Per quanto sappia che le mie righe siano difficili e noiose da seguire, vorrei scrivere per non tenermi tutto dentro e magari trovare conforto in qualche parola solidale, colta dall'ennesimo attacco di panico per chissà quale motivo.
Per cercare di distrarmi, ho iniziato a suonare. La musica non la ricordo neanche, eran tutte note mie raccolte in una sinfonia malinconica e, forse, stonata. Quel che resta è il pensiero successivo, partorito a metà tra la lucidità ed il panico, oltre ad un senso di vuoto e tristezza.
Mi meraviglio di quanto la gente comune, quella "normale", cerchi rifugio in ordinarie dosi di follia, fuggendo, forse, la monotonia e soddisfando il fisiologico desiderio della sfida, del diverso, di quello che loro stessi considerano anormale.
Persone che, così facendo, dimostrano di non possedere neanche la minima capacità di scrivere la propria storia, tracciare il proprio destino, ed io mi chiedo come possano tentare di fuggire da ciò che hanno, la normalità.
Non si rendono conto di quanto sia fondamentale possederla e di quanto impegno costi, ad alcuni, raggiungerla, raggiungere l'autonomia.
Nasce, così, la decisione di abbandonarsi all'ignoto, crogiolarsi nell'incapacità di compiere scelte concrete, di decidere, scatenando la paura, questa mostruosa bestia che si nutre dell'innata fragilità umana, più evidente in certi soggetti.
"Cambiare", "agire", "subire le conseguenze", i tre verbi forse più temuti, da tutti. Io distinguo due categorie di persone: quelle che, in cerca d'avventura destabilizzano il proprio equilibrio, per provare la scarica d'adrenalina e nulla più; e quelle che sono alla costante ricerca dell'equilibrio, non considerando che la loro stessa esistenza costituisce l'equilibrio tra tutti più difficile da mantenere, quello tra la vita e la morte.
Questo pensiero è nato ascoltando la mia stessa musica, non composta dal susseguirsi frenetico o malinconico di note, ma da infiniti e microscopici frammenti d'anima.
Questi frammenti costituiscono i miei attimi di vita, quelli nei quali la mia esistenza non era assopita, come adesso.
Osservo la mia vita, allora. La vedo scorrere davanti ai miei occhi, mi attraversa come fosse reale, sento persino un brivido, è inesorabile, non son protagonista, posso solo assistere al crescendo del ritmo di immagini e sensazioni che furono.
La mia vita è lì, davanti a me, ma è filtrata da un velo che rende tutto confuso, impersonale, opaco. Mi ricorda, forse, che tutto è già passato e, allora come adesso, non ho fatto altro che assistere impotente.
Ho la sensazione di non possedere i miei pensieri, di non farne parte.
Li osservo, come si osserva un quadro od un paesaggio che ci incanta, ne sono sicura: non c'è nulla di me in loro, o almeno non più. Mi stanno raccontando la mia storia.
E' triste, sono spettatrice di quella che considero la parte più profonda, segreta ed inaccessibile di me.
D'altronde, come potrei rivivere in loro? Frammenti di tutto, frammenti di niente, frammenti incorporei e senza tempo.
Io, invece, posso solo eguagliarmi ad una candela che brucia in presenza d'ossigeno: senza, non avrei modo d'esistere, con, sono destinata a spegnermi lentamente. Con la stessa lentezza con la quale avverto il potere paralizzante della paura: le ho permesso ancora di farmi prigioniera della sua illusoria realtà.