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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Alert! Dany91 ha usato accento acuto su è' verbo' :ridacchiare:
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
tino non approva questo topic :ridacchiare:
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
se c'è qualcuno fra voi che dice mòllica anziché mollìca, ne chiederò il ban a vita :malvagio:
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Mòlli-ca mollica:ridacchiare:
Chiuso OT |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
E' un bel topic. :)
Proporrei di portarlo avanti senza continuare con le sterili frecciatine che ho percepito da più parti in queste prime pagine. La grammatica e la sintassi sono ben definite ed hanno delle regole, se poi uno vuole scrivere liberamente senza tenerne conto può farlo benissimo ma non capisco perché venire a far battute in un topic sulla lingua italiana. La trovo abbastanza inutile come provocazione. @Fidelio: non credo che quello di Herzeleid fosse un vantarsi, citava solo un titolo che dà credito circa le sue conoscenze in materia, non vedo il motivo di una risposta tanto piccata. Torniamo quindi in topic, grazie. |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Provocation mode off:mrgreen: |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Cmq mi sono appena innamorato di dany91.
Scoprii i due possibili accenti nella lingua italiana utilizzando WORD :ridacchiare: io scrivevo perchè e lui correggeva in perché. Da allora uso la é nei posti giusti (o almeno spero XD). Pensavo che "se stessi" andasse senza accento obbligatoriamente. |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Vero clangh , le correzioni di Word anche a me hanno insegnato più che 13 anni di scuola :bene:
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Parole o espressioni che devono essere scritte sempre separate:
a fianco a posto a proposito al di là al di sopra, al disopra al di sotto, al disotto all’incirca d’accordo d’altronde in quanto l’altr’anno per cui poc’anzi quant’altro senz’altro tra l’altro tutt’altro tutt’e due tutt’oggi tutt’uno Tra queste però alcune sono registrate nel DOP anche in forma unita, sempre con la notazione di “forme rare” o comunque meno comuni delle corrispondenti in forma separata: affianco è registrato con rimando alla forma separata daccordo daltronde è indicata come forma meno comune pocanzi è indicata come forma meno comune senzaltro,tuttaltro e tuttoggi sono indicate come forme rare Parole o espressioni che nell’italiano contemporaneo sono scritte unite abbastanza affatto allora allorché almeno altrimenti ancorché apposta appunto benché bensì chissà davanti davvero dinanzi, dinnanzi dopodomani dovunque ebbene eppure fabbisogno finché finora giacché infatti inoltre invano invero laggiù malgrado neanche nemmeno neppure nonché oppure ossia ovvero ovverosia perciò perfino pertanto piuttosto poiché pressappoco purtroppo quaggiù qualcosa qualora quassù sebbene seppure sicché siccome sissignore soprattutto sottosopra talmente talora talvolta tuttavia tuttora Ci sono poi parole o espressioni che ricorrono e possono essere scritte sia unite sia separate: in alcuni casi, segnalati tra parentesi, una delle due forme è registrata come meno comune, rara o antiquata. Forme unite: Forme separate: anzitempo anzi tempo anzitutto (mai anzittutto) anzi tutto (meno comune) casomai (meno comune) caso mai cionnonostante (meno comune)/ciononostante (meno bene) ciò nonostante/ciò non ostante controvoglia contro voglia cosicché così che dappertutto (da evitare dapertutto) da per tutto dappoco da poco (meno comune) dappresso da presso dapprima (mai d’apprima) da prima (meno comune) dapprincipio (meno comune) da principio difronte (meno comune) di fronte disotto (meno comune), mai dissotto di sotto dopotutto dopo tutto manodopera mano d'opera nondimeno non di meno nonostante non ostante (meno comune) oltremisura (meno comune) oltre misura (antiquato oltra misura) oltremodo oltre modo (meno comune, antiquato oltra misura) peraltro per altro perlomeno per lo meno perlopiù (mai perloppiù) per lo più quantomeno (meno comune) quanto meno quantopiù quanto più sennò (registro familiare) se no suppergiù su per giù tantomeno (raro) tanto meno tantopiù (raro, mai tantoppiù) tanto più tuttalpiù (raro) tutt'al più (mai tutt’alpiù) Aggiungiamo infine il caso della forma esclamativa vabbè (così registrata nel DOP), contrazione di va bene, caratteristica di contesti informali. http://www.accademiadellacrusca.it/f...4026&ctg_id=93 |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Ok le usavo tutte bene XD
Errori che facevo di solito: Volente o Dolente (era nolente...poi dite che il latino nn serve ahahah). Almeno che (invece è "a meno che", ho avuto una rivelazione su questa cosa). Mi hanno TAPPATO le ali (invece era tarpato...mi era sempre sembrato strano usare tappare, immaginavo il tappo dello spumante). Va beh e invece ho appena scoperto che si scrive vabbè XD PS: ma acciocché esiste?? |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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http://dizionari.corriere.it/diziona...cciocche.shtml |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Ce n’è per tutti!
L’espressione ce n’è è forma contratta di ce ne è, con elisione della -e di ne; si tratta della realizzazione della terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo esserci, definito procomplementare ("che si usa stabilmente con particelle clitiche procomplementari [ad es. svignarsela] o che, in quanto usato con tali particelle, assume valori specifici, autonomi rispetto al verbo di base [ad es. sentirsela, vedersela, ecc.]", GRADIT), unita al clitico ne (essercene); la si incontra in enunciati come di donne che mi fanno battere il cuore ce n’è una sola; ce n’è per tutti. Talvolta, scrivendo, ce n’è viene confuso con ce ne (non ce ne importa niente), oppure *c’è ne, *ce né e *ce nè, “combinazioni”, queste ultime, che invece non esistono. È un dubbio ricorrente, basti confrontare il manuale Si dice o non si dice, a cura di Aldo Gabrielli, ora anche in rete. Si tratta di confusioni provocate da una mancata analisi del significato dei vari elementi dell’espressione, che portano a non distinguere: ce, forma antica del pronome ci (dal latino ecce hīc) che si conserva in unione con i pronomi atoni lo, la, li, le e alla particella ne (si vedano frasi come non ce ne sono più, ce lo misi ieri sera), da c’è (ci è); n’è (ovvero ne è) dal semplice ne avverbio o pronome personale ("con riferimento a persone già nominate, come complemento di argomento, specificazione e partitivo, con il significato di di lui, di lei, di loro: è molto legata al padre, ne parla sempre con affetto; mancavano i genitori, all'assemblea scolastica non ce n'era nessuno", GRADIT), o da né congiunzione coordinante negativa, che viene tra l’altro spesso scritta, erroneamente, con l’accento grave, *nè, invece che con l’accento acuto. In aiuto ci può venire anche la pronuncia, visto che ne dovrebbe essere realizzato con la e chiusa /’ne/ (si consideri anche l’etimologia di ne, da ĭnde [‘di lì’] latino), mentre n’è con la e aperta: /’nƐ/, dal momento che è rappresenta la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere. La pronuncia però, come è noto, subisce oscillazioni a seconda della provenienza geografica del parlante, e quindi non è sempre dirimente, ma anzi può essere proprio la causa dello scambio. Tra l’altro citiamo una curiosità, che potrebbe contribuire a giustificare possibili fraintendimenti: come si può verificare nel DOP, né è stato pronunciato con la e aperta – in conformità al nĕc latino con e breve – fino a tutto il Settecento. Per fugare possibili dubbi sulla grafia di ce n’è può essere utile cambiare persona, tempo o modo dell’espressione: ce ne sono, ce n’era(no) o ce ne sia(no) aiutano a chiarirne il vero valore e significato. Che le incertezze siano molto diffuse lo dimostra anche Internet: esiste una domanda riguardo a questo in Yahoo Answers, mentre Google, limitatamente a pagine scritte in italiano, ci fornisce 13.400.000 risultati per ce n’è ma ben 5.970.000 per c’è ne, una quantità notevole per un errore piuttosto grossolano. Ricorre ovviamente anche la variante ce nè, fortunatamente in un numero minore di occorrenze. A margine notiamo che non è dissimile nella sostanza e nelle motivazioni l’altra confusione piuttosto diffusa, quella tra ce lo, ce l’ho, c’è lo (che hanno tutti significato diverso) e l’inesistente *c’è l’ho, per il quale Google indicizza addirittura 7.850.000 risultati. Come ricorda Andrea De Benedetti, «non tutti gli errori ortografici hanno lo stesso valore. I più gravi, direi, sono quelli che mutano il significato o la funzione grammaticale di una parola, come scrivere “ciò” anziché “c’ho”, “ce” invece di “c’è”, “ne” al posto di “né” (o viceversa). Seguono, a ruota, gli errori che riflettono una mancata corrispondenza della grafia con i suoni, come l’omissione degli accenti nelle parole tronche [...] o lo “scempiamento” delle consonanti lunghe [...], anche se in questi casi esiste sempre il dubbio che si tratti di refusi. Quanto agli errori puramente ortografici (“coscienza” scritto senza “i”, “azione” con due zeta) sono brutti ma non fanno male a nessuno» (Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 153-154). Occorre quindi prestare la massima attenzione perché sviste come quelle descritte non si verifichino. In fondo, basta una piccola riflessione sul reale senso dell’espressione per evitare grafie, e in qualche caso anche significati, errati. A cura di Vera Gheno Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Si dice "è piovuto" o "ha piovuto"?
Il verbo piovere vuole l'ausiliare essere o avere? Il verbo piovere è indicato nella maggior parte dei dizionari come difettivo e, nell'uso intransitivo impersonale, cioè quando ha il significato di 'cadere della pioggia dal cielo', può formare i tempi composti sia con l'ausiliare essere che con avere (es. "ieri è piovuto tutto il giorno" o "ieri ha piovuto tutto il giorno). In tutti gli altri casi, quando cioè il verbo non abbia valore impersonale e quando venga usato nei suoi significati figurati e traslati, forma i tempi composti soltanto con l'ausiliare essere (es. "sono piovuti auguri, critiche...", "mi sono piovute addosso un sacco di noie", "Mario è piovuto a casa mia alle tre di notte"). Sono documentati in alcuni scrittori anche rari casi di uso transitivo, quindi con ausiliare avere, del verbo piovere nel significato di 'far cadere dal cielo pioggia e sim.': "Padre e Signor, s'al popol tuo piovesti / già le dolci rugiade entro al deserto" (Tasso). |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Guida all'uso di accenti e apostrofi nell'italiano
L’uso dell’accento grafico in italiano è diventato stabile dal Novecento per i polisillabi tronchi (città, virtù, longevità). Costante è anche la presenza dell’accento in un numero, in realtà limitato, di monosillabi composti da due grafemi vocalici: ciò, già, giù, più, può, scià, in cui i ed u sono solo segni grafici. Si aggiungano le forme letterarie, e disusate, piè ‘piede’, diè ‘diede’ che, come fé, vengono indicate a volte con l’apostrofo. Tale alternanza tra accenti e apostrofi per alcuni monosillabi è controversa, ad esempio il DOP (Dizionario di ortografia e di pronunzia) indica come errata la forma pie’, e riconosce soltanto per il troncamento di ‘piede’ piè e diè per la voce del verbo ‘dare’. Per fé (‘fece’) segnala anche fe e fe’ pur rari. Come troncamento di ‘fede’ si dà solo fé, da cui deriva la parola composta autodafé, che introduce alla questione dell’accento di polisillabi composti con un originario monosillabo finale: per quanto detto all’inizio sull’uso dell’accento coi polisillabi, è chiaro che anche in questi casi, essendo il polisillabo tronco, si deve usare l’accento grafico (ventitré, rossoblù, nontiscordardimé, Oltrepò). Si consideri ora l’uso dell’accento (e dell’apostrofo eventualmente) con i monosillabi che si scrivono con una sola vocale. L’accento si indica solo nei casi in cui occorra disambiguare il monosillabo per l’esistenza di un omografo; i casi più comuni sono: ché: accentato solo come forma abbreviata di ‘perché’ o, più raramente, di ‘affinché’; mentre è sempre che in tutti gli altri usi, anche in quello sostantivato: non è un gran che, ha un certo non so che; dopo di che vedremo. È diffusa e ammessa la forma con scrizione sintetica granché; dà: presente indicativo di ‘dare’; da è preposizione. L’imperativo richiederebbe da’ (‘dai’), ma questa forma e gli analoghi imperativi fa’ (‘fai’), sta’ (‘stai’) e va’ (‘vai’) non sono universalmente accolti sia dall’uso reale sia dai grammatici, pertanto si può scrivere semplicemente da, fa, sta, va (forme tradizionali affiancate da quelle apostrofate nel fiorentino ottocentesco); di’ o dì imperativo di ‘dire’; dì ‘giorno’, ma per altri (cfr. SERIANNI 1989: I 242) solo di’ vale per l’imperativo di ‘dire’ (dal latino DIC) distinto in tal modo dalla preposizione di e dal sostantivo dì; è vale per la forma verbale mentre e per la congiunzione; là e lì sono gli avverbi mentre la è articolo e li pronome atono; né è congiunzione (non voglio mangiare né bere); ne pronome o avverbio; e ne’ vale per la preposizione articolata maschile plurale nei, ormai antiquata, come gli altri maschili plurali a’, de’, co’, pe’, e gli aggettivi be’ e que’; sé indica il pronome, che essendo sempre tonico deve essere scritto con l’accento: le pur diffusissime varianti se stesso, se medesimo, contrariamente a una diffusa opinione, non sono pertanto giustificate; se indica il pronome atono usato talora in luogo di si (se lo mangia) e la congiunzione; se’ è forma disusata per ‘sei’; sì è l’avverbio e si il pronome e la nota musicale; tè indica la bevanda (ed è preferibile a the e thè); te è il pronome; si possono segnalare anche le forme antiquate te’ sia per ‘eccoti’ sia per ‘tieni’. Un’ultima osservazione sull’apostrofo. I troncamenti di ‘piede’ e ‘fede’ si scrivono piè e fé, ma per ‘poco’ si ha po’ con l’apostrofo, l’unica forma, sia chiaro, codificata e ammessa dall’ortografia attuale e indicata dalle grammatiche. Solo come curiosità si segnala la proposta (in LEONE 1969) di estendere a tutti i monosillabi tronchi l’apostrofo, purché sia ancora viva la coscienza del troncamento, mentre, a parere d’altri, “il partito migliore sarebbe quello di eliminare addirittura l’apostrofo come segno dell’apocope sillabica, scrivendo semplicemente po (il quale non può confondersi con Po, che vuole la maiuscola), to e toh, ve o veh, be o beh, mo e fe” (SERIANNI 1989: I 245). http://www.accademiadellacrusca.it/f...4319&ctg_id=93 |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Maurizio Casa e Andrea Motta ci hanno segnalato il neologismo perplimere, ascoltato per radio o in televisione; su questa parola ci chiedono informazioni Claudio Bergamini, Dario Garretti, Francesca Palella e altri. Giovanni Sonnino ci chiede qual è la procedura di inserimento di perplimere «all’interno della lingua italiana».
Significato e origine di perplimere Il verbo perplimere significa “essere perplesso” o “rendere perplesso”, ed è entrato nella nostra lingua in un passato recente, ma con un percorso particolare che ne ha limitato l’ambito d’uso e che ne ha pertanto impedito, almeno per ora, l’ingresso nei vocabolari di lingua italiana (nei quali non è attualmente registrato). L’impiego del verbo perplimere è dovuto alla prosa creativa del comico Corrado Guzzanti, che lo ha lanciato nei primissimi anni Novanta, nella trasmissione televisiva “Avanzi”. La parola venne inserita in uno dei dialoghi fra il personaggio Rokko Smitherson e Serena Dandini, ed ebbe talmente successo che fu più volte riutilizzata nella trasmissione, con ricchi esempi nella coniugazione (perplimere, perplimo, perplimete, perplèi, perplime[re]) e nelle varianti (perplerre). Molte furono le parole inventate da Rokko Smitherson (regista romano di “filmaggi de’ paura”), un personaggio che basava la sua comicità satirica proprio sui giochi di parole e su neoconiazioni allusive (sospensionismo, su astensionismo; antiproibizionale, su antiproibizionista; sopravvolare, su sorvolare; cartone animale, su cartone animato; psicoanale, su psicoanalista; ecc.). Fra le molte innovazioni linguistiche perplimere attecchì più facilmente nella lingua comune a causa della sua perfetta adeguatezza morfologica, che tra l’altro colma anche una lacuna lessicale della nostra lingua: il verbo è infatti spontaneamente riconducibile dai parlanti italiani al participio passato perplesso (sulla base di verbi come comprimere / compresso; sopprimere / soppresso, ecc.); e del resto manca in italiano un verbo che renda in modo sintetico l’azione dell’essere o del rendere perplessi, per cui il neologismo si incunea perfettamente nel nostro sistema linguistico. Probabilmente per questa sua funzionalità nel coprire un vuoto morfologico e semantico (che l’italiano eredita dal latino), sulla scia della trasmissione la parola ebbe una notevole e crescente fortuna, seppure in contesti informali e per lo più in accezione ironica; e, del resto, nonostante l’origine peculiare, perplimere ha resistito a lungo nella nostra lingua, tanto che recentemente se ne è persa anche la sfumatura ironica, come emerge dai quesiti e dalle segnalazioni di neologismo giunti alla nostra redazione. Effettuando una ricerca su Internet con i consueti motori di ricerca, si rileva che la parola è comparsa in alcuni dizionari amatoriali, ed è spesso presente nei messaggi di vari gruppi di discussione, tra l’altro con forti oscillazioni tra chi sostiene che il verbo non esiste e chi invece ne dà per scontata l’assimilazione nel repertorio dell’italiano e lo usa per spiegare altri fenomeni linguistici. A questo proposito, e per rispondere a chi ci domanda come si possa fare entrare il verbo perplimere nei vocabolari, va ricordato che la grammatica e la lessicografia registrano, raccolgono, spiegano e inseriscono in un sistema organico fenomeni che hanno raggiunto una certa rilevanza nella lingua: perplimere nasce certamente come parola effimera, ma la sua tenace persistenza la rende linguisticamente interessante; per cui non se ne può negare, come fanno alcuni, l’esistenza, ma se sia o meno destinata ad entrare nei vocabolari è una risposta che può essere data soltanto dalla continuità e dall’ampiezza della sua diffusione nei prossimi anni. A cura di Marco Biffi Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca http://www.accademiadellacrusca.it/f...4409&ctg_id=44 |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Il lessico italiano è costituito da:
1) parole popolari derivate dal latino classico, che sono passate al latino volgare e poi all'italiano per tradizione diretta o ininterrotta 2) latinismi, cioè voci derivate dal latino classico e passate all'italiano per via dotta ma non attraverso il latino volgare, recuperate nella lingua scritta grazie al prestigio culturale del latino e adattate in parte al nuovo sitema fonetico e morfologico 3) voci straniere, dette forestierismi o prestiti 4) derivazione e composizione, cioè parole nuove formate da voci già esistenti in italiano (conversione, suffissazione, prefissazione, univerbazioni) Perplimere...che cosa sarebbe? Voce derivante per tradizione sciocca?:ridacchiare: |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
L'avevo letta anch'io quella pagina dell'accademia della crusca.
Mi chiedo se qualcuno abbia mai usato con intenzioni serie "perplimere". |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Deriva da va bene, naturalmente. L'ortografia italiana standard di quell'espressione è vabbè (il segno d'accento è grave, non acuto) o anche va be' separato e con l'apostrofo. Per simili dilemmi torna molto utile il Dizionario d'Ortografia e di Pronunzia, uno strumento un po' troppo puristico ma davvero completo e rigoroso. Da pochi anni ne è stata fatta una nuova edizione, che è anche liberamente consultabile su internet: http://www.dizionario.rai.it (è ancora provvisorio, soprattutto perché non è stata conclusa la parte su nomi e parole straniere). :) |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Perplimere rientra nel punto 4, poiché è formato da voci già esistenti in italiano. Per la precisione, viene fuori per analogia con comprimere, esprimere ecc. Espresso sta a esprimere come perplesso sta a X. L'incognita è appunto perplimere (che non fa parte dell'italiano standard, ma è usato da alcuni). :) Se uno volesse più rettamente latineggiare, dovrebbe dire questa cosa mi perplette. :D |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Ottimi gli interventi di Rifiorire (di cui mi piacerebbe conoscere i titoli, se non in pubblico puoi sempre mandarmi un messaggio privato). "Vabbè" con accento grave, correggo il mio precedente.
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
" ma che cazzo stai a di' ?''
"eh vabbè l'italiano è una lingua maledetta" :ridacchiare: |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Mica e manco: due avverbi dell'uso parlato e popolare
Ilaria Ciangherotti ha chiesto consulenza alla nostra redazione per conoscere l'origine, i diversi significati e i possibili usi degli avverbi mica e manco Mica e manco: due avverbi dell'uso parlato e popolare La forma avverbiale mica deriva dal latino MICA 'briciola di pane' (attestato in Petronio) e in italiano, nel significato di 'punto', 'affatto', ha attestazioni molto antiche fin dal Ritmo di Sant'Alessio composto nel XII secolo. Proprio dal significato originario di 'briciola, piccolissima parte', attraverso un uso estensivo in frasi negative, ha assunto il significato corrente di 'per nulla, affatto'. Si tratta di un elemento rafforzativo che trova la sua origine in proposizioni del tipo "non mangio nemmeno una briciola", "non faccio neanche un passo" e che poi si è generalizzato nell'uso anche in presenza di altri verbi. In italiano la particella mica, registrata già dalla prima edizione del Vocabolario degli accademici della crusca (1612) anche nella variante miga attestata in Boccaccio, ha avuto maggiore diffusione nella lingua comune, parlata (nei dialetti restano vive diverse realizzazioni: miga e minga al nord, nel parmense si è mantenuta la forma brisa 'briciola'), mentre in ambito letterario le occorrenze non sono numerosissime. Questa distribuzione nell'uso è particolarmente significativa se la confrontiamo con quanto è invece accaduto in altre lingue neolatine, come ad esempio il francese, che ha generalizzato l'uso di queste particelle a tutte le costruzioni negative della lingua standard (pas da PASSUS ancora in uso e mie da MICA segnalato nei dizionari della lingua francese come voce arcaica, anche se la si può trovare ancora in scrittori della prima metà del Novecento: in tutti e due i casi si è perso il significato originario). Mica insieme a punto resta viva nel parlato toscano e, nelle diverse forme a seconda delle zone, in molti dialetti. L’avverbio manco ha due accezioni principali, quella di ‘meno’ limitata all’italiano antico e popolare (ma non nel meridione dove prevale più poco) diffuso in forme composte come niente di manco, niente manco, non di manco, non manco attestato in scritti pratici o di genere popolare; e quella di ‘neanche’ come forma abbreviata da nemmanco, uno dei tanti avverbi che trovano il loro precedente nel latino NE… QUIDEM. La connotazione popolare appare confermata dalle prime attestazioni dell'avverbio e dal modo in cui è stato poi accolto nel Vocabolario degli accademici della crusca: nella banca dati del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini che raccoglie testi anteriori al 1375 in italiano e nei vari dialetti, le prime occorrenze di manco (nella variante mancu) sono contenute in testi siciliani dei primi del Trecento; nel Vocabolario degli accademici della crusca la forma, nell'accezione di 'neanche', compare solo nella terza edizione (1691), aggiunta come terza accezione dopo quelle principali di 'ammanco' e 'meno' e non corredata da esempi d'autore a conferma del fatto che gli accademici l'hanno inserita come forma d'uso di cui non hanno trovato riscontri nelle opere letterarie. In questa stessa accezione di 'neanche' manco è stato condannato come neologismo da Rigutini (I neologismi buoni e cattivi, 1926, dove commenta: “Manco, avverbio, l’usano alcuni pessimi scrittori con senso negativo: «Son cose manco da dirsi; manco l’ho pensata», ecc. invece di «non son cose da non dirsi neanco; non l’ho neppur pensata», ecc. E la maniera «manco a dirlo», per «superfluo di dirlo, non c’è bisogno di dirlo», e simili"), anche se, in realtà, è di antica attestazione (da Jacopo Nardi a metà del ’500 a Caro, Caporali, Lippi, Algarotti) e rimane la forma dominante nel meridione, mentre il nord preferisce neanche. Nell’italiano contemporaneo resta forma quasi esclusiva del parlato e può comparire in scritture informali o che riproducono la forma parlata. A cura di Raffaella Setti Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca http://www.accademiadellacrusca.it/f...7052&ctg_id=93 |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
"cosa è" si può scrivere o ho sbagliato? :D
bisogna per forza mettere l'apostrofo? |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Uso degli accenti nelle III p.s.
La regola, per quanto riguarda le terze persone singolari monosillabiche, è questa: l'accento è obbligatorio solo su 'egli dà' (errato 'egli da'), 'egli è' e 'egli può'; tutti gli altri si scrivono senz'accento: 'egli fa/ha/sa/sta/va' (non me ne vengono in mente altri). Poi ci sono gli accenti facoltativi (inutili sul verbo dare, ma non sbagliati): è lecito scrivere 'io dò, tu dài, essi dànno' anche se non potrebbe mai esserci ambiguità con 'do' nota musicale, 'dai' preposizione articolata o 'danno' sostantivo. Qui è questione di gusto. Per questa e altre questioni, Le consiglio l'acquisto della "Grammatica italiana" di Luca Serianni, senza dubbio la migliore perché fa il punto della situazione su quasi tutti i dubbi che possiamo avere. |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Una domanda che mi ha sempre tormentato: come si comportano nell'italiano contemporaneo al plurale i prestiti (dunque termini alloglotti) non adattati? :interrogativo:
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Ecco dove volevo arrivare:
Dunque in italiano "polis" (la città-stato greca) al singolare e "poleis" al plurale (cosa su cui i professori a scuola bacchettavano parecchio, ricordo) et similia (tipo curriculum e curricula), sono solo inutili forme di devozione classicista? |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Il latino e il greco costituiscono un unicum, quindi?
E parole di altre lingue antiche come "ziqqurat"? |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
Chiedo una belinata:
Secondo voi, se dovessi usare il singolare di proci dovrei dire proco o procus? Non ho mai capito se il termine usato per riferirsi a loro è proprio latino oppure se è inteso come parola italiana a tutti gli effetti. |
Re: Vademecum essenziale della lingua italiana
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