E' un processo doloroso, quello di realizzare e convincere se stessi che la propria famiglia sia "macchiata".
Mia madre e mio padre sono nati e cresciuti nel sud Italia, negli anni '70 la scuola lì non era granché, più che altro nozionistica e orientata alla disciplina, più che a insegnare come vivere bene e in armonia con gli altri. Mia madre era la terza, con due fratelli maggiori, una classica casalinga come madre e un padre-padrone, gestore di un negozio. Mia madre ha vissuto la propria infanzia nel rifiuto e nella negazione. Non si sentiva amata dai fratelli (con cui ora, inevitabilmente, per vari screzi, ha chiuso i rapporti da anni) e il padre la limitava in tutto. Ad esempio in quanto "femmina" le fu impedito di frequentare il liceo classico e ripiegò su un istituto di formazione biennale che l'ha portata a fare niente più che la casalinga.
Mio padre, dal canto suo, sembrerebbe aver avuto una vita diversa, ma non più semplice, né meno macchiata. Si è laureato e ha ottenuto progressivamente un lavoro molto buono, con molti guadagni, infatti la mia famiglia, almeno da 10 anni a questa parte, ha vissuto nell'agiatezza borghese che ci contraddistingue. Leggete quest'ultima frase con un tono amaro.
Si sono incontrati molto giovani, 18 lui, 15 lei, entrambi alla prima esperienza. Sposati dopo 15 anni di relazione, hanno deciso di avermi un anno dopo.
Ed è lì che hanno allargato la macchia.
Nessuno dei due ha mai risolto i propri traumi, li hanno inglobati nella loro persona, sono diventati rigidi mentalmente, sempre più simili ai loro vecchi. La loro reazione agli abusi è stata l'emulazione: "se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico".
Si sono sempre più chiusi nel loro Io, hanno iniziato a rifiutare con forza qualsiasi tipo di critica, hanno creato un mondo di aspettative che se non realizzate generavano rabbia e senso di vuoto. E tutto questo in modo deliziosamente inconsapevole.
Quando sono arrivato, ero l'aspettativa più grande che avessero mai avuto. Ero per loro il modo di dimostrare al mondo che, nonostante tutto, ce l'avessero fatta. Mi portavano in giro come un trofeo ed esternamente sembrava esserci tanta felicità e tanto amore. Ma dentro le mura, se qualsiasi tipo di aspettativa non era assecondata, ecco che arrivavano i silenzi punitivi, le minacce di uccidersi o di andare via, di scappare. Questi episodi iniziano nella mia memoria da quando ho ricordi, quindi accadevano già quando avevo 4-5 anni, ma probabilmente anche prima. Spesso mia madre mi stringeva le unghia nella manina, quando in pubblico facevo un qualcosa che non le andava bene o che la imbarazzava. In presenza dei parenti, diventavo di nuovo il trofeo. Dovevo raccontare tutte le cose belle che facevo, dovevo apparire splendente, ma come potreste immaginare, ero in realtà un bambino molto solo, molto triste, e non riuscivo affatto a mentire, ad apparire felice e sano. A tavola mi imbarazzavano continuamente, mi dicevano di continuo che non parlavo mai, che dovevo raccontare. E i parenti facevano altrettanto, ma erano sempre loro a parlare, attraverso le loro bocche.
Almeno dalle elementari, sopratutto mia madre ha iniziato a chiamarmi "bugiardo", "cattivo", "disgrazia", ogni qualvolta qualcosa non andava bene.
Non c'è mai stato un confine emotivo, ogni mio successo, così come ogni mio insuccesso, era vissuto da loro come un qualcosa che vivevano direttamente dentro la loro persona. Non mi hanno mai visto come un individuo, ma come una loro estensione.
Da quando ero ancora attaccato al cordone, sono stato io a dovere accudire loro. Io dovevo, oltre a realizzare le loro aspettative, farli sentire amati e accettati. Sopratutto mio padre, ancora ultimamente, richiede, anzi pretende, dimostrazioni di affetto esplicite, ma quando vede che lo rifiuto, piange, si nasconde e iniziano a sparlare di me quando pensano che non li sento.
L'apparire è un concetto fondamentale. Vivono la loro vita sintonizzati sugli altri, e mi hanno trasmesso questa tragedia, che in me si è manifestata sotto forma di ansia sociale, di dipendenza e insicurezza davanti al mondo.
Quando si usciva di casa bisognava essere composti e perfetti fino alla pazzia. E dentro casa c'erano, e ci sono - perché sì, vivo ancora con loro - tutta una serie di regole sulla disposizione degli oggetti, sul modo in cui si fanno le cose, che se non rispettate portano a scontri titanici.
A proposito, ogni tentativo di discussione o ogni litigio, non ha mai portato a nient'altro che al mio annullamento. Ogni volta che ho provato a far presente quanto i loro comportamenti mi danneggiassero, le uniche risposte che ho ottenuto sono state: negazione, proiezione, vittimismo.
La quarantena ha esasperato questa mia consapevolezza dell'origine dei miei problemi, e i rapporti si sono inclinati come mai prima. E' il risultato di un enorme e devastante percorso di crescita, che mi ha portato a realizzare che, per quanto apparentemente amato, in realtà mai lo sono stato. O almeno non in modo funzionale. E' stato un amore condizionato dal risultato. Un risultato però che però non bastava mai, un insoddisfazione cronica ed io, il capo espiatorio.
Ho cercato fino a pochi mesi fa un dialogo, ho cercato di spiegargli come stessero vivendo la vita al 50% delle loro possibilità, che potevano essere felici. Gli ho consigliato un percorso terapeutico. Quello che ho ottenuto? Negazione, proiezione, vittimismo.
In queste ultime settimane me la sto vivendo molto male. non riesco a trovare modi per andare via. Trovare un lavoro quando hai paura anche solo ad uscire di casa è dura, ma sto facendo grossi passi in avanti. Ho smesso di aver paura di fare e ricevere chiamate, ho smesso di preoccuparmi degli altri, ho messo fine a relazioni tossiche da cui non riuscivo a staccarmi. Sto pensando per la prima volta a me stesso, ma il tutto è contornato da un'infinita tristezza, da un incolmabile vuoto. Ho sempre avuto pensieri suicidi, ma mai come quelli del mese scorso, dopo averli sentiti parlare di me di nascosto, parlare di me in termini così affossanti, così cattivi. Per loro sono una maledizione, sono una disgrazia del demonio (sono molto cattolici, ma più che altro bigotti).
A volte mi capita di sintonizzarmi ancora su di loro, quando li vedo in giro per casa e mi guardano disprezzandomi, mi sento male, inutile negarlo. Ma sto sempre più migliorando, sempre più concentrato su me stesso.
E sono sicuro che quando riuscirò ad andare via, la macchia andrà via da me, e sarò felice, e potrò coltivare relazioni sane e sincere.
E magari riuscirò anche a volermi un po' bene finalmente.
Sono loro la causa della mia ansia sociale e per questo mi sembra di non avere tempo, di dover fare le cose velocemente, di dover scappare il prima possibile. E forse dovrei, ma il mondo non sembra aiutarmi.