa a mia memoria mai più ripetuta in tutto l'Inferno: il fatto che esse siano considerabili incorporee, almeno in questo contesto, non attenua a mio avviso la forte impressione morale di un tale gesto), anzi le trattano come fossero una cosa sola con il fango in cui sono immerse. L'uomo, mai come in questo caso, ha scelto di essere ciò che mangia. Del resto, è significativo anche il fatto che Dante, rielaborando come suo costume i miti antichi, scelga di riprodurre l'episodio della Sibilla Cumana che ammansisce Cerbero, guardiano dell'Ade, per consentire l'ingresso di Enea: ma mentre la profetessa lancia alla bestia una focaccia soporifera, Virgilio si limita a prendere una pallata di terra e a gettarla nelle bramose canne, che non badano a ciò che ingurgitano ma solo a divorarlo. Terra siete, terra bramate e alla terra ritornate, anzi con essa nella sua forma più degradante vi confondete, sembra dire Dante. |
Re: Il Commediaforum
L'incontro con Ciacco è singolare, per quanto si è visto in questi primi canti: a sorpresa è lui, il dannato, a farsi avanti per primo, a differenza che nel caso di Francesca. E ciò è tanto più notevole in quanto si verifica in un cerchio in cui la caratteristica principale dei dannati è proprio quella di giacere in uno stato di prostrazione e intorpidimento che li lascia indifferenti a quanto avviene all'esterno (vengono addirittura calpestati dai poeti nel loro cammino), se non per ciò che riguarda la loro pena, cioè l'effetto della pioggia e dei latrati e delle unghiate di Cerbero.
Non a caso lo stesso Dante, nel rispondere a Ciacco, dichiara di non riuscire a riconoscerlo, tanta è la sua angoscia (termine che all'epoca indicava una sofferenza più profonda di quello attuale) che gli ha stravolto i connotati. Questo motivo della difficoltà nel riconoscere l'individuo nell'anima in pena ritornerà in altri momenti del poema, sempre in maniera toccante e significativa (il caso di Brunetto Latini su tutti). Qui sono evidenziati l'abbrutimento e l'umiliazione morale che degradano l'umanità del singolo e che rendono la pena dei golosi, se pure non la più pesante dell'Inferno, certo la più spiacente. Il recupero temporaneo dell'umanità in Ciacco, il suo spontaneo rivolgersi a Dante, sono quindi qualcosa di eccezionale, che ha probabilmente uno scopo importante. E in effetti Ciacco si erge da subito come portatore di una verità morale (esordisce subito citando l'invidia che trabocca in Firenze), in base alla quale non esita a riconoscersi giustamente colpevole (per la dannosa colpa de la gola, e io anima trista non son sola): si presenta quindi sostanzialmente come un uomo che è stato a contatto con le classi sociali dominanti di Firenze, ma sufficientemente al di fuori dei loro giri di potere da poterne giudicare con obiettività il comportamento. Secondo una diffusa tradizione, infatti, Ciacco era un uomo molto ricercato presso le case e i conviti delle famiglie più in vista di Firenze, per la sua intelligenza e il suo spirito: un "uomo di mondo" che cedette ai piaceri della gola, ma conservò intatta la sua lucidità nell'osservare quanto accadeva intorno a lui. Tra parentesi, vorrei evidenziare altri due aspetti che fanno di questo canto un canto "tipico" della Divina Commedia, o almeno dell'Inferno. Uno è l'appena citato riconoscimento della giustizia divina, che si estende a tutte le anime: a mia memoria non esiste in tutto l'Inferno un solo dannato che si dichiari "innocente" o "vittima di un complotto", come si usa dire oggi :sisi: Anzi, alcuni come Capaneo e Vanni Fucci rivendicheranno orgogliosamente la loro ribellione alle leggi di Dio, con ciò inasprendo di fatto la loro pena. Evidentemente la dimensione oltreumana fa loro acquisire una consapevolezza più ampia di ciò che hanno fatto, sebbene quest'ultima non sia sufficiente a provocarne il pentimento (esemplare il caso di Guido da Montefeltro, che ancora all'Inferno perpetuerà il suo errore, dovuto essenzialmente proprio a un finto pentimento). Qual io fui vivo, tal son morto, dirà Capaneo, e ciò può a ragione attribuirsi a tutti i dannati, che non fanno altro che prolungare per l'eternità ciò che hanno scelto di essere. Questo essere pienamente e volontariamente inseriti nel grande schema predisposto da Dio per l'uomo (scegli ciò che vuoi essere per l'eternità) dà modo a Ciacco e ad altri suoi "colleghi" di poter giudicare il mondo che mal vive, mentre il loro rifiuto della possibilità di perfezionamento e vera realizzazione dell'uomo, che per il Cristianesimo è dato dall'unione con Dio, si manifesta anche attraverso il secondo aspetto a cui accennavo poco prima: Ed elli a me: "La tua città, ch’è piena d’invidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena. Il rifiuto della dimensione oltremondana dell'uomo come possibilità di felicità e pienezza (Tutto che questa gente maladetta / in vera perfezion già mai non vada, dirà Virgilio nel finale del canto) fa sì che l'unico appiglio dei dannati sia il ricordo della vita sulla Terra, che per quanto tribolata e piena di sofferenze conserva sempre ai loro occhi il dono inestimabile della speranza, ormai perduto per sempre. Ecco perché il mondo "di sopra" è da loro sempre visto con occhi benevoli e citato con accenti di nostalgia, a ulteriore aumento della loro sofferenza (Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria, diceva Francesca). Inoltre alcuni dannati, almeno quelli che hanno mostrato in vita delle caratteristiche degne di stima a parte il peccato che li condanna, si premureranno con sollecitudine di chiedergli di ravvivare il loro ricordo nel mondo: altri invece, specialmente i traditori dell'ultimo cerchio, non desidereranno che di essere dimenticati. |
Re: Il Commediaforum
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volevo aggiungere qualcosa su Cerbero. Rappresenta il livello di opposizione più bassa nei confronti di Dante, infatti le caratteristiche a lui attribuite non sono volte a renderlo spaventoso ma grottesco ’l ventre largo e non avea membro che tenesse fermo. Si discosta molto dalle altre rappresentazioni del mostro basti pensare a come viene placato, quasi un'offesa, se si considera il parallelismo con la Sibilla dell'Eneide che gli aveva dato in pasto un offerta votiva anche se soporifera, nessun onore gli viene quindi riconosciuto. Come è logico che accada a quell'essere che deve rappresentare allegoricamente il peccato della gola; poi è interessante anche l'altra interpretazione che lo identifica con la discordia civile la quale è raffigurata con quel graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra. Sarebbe poi un'anticipazione delle parole di Ciacco. |
Re: Il Commediaforum
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E' comunque da notare che la degradazione di Cerbero, come dei dannati che tormenta, sta nell'essere figura di un abbrutimento dell'uomo: quindi opportunamente Dante ci ricorda che non di un animale a tutti gli effetti si sta parlando, ma di un essere "ibrido" che si comporta da tale (Cerbero ha facce e mani). Quote:
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Re: Il Commediaforum
Ciacco, oltre a introdurre il tema politico della Divina Commedia (inizialmente accennato nel I canto con le figure della lupa e del Veltro), è anche il primo a utilizzare il linguaggio della profezia per narrare gli eventi post-1300, in particolare quelli che porteranno al rovesciamento degli equilibri di potere in Firenze, al colpo di mano dei Neri nell'autunno del 1301 (con la forza di tal che testé piaggia, approggiati cioè da Bonifacio VIII che in quel momento si barcamenava tra le opposte fazioni mantenendosi ufficialmente neutrale, come una nave che naviga sotto costa: viene introdotto per la prima volta anche l'acerrimo nemico di Dante) e, last but not least, all'esilio del Poeta.
La profezia è espressa in modo volutamente ambiguo, non solo non nominando direttamente i personaggi coinvolti ma anche senza entrare troppo nelle dinamiche politiche che videro un inasprirsi della lotta tra Bianchi e Neri tra la primavera del 1300 e l'inizio del 1302 (la sentenza di condanna di Dante è del gennaio di quell'anno), con vicende alterne e tentativi di pacificazione o di messa al bando dei capifazione più oltranzisti di ambo le parti. Ad ogni modo Dante sintetizza a grandi linee ciò che in effetti accadde: dapprima lo scoppio della violenza, a lungo covata, con i fatti di Calendimaggio del 1300 (dopo lunga tencione / verranno al sangue), poi il prevalere dei Bianchi (la parte selvaggia, perché i Cerchi, suoi principali esponenti, erano originari del contado) e infine dei Neri, tramite l'aiuto di Carlo di Valois, di un ramo cadetto della dinastia regnante di Francia, a cui nei fatti Bonifacio VIII si appoggiò per ristabilire la sua influenza su Firenze, con il pretesto di riportarvi la pace. E' a mio avviso notevole che tutti questi eventi siano, oltre che sintetizzati, riportati in maniera impersonale. In primis, non c'è il minimo accenno nè al priorato di Dante (giugno-agosto 1300) né soprattutto all'esilio, che in canti successivi verrà invece citato: una corrente d'interpretazione che attualmente ha poco credito voleva che i primi sette canti dell'Inferno fossero stati scritti mentre Dante era ancora a Firenze. E' caratteristica del Poeta quella di non indugiare troppo nell'autobiografismo, soprattutto per quanto riguarda le vicende familiari. In più le alterne vicende politiche sono presentate in maniera abbastanza imparziale, anzi le violenze e le condanne dei Neri sembrano una semplice reazione alla molta offensione praticata su di loro dai Bianchi. Credo sia probabile che Dante volesse accreditarsi come cittadino equanime, sollecito al bene di Firenze e non animato da faziosità e sete di vendetta. E' certo invece che in canti successivi alcuni responsabili di parte Nera (su tutti, Corso Donati) saranno indicati per nome e la loro condanna risuonerà forte e chiara. Comunque in questo canto la visione di Dante è più ampia, così come nei corripondenti canti "politici" (VI del Purgatorio e VI del Paradiso): Firenze tutta è preda della discordia civile, tutte le parti in lotta sono accese da superbia, invidia e avarizia (quest'ultima in particolare, come cupidigia di beni materiali, è la causa principale dei mali del mondo: la lupa è stata scatenata nel mondo dall'invidia prima, Lucifero in persona) e sono in pochissimi a salvarsi, a cercare di far sentire la voce della ragione in quel disastro (giusti son due, e non vi sono intesi). Secondo alcune interpretazioni, quei due sarebbero Dante e il venerato amico e maestro Guido Cavalcanti, ma penso sia più probabile che il numero non sia da intendere alla lettera e che si tratti di una reminiscenza biblica, riguardante le città dissolute come Sodoma o Gomorra in cui pochissimi erano gli abitanti degni di salvezza. |
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Veniamo a un altro punto cardine del canto: che fine faranno dopo la morte coloro che a ben far puoser li ingegni?
Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: "Ancor vo’ che mi ’nsegni e che di più parlar mi facci dono. Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni, dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca". E quelli: "Ei son tra l’anime più nere; diverse colpe giù li grava al fondo: se tanto scendi, là i potrai vedere. Farinata degli Uberti sarà ritrovato nel cerchio degli eretici, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci nel girone dei sodomiti, Mosca dei Lamberti (Capo ha cosa fatta) nella bolgia dei seminatori di discordie (forse insieme al non più nominato Arrigo, secondo una probabile identificazione proposta). Tutta questa gente si è impegnata in politica a vario titolo (non credo sia un caso), ha cercato di lasciare una memoria positiva di sé come di cittadini interessati al bene di Firenze oltre gli odi di parte (salvo forse Mosca, che fu l'iniziatore, non si sa quanto volontario, della divisione in guelfi e ghibellini in città). Ma il cammino di Dante consiste anche nel superare i punti di riferimento con i quali è cresciuto: figure autorevoli della storia cittadina vengono riesaminate criticamente alla luce della concezione cristiana, del nuovo modo di leggere la storia del mondo in chiave provvidenziale. E ciò che può meritare la fama nel mondo non necessariamente salva l'anima: indispensabili, ad esempio, sono fede, umiltà e carità, di cui i personaggi citati difettarono in varia misura. Altri due esempi importanti saranno Guido Cavalcanti e Brunetto Latini, sostanzialmente considerati come i suoi maestri più vicini alla sua esperienza, nei campi rispettivamente della poesia e dell'impegno etico-civile: ebbene anche il destino ultraterreno di costoro non è felice (Guido non viene incontrato direttamente nell'Inferno, ma si può pensare che il giudizio su di lui coincida con quello su suo padre e su Farinata: egli ebbe a disdegno l'essere condotto dalla fede a scoprire le verità ultime). E come Guido, anche le anime di questi cittadini illustri sconteranno il loro peccato essenzialmente di superbia, del credersi totalmente autosufficienti e auroreferenziali e del rifiutare i criteri morali come guida per la regolazione della propria esistenza. Detto questo, Dante non riesce ad essere severo con nessuno di loro, proprio perché si tratta di persone valide sotto certi aspetti. Ed è proprio la stima che ha per loro a suscitare in lui il gran disio di sapere se la dolcezza o il veleno pervadono la loro esistenza ultraterrena (non si sarebbe interessato così tanto al destino di persone del tutto spregevoli). Il contrasto tra buona fama nel mondo, tra virtù terrene, tra la gloria degli antichi (come già visto per Virgilio) e la loro insufficienza di semplici uomini, per quanto dotati di qualità eccelse e finanche nobili, a raggiungere le verità ultime e la vera felicità, a pervenire alla realizzazione completa dell'essere umano (la comunione con Dio, nell'ottica cristiana) è stato motivo di intensa e travagliata riflessione in Dante, oltre che spunto di grande poesia per "contrasto" negli episodi del Poema che riguarderanno queste anime. Alla fine la risposta è che oltre certi limiti non si può andare (State contenti, umana gente, al quia) e che la legge divina segue criteri non completamente assimilabili agli argomenti umani. Un atto di fede, una dichiarazione di insufficienza o di non completa autosufficienza sono indispensabili perché l'uomo possa abbandonarsi in Dio. |
Re: Il Commediaforum
Un'ultima osservazione da parte mia sul canto VI.
Che grande espressività psicologica, quella della terzina in cui Ciacco, interrotto bruscamente il colloquio con Dante, ripiomba per sempre nel suo stato di incoscienza animalesca! "[...] Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch’a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo". Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi. Ciacco ha ormai assolto il suo compito di denuncia della drammatica e degradata condizione dei suoi concittadini. L'unica cosa che gli resta, come agli altri dannati nominati poco prima ch'a ben far puoser li ingegni, è la fama sulla Terra per le sue buone qualità che ha comunque dimostrato. Ora non può che tornare nel fango, lontano dal dolce mondo (sempre toccante il richiamo alla vita sulla Terra per i dannati), ma con pochi tratti Dante riesce a rendere l'idea di un totale svilimento della sua anima. Il suo sguardo perde di lucidità, non ha più la capacità di discernere, si direbbe che la sua intelligenza si stia riducendo a poche funzioni essenziali: notevole il passaggio da occhi diritti, a biechi a ciechi: progressivamente l'interlocutore esce fuori dal campo visivo diretto, non viene più distinto, e l'interesse è rivolto non più al dialogo, all'esercizio dell'intelletto, ma presumibilmente alle pure sensazioni fisiche e corporali (il fango, la pioggia, le unghiate e i latrati di Cerbero). La cecità, così, è insieme fisica e morale: tutto è buio, sofferenza e dolore, condizione esemplare di tutto l'Inferno. E la testa non diventa altro che un peso, che Ciacco inclina e con cui poi cade, come fosse una zavorra che lo trascina giù, pura materia grave. La successiva spiegazione dottrinale di Virgilio non farà altro che confermare tale condizione per l'eternità: non si è ancora spenta l'eco del tonfo sordo con cui Ciacco stramazza al suolo che egli mette subito in chiaro le cose con il definitivo Più non si desta. Questa è, come per tutti i dannati, la condizione che si sono scelti per l'eternità e che solo il temporaneo ed eccezionale incontro con il vivo pellegrino dell'Inferno ha modo di alterare, in forme e modi diversi, seppur "sostituendo" la normale pena con una riflessione sul degrado proprio e/o altrui (e quindi, di fatto, con un supplemento di pena che li rende ancora più coscienti del loro tragico destino). E il momento finale in cui si ridesteranno dal loro miserevole stato, il giorno del Giudizio, non sarà altro che il momento in cui il loro destino si compirà in maniera "perfetta" e loro costituranno un'entità più "piena" e "completa" (tutto che questa gente maladetta / in vera perfezion già mai non vada, sebbene i dannati non abbiano a rigore la possibilità di realizzarsi nella loro pienezza e al massimo delle loro possibilità, cosa che nell'ottica cristiana è data solo alle anime che ritornano alla loro vera patria, a Dio): la loro tomba sarà trista, la podesta, l'autorità giudicante di Dio, sarà nimica, perché il loro essere di nuovo un insieme di anima e corpo accrescerà il loro dolore, così come maggiore sarà la gioia dei beati (di là più che di qua essere aspetta: la pienezza del loro essere sarà maggiore dopo il Giudizio), secondo l'insegnamento di Tommaso. Anche questo, che diventerà un tema ricorrente, dell'interrogarsi sul destino ultimo degli uomini è una delle tante domande a cui tenta di dare risposta la Divina Commedia e anche questo leitmotiv, come altri, viene fatto risuonare per la prima volta in questo canto VI. Ed ecco la suspance alla fine del canto (ancora una tecnica cara a Dante): il resoconto del colloquio tra i due poeti viene trascurato durante il compimento di un arco del cerchio terzo (come in altri punti del Poema, verosimiglianza vuole che non tutti i singoli eventi accaduti costituiscano materia d'interesse per l'argomento principale) e all'improvviso, al momento di scendere verso il cerchio quarto, quivi trovammo Pluto, il gran nemico. Chi sarà mai costui? e perché è un gran nemico (il demonio, in quanto tale è l'avversario, in ebraico Satàn)? La posizione di rilievo alla fine del canto, la necessaria pausa nella lettura subito dopo aver pronunciato il suo nome, e quell'appellativo solenne e terribile denotano l'importanza, in negativo, che viene assegnata a questo personaggio, in quanto simbolo dell'avidità di beni terreni, causa principale dei mali del mondo secondo Dante, come già evidenziato con la lupa incontrata all'uscita dalla selva oscura. |
Re: Il Commediaforum
Canto VII: uno dei miei preferiti (se vi può interessare :sisi: ).
Qui Dante comincia ad aggredire il suo gran nemico, l'avidità dei beni terreni e in particolare il desiderio di potere temporale da parte della gente di Chiesa, massimo crimine che ha portato alla confusione e al degrado del mondo, nonché al tradimento della missione puramente spirituale degli eredi di Cristo. Siamo di fronte al motivo principale per cui è stata scritta la Divina Commedia, e non a caso secondo me qui l'Eccelso comincia a "fare sul serio", dando fondo alle sue risorse in termini di pluristilismo: dal tono volutamente aspro, quasi plebeo, delle rime dedicate ad avari e prodighi (-occia, -acca, -upo, -iddi, -erci), al tono "serio" e "dottrinale" della dissertazione di Virgilio sulla Fortuna, al tono di nuovo "comico", "umile", ma non "plebeo", se non per le rime finali (-ozza, -ézzo), della descrizione degli abitanti della palude Stigia. In questo canto, inoltre viene per la prima volta abbandonato lo schema "un canto, un cerchio" e si adotta una composizione più libera, terminando il canto con circa una trentina di versi in cui si narra il passaggio e la visione della palude che forma il cerchio quinto. Ma è innegabile che il climax, l'apice della tensione narrativa si raggiunga all'inizio, con l'entrata in scena di quel Pluto la cui presenza è stata preannunciata alla fine del canto VI. Il lettore è in attesa: chi sarà mai questo Pluto e cosa farà all'apparire di Dante? La risposta è geniale e degna del Poeta: un'apostrofe violenta, con parole apparentemente incomprensibili, il famoso e stracitato (anche a sproposito :sisi: ) Pape Satàn, pape Satàn aleppe! |
Re: Il Commediaforum
Pluto, oltre ad essere il famoso cane di Topolino :mrgreen:, ha fin dal nome un forte legame con il concetto di ricchezza: ploutos in greco vuol dire appunto ricco, e la divinità Ploutos, figlio di Iasione e Demetra, non era altro che il dio della ricchezza. Spesso gli antichi lo confondevano con Plutone, l'equivalente romano del greco Ade, fratello di Zeus e signore degli Inferi: non a caso l'etimologia latina dell'altro nome con cui veniva indicato (Dite) riporta all'aggettivo dives, ricco. Ma Dante non sembra confondere i due personaggi, dato che quando usa il nome di Dite lo fa riferendosi senza dubbio al signore dell'Inferno (Lucifero). Di conseguenza il Pluto incontrato nel IV cerchio è proprio il dio della ricchezza e non il Plutone latino.
Fatta questa premessa, si può comprendere come le parole di Pluto possano plausibilmente essere nient'altro che un'invocazione al suo "diretto superiore", Satana o Lucifero. Molti commentatori, soprattutto antichi (mentre i moderni si sono lambiccati il cervello in spiegazioni molto più astruse presupponendo una voluta "assurdità" delle parole di Pluto), facevano infatti notare essenzialmente due cose: 1) Virgilio è il savio gentil che tutto seppe, e dal modo con cui risponde a Pluto sembra aver capito le sue parole e le sue intenzioni (non ci torrà lo scender da questa roccia). 2) Le parole pape e aleppe non sono affatto prive di senso, dato che la prima è presente in diversi scrittori latini altomedioevali (ad es. Boezio) come esclamazione/interiezione di meraviglia derivante dal greco papai, e la seconda deriva anch'essa dall'alfa (prima lettera dell'alfabeto greco) o meglio aleph (ebraico) ed è usata come esclamazione di dolore o lamento. Tutta la frase di Pluto suonerebbe così come Oh satana, oh satana ahimè, un'addolorata e stupita invocazione di aiuto a lucifero. |
Re: Il Commediaforum
In aggiunta all'interpretazione citata delle parole di Pluto, l'aleph trascritta in aleppe è stata anche intesa come principio primo (alfa), in pratica un equivalente di Dio. Saremmo così ai limiti della bestemmia, con Pluto che invoca il suo superiore come Dio.
Tra le interpretazioni più curiose che ho letto, me ne ricordo una che tirava in ballo addirittura il francese. Mi viene in mente solo la prima parte: pas paix satàn, niente pace satana. Le parole di Pluto, quindi, servono da introduzione del clima di questo canto: ruvido, aspro, con rime sgradevoli al suono e "difficili", con uno stile che sarà proprio dei canti del basso Inferno, in corrispondenza con la materia più vile trattata. Non è un caso che il particolare peccato di incontinenza (incapacità di moderare degli impulsi non necessariamente negativi) a cui Dante attribuisce la maggior colpa delle miserie umane sia assimilato a quelli più gravi derivanti dalla frode, così come non è un caso che nessuno dei peccatori del cerchio quarto venga identificato: se i golosi subivano una specie di commistione con la natura delle bestie o addirittura delle cose inanimate, avari e prodighi hanno rinunciato del tutto alla loro individualità e alla loro capacità di discernere (sconoscente vita), diventando perciò tutti sozzi allo stesso modo e bruni, opachi al riconoscimento altrui. |
Re: Il Commediaforum
Qui qualche considerazione in più sulle celebri parole di Pluto.
Lo stile "aspro", "volgare" di questo canto continua con la risposta di Virgilio al demonio, che è assolutamente in tono. In sostanza ripete anche a lui la solita formula di rinvio a una volontà superiore (vuolsi così nell'alto) già pronunciata a Caronte e Minosse, sebbene con una variatio che rimanda alla cacciata di Lucifero e degli angeli ribelli da parte dell'arcangelo Michele, capo delle schiere celesti e vendicatore del superbo strupo (altra rima "difficile"), della violenza usata da Lucifero: quasi a dire che è inutile invocare satana, se dall'altra parte c'è l'appoggio di chi lo ha già sconfitto. Ma soprattutto né Caronte né Minosse (mentre a Cerbero, bestia-uomo, non viene rivolta parola) si sono sentiti apostrofare come maladetto lupo, cane rabbioso che deve ritorcere su se stesso la propria ira, vela gonfia che si fiacca quando l'albero maestro cade. E' evidente la particolare vena polemica di Dante contro questo tipo di peccato, del resto il Sommo non mancherà di precisare che in questo cerchio ha visto gente più ch'altrove troppa. E che spettacolo è quello che gli si para davanti! Una scena tale da ricordargli gli opposti flutti tra Scilla e Cariddi, o meglio ancora una grottesca e vana danza macabra, una ridda (così convien che qui la gente riddi) di quelle in uso nel Medioevo, o una giostra, come viene chiamata subito dopo. Fin dal primo istante ci viene sbattuta in faccia la nota non del dolore (ben poca empatia ha Dante per la sorte di questi dannati, a differenza di quanto visto per lussuriosi e golosi), ma dell'assurdo: che senso ha girare in tondo, avanti e indietro, e rimproverarsi continuamente i rispettivi peccati? Lo stesso che, nell'ottica provvidenziale della vita e della storia umana, ha l'accumulare ricchezze o lo spenderle per beni superflui: nessuno. Non a caso la pena dello spingere massi (che probabilmente simboleggiano i beni terreni) deriva direttamente dall'inutile, analoga fatica di Sisifo. E' una fatica disperata e senza senso, i dannati urlano per lo sforzo di smuovere i grandi pesi, e Dante fa inquadrare chiaramente a Virgilio il motivo: ché tutto l’oro ch’è sotto la luna e che già fu, di quest’anime stanche non poterebbe farne posare una Il punto focale del peccato di avarizia e prodigalità è, come per tutti i cerchi dell'Alto Inferno, l'incontinenza, l'incapacità di moderare razionalmente degli istinti che di per sé potrebbero non essere moralmente riprovevoli. Nel caso dei dannati puniti in questo cerchio, l'istinto di assicurarsi un minimo di comfort materiale, di spendere il giusto per vivere dignitosamente, si dilata irrazionalmente fino a diventare un'ossessione. Sì, penso che ossessione sia proprio la parola più adatta per descrivere questi peccatori, forse mai come per loro rispetto agli altri incontinenti: non mollano mai il loro peso e soprattutto, pur avendo a differenza degli altri l'occasione diretta di riconoscere nell'opposta schiera il proprio eccesso, ne traggono anzi motivo per sentirsi più a posto rispetto a loro. "Che diavolo te li tieni a fare, quei soldi? Ci sono un sacco di belle cose da comprare!" "Perché li spendi in sciocchezze, i tuoi soldi, quando potresti accumularli e diventare ricchissimo?": due opposte follie a confronto, per la prima volta nell'Inferno, visto che i peccati di lussuria e gola non trovavano un analogo opposto nella concezione del tempo di Dante e visto che comunque nell'Inferno egli non si attiene alla concezione cristiana dei sette peccati capitali (seguita invece nel Purgatorio), ma alla suddivisione aristotelica e tomistica tra incontinenza, violenza e frode. E' poi da notare, mi sembra, che i prodighi non sono coloro che spendono troppo fino a ridursi sul lastrico, ma coloro che con misura nullo spendio ferci, esattamente come gli avari: la differenza è che questi ultimi sono stati ossessionati dal conservare, dallo spendere il meno possibile (mal tener), i prodighi invece dallo spendere in sé (mal dare), e per cose superflue (alcuni li hanno paragonati ai moderni seguaci del consumismo e della griffe ad ogni costo). In entrambi i casi è stato dato eccessivo e irrazionale valore a beni che di per sé non ne hanno, o ne hanno solo in quanto strumenti. Insomma, che lo stile di vita sia quello di Cuccia o di Briatore, la sanzione è la stessa :occhiali: Gli scialacquatori invece saranno collocati tra i violenti contro sé stessi, perché nel loro agire la componente fondamentale è una volontà quasi suicida (appunto) e autodistruttiva, che li porta ad alienare il controllo di qualsiasi bene, anche di minima sussistenza (si potrebbero paragonare ai malati del gioco d'azzardo). In un'ulteriore nota di rimando al destino delle anime dopo il Giudizio, come per i golosi, Virgilio accenna poi alla risurrezione di avari e prodighi dal sepulcro (altra rima "difficile" con pulcro e con il neologismo dantesco appulcro, abbellisco) rispettivamente con il pugno chiuso e con i capelli rasati: è incredibile e potente l'immagine di queste anime che anche nel momento del ricongiungimento col corpo sono ancora lì ad arraffare ricchezze e beni materiali o a inseguire lusso e sfarzo (forse il cranio rasato ne rappresenta un ulteriore contrappasso). E' questa la forza della lupa del I canto, la principale responsabile dei mali del mondo: in nome dell'avidità e dell'opulenza tutto o quasi viene giustificato, nulla conta di più e ogni altro criterio, per quanto giusto e razionale, passa in secondo piano. E' così che le anime di avari e prodighi conducono una sconoscente vita (priva di regole e razionalità, della capacità di discernere), fissati nella loro ossessione, e questo li abbrutisce al punto che risultano nient'altro che una massa informe di persone distinguibili all'occhio altrui, caso unico tra gli incontinenti. |
Re: Il Commediaforum
[...] "Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra" La parola "aspra" (chercuti: provate a ripeterla tra di voi e vedrete come anche la semplice indicazione della tonsura o chierica può assumere quasi il tono di un insulto) e il modo relativamente sbrigativo con cui si svolge la trattazione dell'avarizia degli uomini di Chiesa è per me doppiamente indicativa. |
Re: Il Commediaforum
E' ora di allontanare la polvere che ingiustamente iniziava ad accumularsi sul topic :).
Certo che in questo canto Dante si sbizzarrisce con le rime ardite! Sembra quasi mosso dall'intento di sconvolgere gli umanisti rinascimentali e i poeti petrarchisti che condanneranno senza appello questa maniera di verseggiare, raccogliendo in un solo canto un infinità di materiale per i suoi accusatori. Interessante l'"intermezzo" teologico nel quale viene esposta la concezione personalissima che Dante ha del tema della Fortuna, la figura che impera nell'immaginario medievale: |
Re: Il Commediaforum
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Colonna sonora azzeccata, comunque :bene: |
Re: Il Commediaforum
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In questo canto invece, ed ecco l'altro aspetto indicativo, la condizione degli ecclesiastici è descritta come anonima sì, ordinaria, ma anche comune, naturalmente esposta alla tentazione dei beni terreni (papi e cardinali / in cui usa avarizia il suo soperchio): è in pratica una routine, almeno da quando la Chiesa si è fatta anche Stato e ha tradito il messaggio di povertà evangelico e la separazione dei poteri temporale e spirituale predicata da Cristo stesso, e ormai sono i vertici stessi della Chiesa a propagare l'infezione. |
Re: Il Commediaforum
Dopo giusto quattro mesi di pausa, il cammino sta per riprendere, alla ricerca della diritta via.
Basta sostituire la lista con l'Opera per sapere perché :occhiali: |
Re: Il Commediaforum
Come spesso avviene nella Divina Commedia, è per bocca di Virgilio che Dante propone la sua (re)interpretazione di alcuni concetti e fenomeni già noti agli antichi, e lo stesso avviene con la Fortuna. Quest'ultima non è più la divinità imperscrutabile che impone il proprio misterioso volere anche agli dei pagani (il Fato o Destino), né una forza capricciosa che si diverte a concedere e sottrarre successi e beni materiali agli uomini in maniera del tutto casuale e senza scopo (l'immagine classica della donna bendata con la cornucopia), bensì un'entità provvidenziale, ministra di Dio, che sovrintende alle permutazioni dei beni terreni così come le diverse intelligenze angeliche, gerarchicamente ordinate, regolano il moto dei cieli distribuendo igualmente la luce (facendo sì cioè che l'opera di Dio si trasmetta in maniera differente, secondo il diverso influsso che presiede ai diversi cieli, eppure omogenea, senza difetti o mancanze).
Il fatto notevole è che anche Dante in precedenza (in particolare nel Convivio), forse sulla scorta di filosofi tardo-romani come Boezio, si rifaceva al concetto di Fortuna come entità capricciosa che quasi si diverte a togliere agli uomini quello che prima aveva dato loro, e Dante stesso si sente un perseguitato dalla sorte a causa delle vicende del suo doloroso e ingiusto esilio. Ma la chiave appunto provvidenziale della storia, che costituisce la misura di tutti gli eventi umani, adottata come criterio ispiratore nella Divina Commedia, interpreta tali mutazioni come parte di un disegno più ampio, che all'uomo non è dato ovviamente contrastare (oltre la difension d’i senni umani, vostro saver non ha contasto a lei), ma neppure comprendere, perché solo nella mente di Dio è possibile racchiudere le risposte ultime e totali sul perché delle cose: lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l'angue (non conoscibile, nascosto come il serpente nell'erba). Non solo, poiché il disegno provvidenziale di Dio è necessariamente volto al bene, hanno torto coloro che si lamentano di aver perso ciò che la Fortuna aveva donato loro: Quest’è colei ch’è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce presumibilmente perché nell'ottica cristiana il vero "successo" è quello della vita ultraterrena, per cui i vantaggi materiali ottenuti in questa vita sono da considerare come un prestito temporaneo, che prima o poi andrà restituito e che anzi, in quanto superfluo e fuorviante rispetto al vero obiettivo che è la salvezza dell'anima, è meglio perdere prima che poi. Questa verità enunciata con tono così piano ed elegante è in realtà sconvolgente e difficile da inquadrare per la comune ottica umana, che valuta gli eventi come positivi o negativi in maniera diametralmente opposta: si tratta non a caso di una ritrattazione di un concetto precedentemente espresso da una lunga tradizione culturale e filosofica, nonché da Dante stesso (quest'ultimo non resterà un caso isolato di revisione del proprio pensiero da parte dell'Eccelso), e quindi la conflittualità di queste affermazioni mantiene intatta tutta la sua potenza. Ma ella s’è beata e ciò non ode: con l’altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode La Fortuna ovviamente non si fa influenzare dalle lamentele umane nel suo operato: questo non per crudeltà e indifferenza, come si era spesso creduto in passato, ma perché il suo compito è un altro (svolgere il suo ministero di far sì che vicenda consegue, di tenere "in giro" le ricchezze materiali per evitare che si accumulino troppo) e di quel compito essa è beata, in quanto emanazione di Dio. Come nota stilistica, vorrei infine ricordare come la sublime poesia del più grande genio artistico di tutti gli universi non manchi di lasciare il suo tocco delicato eppure inimitabile anche nel passaggio dalla descrizione degli avari e prodighi alla digressione di Virgilio sulla Fortuna. Un solo esempio valga per tutto il resto: E quelli a me: "Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v’offende! Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche. Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende La rima sciocche - 'mbocche è l'ultima rima "aspra", che risente dello stile del cerchio degli avari, percuote come una frustata: sciocchi, devo proprio imboccarvi come dei bambini per nutrirvi con le verità più elementari! Subito dopo, l'innalzamento a quelle verità di fede e alla pace che deriva dalla loro acquisizione e accettazione si traduce in una splendida ed elegante descrizione dell'azione di Dio nell'altro dei cieli, con la bellissima perifrasi Colui lo cui saver tutto trascende e con la rima trascende-splende che rende quasi musicalmente l'idea di uno spazio infinito in cui si dipana la luce di Dio e in cui l'orizzonte dello sguardo si allarga dall'essere bambini sciocchi fino a concepire un livello di conoscenza che trascenda il tutto. |
Re: Il Commediaforum
Attualmente stiamo leggendo
Inferno, Canto VII (termine per la lettura sabato 24 maggio) L'anno non è specificato..però sembra una cosa appassionata Un saluto al conte Ugolino :ciao: |
Re: Il Commediaforum
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