L’8 agosto 2008 ho postato un messaggio che descriveva la mia esperienza con la psicoterapia ed i risultati che ho ottenuto (
http://www.fobiasociale.com/posts6737-0.html). A quell’intervento è seguita una lunga discussione, al termine della quale molti utenti del forum hanno espresso il desiderio di leggere altri particolari e di conoscere ulteriori dettagli della mia storia passata e di come si è svolta la mia trasformazione personale.
Il testo che segue è una completa rielaborazione della prima stesura, che raccoglie tutti gli interventi sparsi ed alcuni messaggi personali che ho scambiato con i membri del forum. Devo quindi molto alle singole persone che hanno contribuito alla discussione, alcune delle quali mi hanno arricchito con dei commenti profondi, che ho poi integrato nella versione finale. In un certo senso è diventata una specie di opera collettiva.
Ho aggiunto come appendice la descrizione di alcune resistenze interiori che ho dovuto superare prima di iniziare la terapia, e, infine, ho condensato le risposte a qualche obiezione che mi è stata posta. Buona lettura a tutti.
c.k.
Chiamatemi Clark Kent.
Ho 35 anni, sono figlio unico, e vivo in un piccolo centro del nord-est. Potrei cominciare raccontandovi molte cose su di me: di come sono stato iperprotetto da una madre ansiosa, delle infedeltà coniugali di entrambi i miei genitori, del loro drammatico e burrascoso divorzio, dei messaggi distruttivi che mio padre mi ha sempre comunicato sull’amore, sui rapporti di coppia ed sul valore delle donne, del bullismo a sfondo sessuale che ho subito durante gli anni della scuola media. Potrei raccontarvi di pranzi di Natale fatti a rate in quattro–cinque case diverse perché tutti i rami della mia famiglia si detestavano per vari motivi, religiosi, caratteriali, economici e dovevo fare questo bizzarro pellegrinaggio per evitare che i miei parenti cominciassero ad insultarsi se si fossero trovati nella stessa stanza. Ma potrei anche parlarvi di come fossi cresciuto in modo sgraziato e disarmonico, magro, esile, gli occhiali da miope già a 12 anni, leggera balbuzie, una vocetta sgraziata di naso e una curiosa andatura dinoccolata a motivo dell’altezza eccessiva.
A farla breve sono cresciuto come un cerebrale puro: una delicata sensibilità, un’intelligenza vivissima ed una grande cultura alimentata da una curiosità insaziabile che non mi ha mai abbandonato. Per contro, ero un inetto quasi totale in tutto ciò che presupponeva la comunicazione interpersonale, lo scambio emotivo, il contatto fisico tanto che finii per crescere con un’inclinazione fortissima alla solutidine ed all’introspezione. Sviluppai un senso di incomunicabilità totale con il mondo esterno e le sue regole. Il senso di superiorità nei confronti degli altri, delle loro maniere rozze e superficiali, il disprezzo per il loro vuoto interiore. Pochi amici, sempre gli stessi l’eterna sensazione di essere immancabilmente fuori posto in qualsiasi circostanza. Nessuna delle mode dei miei coetanei ebbe mai presa su di me, tanto che fantasticavo spesso di rinascere in un’altra epoca.
Avevo disgusto del mio aspetto, la mia preoccupazione principale era passare del tutto inosservato (nell’atteggiamento, nel modo di vestire) tanto che una delle mie fantasie preferite era quella di essere invisibile per poter esplorare il mondo a mia piacimento senza dover rendere conto a nessuno. L’opinione complessiva che avevo di me era insignificante: c’erano momenti in cui la semplice vista della mia immagine riflessa su una superficie lucida mi gettava nello sconforto per giorni, vede una foto era ancora peggio per non dire della voce registrata. Per anni mi sono scervellato cercando un modo di radermi senza guardarmi.
Il tutto era corredato da un perfezionismo portato a vette patologiche, con la paralizzante idea di poter essere accettato ed amato solo se impeccabile in ogni minimo dettaglio. Avevo un approccio rigidissimo con me stesso e non riuscivo a perdonarmi nulla: di conseguenza, anche il più normale degli insuccessi veniva vissuto come uno scacco esistenziale, un fallimento epocale che a volte mi perseguitava per anni e anni con un ricordo bruciante. Altra fonte di sofferenze era la continua ricerca dell’approvazione altrui accompagnata dall’idea del mio disvalore: “Cosa avrà pensato di me?”, “Gli sarò piaciuto?”, “Che idea si è fatto?” erano dei pensieri ricorrenti che a volte mi paralizzavano per giorni.
L’aspetto più drammatico in assoluto erano i rapporti con le donne. A seconda dei casi, la situazione variava dall’indifferenza al puro terrore. Se ad esempio una ragazza entrava nello scompartimento in cui mi trovavo da solo, avevo il bisogno compulsivo di allontanarmi, perché la solo idea che mi dicesse “ciao!” era uno scenario da incubo. Quei pochi contatti erano vaghe amicizie con un’improbabile sfumatura di amore platonico, probabilmente percepita quasi esclusivamente da me. Il tutto soffocato da un pesante intellettualismo, un approccio rigido e controllato con pochissime concessioni al trasporto ed agli slanci emotivi, visti come pericolose debolezze. Nessuno spazio alla giocosità, all’affetto, ma avvicinamenti invariabilmente molto pesanti, paludati, con un piglio serioso e professorale. Non è difficile immaginare quanto poco avessi ottenuto. Avevo un tale terrore del contatto fisico che una volta sentii una mano sulla spalla ed esclamai all’improvviso “Non mi toccare!” … peccato solo che era mia madre, che mi stavo solo sistemando il colletto con un gesto affettuoso … Non starò a farvela lunga. Ho dato il mio primo bacio a 31 anni, quasi per caso, e questo dettaglio evita di dover aggiungere tanti altri particolari: il resto immaginatevelo da voi.
In tutto questo periodo il mio stato mentale oscillava fra due poli opposti.
- Il primo era un atteggiamento di disincantato snobismo, un senso di compiaciuta superiorità sugli altri. “Io sì che valgo qualcosa”, ripetevo a me stesso come un mantra, “non quella massa di zotici, insignificanti, superficiali e vuoti che trascorrono le serate abbordando le tipe alle feste”. Io basto a me stesso, non ho bisogno di nessuno, trovo in me tutta l’energia e le risorse che servono.
A volte tutto questo raggiungeva vette di insuperabile cinismo. Ricordo una volta che alla televisione si parlava dei rapporti di coppia, ed io mi sorpresi a formulare dei pensieri così: “Poveri sciocchi immaturi, non avete capito che quello che definite amore non è altro che uno squilibrio biochimico nel cervello, e che il romanticismo e solo una mistificazione culturale elaborata ad uso e consumo delle anime deboli? Io si che valgo poiché comprendo con perfetta chiarezza che queste cose sono pure utopie. Non ho bisogno di puerili infingimenti, né di consolanti illusioni per riuscire a vivere!” A volte ero quasi contento quando avevo notizia che qualcuno si era lasciato, tanto da pensare: “Bene, ecco, avevo ragione. Tanto l’amore non esiste, non poteva durare”.
- All’estremo opposto vivevo sensazioni del tutto diverse, in cui sperimentavo la bruciante invidia per i successi altrui e mi trastullavo in struggenti vagheggiamenti di situazioni dolcissime e romantiche che avrebbero finalmente placato il mio bisogno di essere amato. Il tutto condito dal desiderio di incontrare una donna salvatrice, un angelo buono che mi avrebbe capito ed accettato, appagando il mio desiderio di tenerezza.
A questo si univa una frustrazione indescrivibile a parole, ovvero la consapevolezza che al mondo esistono cose bellissime che però a me sono ostinatamente negate. La vita, dicevo amaramente, è guardare le vetrine senza poter entrare… Queste sensazioni erano amplificate da un sentimento amarissimo, e cioè il sospetto corrosivo che forse avrei potuto facilmente riuscire se solo avessi affrontato le situazioni con sicurezza e fiducia. Ma non avevo né l’una né l’altra, quindi restavo prigioniero di un eterno circolo vizioso che faceva crescere sempre di più la mia angoscia. Avevo la sensazione di girare eternamente attorno alle cose, che mi mancasse eternamente qualcosa, e che se se solo avessi avuto la capacità di tentare e di mettermi in gioco tutto sarebbe stato diverso.
In realtà si tratta di due poli estremi, e nella maggior parte il mio rapporto con le donne oscillava in una quantità di sfumature intermedie a seconda delle circostanze. Questi però erano gli elementi ricorrenti:
- La convinzione profonda di avere a che fare con lati strutturali della mia personalità, e quindi immodificabili. Non posso cioè cambiarli a mio piacimento, devo solo trovare un modo per conviverci, possibilmente trovando delle compensazioni in altri campi o al limite cercando di sopportare virilmente la situazione. Insomma, una provvisoria tranquillità fatta d'illusioni, in cui si costruisce un modello mentale rassicurante, convincendosi che comunque i limiti sono insuperabili e non vale la pena di tentare;
- La colpa non è mia, è di quello che mi è successo. Io sono solo una vittima sfortunata, gli altri devono compatirmi, consolarmi e aiutarmi. Sono, ovviamente, legittimato a piangermi addosso ed a persuadere quante più persone che la mia storia è più triste e lamentevole della loro;
- La responsabilità è tutta all’esterno, io vado bene così, ed anzi sono pure orgoglioso di esserlo. Non devo e non voglio cambiare nulla, semmai il problema è trovare qualcuno (qualcuna) che mi accetti per come sono;
- Un fatalismo portato all’estremo, in particolare legato all’idea della “donna della mia vita” che il destino mi presenterà una sola volta nel corso della mia esistenza. Da qui, un senso di ansia perpetua per la difficoltà di riconoscerla, per la paura di mancare l’occasione, o il paralizzante rimpianto per occasioni sprecate (“e se fosse stata lei?”);
- Un modo di pensare molto rigido, tutto giocato su generalizzazioni ed assoluti, specialmente per quanto riguarda i rapporti affettivi: “quella giusta”, “il vero amore”, “alle donne piacciono solo gli stronzi/palestrati/ricchi ecc.”, “per una donna è sempre più facile”;
- La sensazione di essere in perenne guerra con il mondo intero e di vivere la realtà esterna come invariabilmente ostile;
- Un atteggiamento giudicante (“non io sono io ad essere inadatto, è il mondo ad essere sbagliato per me. Che siano gli altri a cambiare”) unito ad una serie di strategie per evitare accuratamente tutte le situazioni in cui potrebbe verificarsi un contatto, che magari potrebbe smentire clamorosamente le mie idee;
- Una selezione accuratissima degli esempi che offre la realtà: le evidenze coerenti con il mio modello vengono trasformate in generalizzazioni con valori universali (“tutte le donne sono delle stronze isteriche), mentre le prove contrarie vengono ignorate, o svilite: sono mistificazioni, imbrogli, menzogne gratuite o comunque favole irritanti.
Su un lungo periodo tutto si svolgeva come la ripetizione immutabile di un ciclo perverso:
1) Situazione grigia, scandita da disinteresse per il mondo, distacco dalla realtà, concentrazione su attività di routine in cui eccellevo, solitudine, introspezione. Relativo equilibrio basato su un atteggiamento auto consolatorio, scandito da frasi del tipo “Beh, in fondo non va tanto male” “Si può vivere bene anche così”.
2) Fiammata di orgoglio e di fierezza, accompagnata dalla ferma volontà di dare una svolta alla vita e di agguantare finalmente quei risultati sempre sfuggiti di mano. Era il momento costellato da frasi del tipo “voglio!”, “posso!”, “anch’io!”, “ce la posso fare!”.
3) Tentativi di azione goffi e maldestri, poco convinti, di solito rovinati dall’inesperienza, e relativo contorno di brutte figure vissute come umiliazioni esistenziali;
4) Fase di rimuginamento scandita da pensieri del tipo “Ecco, l’ennesima prova” , “tento sempre ma non ci riesco mai”, “va sempre a finire così” e ritorno al punti 1 con la coda fra le gambe, questa volta però con aspettative ancora più basse e una rassegnazione più cocente.
Quando meditavo queste situazioni ero letteralmente ossessionato dalla ciclicità. La vita mi riproponeva eternamente le stesse esperienze come una punizione. “Che altre prove vuoi?” pensavo in quei giorni, “rassegnati, non sei venuto al mondo per sperimentare l’amore e la dolcezza”. Semmai, bisogna trovare il modo di conviverci senza troppo dolore, attenuando l’angoscia della solitudine e cercando almeno di renderla sopportabile. Tanto vale restare ai margini, guardare gli altri, struggersi nella rabbia, trovare soddisfazioni alternative (ma quali e a che prezzo?) ma soprattutto macerarsi nell’invidia bruciante. Lascio a voi immaginare quale fosse l’opinione che avevo di me stesso, in quale modo vedessi il mio futuro e quali cupi progetti avessi il mio avvenire.
Il punto di svolta risale a circa un anno e mezzo fa, quando la sofferenza emotiva era diventata così forte da farmi riconoscere come la situazione mi sia ormai sfuggita di mano, e che il disagio fosse ormai incontrollabile. Un giorno, girando con la moto, attraversai un ponte bellissimo che scavalcava un torrente montano, con l’acqua a pena visibile decine e decine di metri più in basso. Intorno, pace, silenzio e faggete a perdita d’occhio. Questo sarebbe proprio il posto adatto, pensai fra me: tre, quattro secondi al massimo, poi tutto finito.
Trascorse circa un minuto, per strada non passava nessuno. Guardai il cielo, poi mollai la frizione e diedi gas. La settimana dopo fissavo il mio primo appuntamento.
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Avevo, lo ammetto, delle aspettative piuttosto realistiche: non mi aspettavo miracoli, ma avevo semplicemente bisogno di qualcosa che riuscisse a tenere sotto controllo l’angoscia, soffocasse il dolore, mi facesse dimenticare i miei insuccessi in modo da rendermi possibile un vita più o meno normale. In altre parole avevo finito per accettare l’infelicità: chiedevo soltanto un aiuto esterno per renderla tollerabile. L’inizio fu del tutto casuale, le Pagine Gialle del mio paesino davano due soli indirizzi. Sotto il primo c’era scritto “psicologo e psicoterapeuta”. Bene. Un nome di donna. Molto bene. Ho telefonato.
Le sedute erano la cosa più prosaica che esistesse al mondo: un piccolo ambiente molto tranquillo, arredato in modo molto semplice ed essenziale,senza niente che possa incutere soggezione. Se non ci fosse stata la laurea appesa al muro, poteva sembrare la stanza di una studentessa.
La prima seduta serve in genere per conoscersi e per concordare assieme un obiettivo, che viene formulato di comune accordo in modo semplice, chiaro e positivo. Poi si svolge tutto come una semplice chiacchierata, due persone sedute su due normalissime sedie. Il linguaggio è semplice e piano, rassicurante. Vieni invitato a parlare liberamente senza nessun confine: il terapeuta non fa quasi nulla. Non ti indirizza, non ti consiglia, ma soprattutto non giudica, non ti impone soluzioni né si intromette in alcun modo nelle tue scelte o sul modo di condurre la tua vita. Il suo scopo è solo guidare il tuo desiderio di cambiamento nella direzione più opportuna, nel modo più efficace, incisivo e veloce. Metaforicamente, puoi immaginarlo come una persona che ti aiuta su un percorso accidentato, stando però sempre alla tue spalle. La direzione la decidi sempre tu, lui si limita a spingerti in avanti ed è sempre pronto a tenerti se cadi. Per questo motivo la motivazione è essenziale: se non sei tu a volere intensamente qualcosa, non accadrà nulla.
L’approccio che abbiamo seguito è detto terapia cognitiva-comportamentale. Niente farmaci.
Per la parte “cognitiva”, il terapista si limita a porti delle domande ogni tanto, a farti osservare dei fatti che gli hai esposto tu stesso, oppure a suggerirti delle riflessioni invitandoti a vedere i fatti sotto un prospettiva diversa: la sua abilità sta proprio scegliere il momento più adatti per darti questi input. Tali situazioni vengono accolti di solito con enorme stupore e sorpresa, si ha quasi la sensazione di sentire una specie di “click” interno, come se un tassello andasse a posto e si incastrasse perfettamente con gli altri. Momento dopo momento si costruisce il cambiamento fino alla trasformazione definitiva.
Per la parte “comportamentale”, egli può lasciarti di solito dei “compiti per casa”, invitandoti ad esempio a tenere un diario, a mettere per iscritto alcune riflessioni oppure suggerirti un tema su cui riflettere da solo. In questo caso, il suo ruolo è simile a quello di medico dello sport: prima inizia a muoverti lentamente l’articolazione bloccata, poi ti spinge a tentare movimenti sempre più ampi stando pronto a sorreggerti, poi ti invita a camminare ed infine a correre e saltare. A volte verrai invitato a cimentarti con delle piccole o anche piccolissime sfide, che poi discuterai alle seduta successiva. Quando vedrai che la cosa funziona (ad esempio perché hai avvicinato una che ti piaceva e la terra non si è aperta per inghiottirti) si sfrutta l’onda emotiva del successo per immaginare una prova più stuzzicante e così via. Se invece non funziona, si discute insieme, si comprende cos’è andato storto e si affinano gradualmente delle capacità che torneranno utili poi. In questa veste, il terapista somiglia quasi ad un allenatore: ti motiva, ti spinge a tentare, segue i tuoi progressi ecc.
Altre parte della terapia avevano invece un percorso più classico, ed erano ad esempio bastati sul racconto dei sogni o sulla ricostruzione di esperienze traumatiche o di fatti della prima infanzia. Il classico “Mi parli dei suoi genitori” che fa quasi parte dell’immaginario collettivo
Possono essere anche suggerite delle attività esterne. Io ad esempio, mi sono dedicato alla danza scoprendo un mondo di una bellezza indicibile. Si è trattato di una scelta azzeccata, anche perché ho trovato un tipo che si basa essenzialmente sull’espressività, la spontaneità, l’improvvisazione e la comunicazione non verbale. I vantaggi sono stati enormi: per riuscire a riprodurre quell’eleganza e quel sentimento che ammiravo nei maestri ero costretto al far 'tacere' temporaneamente la parte razionale del cervello: per la prima volta riuscivo a bloccare l'inarrestabile e rapidissima elaborazione di pensieri razionali, un tratto che costituiva una parte non piccola della mia vita interiore. Questo 'silenzio' ha lasciato così emergere dei lati di me che erano stati lungamente e violentemente compressi, portando alla luce spontaneità e naturalezza. Questo mi ha poi aiutato a spostare l’equilibrio da
analizzare (con la mente razionale) a
sentire (con la mente emotiva), tutte qualità che hanno sostenuto validamente la terapia e che poi mi sono tornate utilissime al momento buono.
La danza di coppia presuppone inoltre un contatto molto intimo. In questo modo sono riuscito ad abituarmi a poco a poco all’idea di toccare una donna e ed essere toccato, affinando molto anche le capacità di comunicazione non verbale. Un po’ alla volta capivo se era rilassata oppure no, semplicemente ‘ascoltando’ la sua fisicità. Fu una bella rivelazione capire che il corpo serviva a qualcosa di diverso che portare a spasso il mio cervello.
Scoprii come la musica mi aiutava a controllare la respirazione e migliorare il controllo dei miei movimenti, e di come riuscissi un poco alla volta a svuotare il cervello, bloccando per la prima volta dopo decenni il circuito dell’ansia. Forse per la prima volta nella vita, gustai la spontaneità libera di un sentire naturale e gioioso. Non c'era più il bisogno di spiegare, razionalizzare e spiegare tutto con la mente analitica, un aspetto che prima di allora avvelenava anche le emozioni più belle. Non è un caso: mi fu spiegato che c’è una sorprendente affinità fra l’espressività della danza e l’anticamera della meditazione o del training autogeno, tutte attività che si basano sul rapporto mente–corpo.
Ero imbranato all’inizio? Nessun problema, alla prima lezione eravamo tutti imbranati uguali, e la mia goffaggine si mimetizzava perfettamente con quella degli altri. Molto rassicurante e persino divertente. Il tutto si svolge in una cornice di allegria e socialità, che mi ha fatto immediatamente conoscere persone nuove.
Ma questa è una storia diversa, che ho raccontato qui:
http://www.fobiasociale.com/postx9539-0-0.html
La scoperta più sconvolgente durante il lavoro di trasformazione personale (sconvolgente non è aggettivo metaforico, credetemi) è stato proprio questa: per anni avevo vissuto in un prigione creata da me stesso. Le mie migliori energie erano state impiegato per autogiustificarmi e per indorare le sbarre, ovvero mettere in atto una serie di mistificazioni e bugie psicologiche per concludere che - in fondo - va bene così. La situazione era oggettivamente negativa, non dava nessun vantaggio concreto, eppure avevo creato un raffinato autoinganno per renderla accettabile e sopportabile.
Vi faccio notare l’enorme tornaconto psicologico di questa situazione, perché ci autorizza a sentirci contemporaneamente eroi e vittime. E’ infatti così gratificante sentirsi vittima, permette di trasformarsi nel povero innocente oppresso dalle circostanze estere (la società, la famiglia, gli altri, la scuola i colleghi) permettendo di scaricare comodamente su di loro le colpe. Addirittura rende possibile giocare all’ accusatore, magari puntando il dito contro tutti coloro che riteniamo colpevoli della nostra sfortuna, ad esempio perché non riconoscono la nostra delicata sensibilità, la nostra raffinata intelligenza oppure la nostra profonda cultura. Con un capolavoro finale di bugie e di autoinganni si riesce addirittura a trasformare le nostre fughe in atti eroici, confermando così la nostra bella immagine di eroi sfortunati. Tutte balle. La conclusione a cui sono arrivato è molto più dura ed aspra, ma allo stesso tempo luminosamente bella perché presuppone libertà, coraggio e responsabilità individuale. Ve la virgoletto tutta, poiché esce pari pari dal mio diario:
“Io sono il primo responsabile della mia felicità. Entro limiti realistici, ho il potere di fare ed essere quello che desidero”
Non è facile, anche perché più le cose sono desiderabili più richiedono impegno, determinazione, coraggio e sacrificio per essere raggiunte. Conoscete Sciascia? “Soltanto le cose che si pagano sono vere, che si pagano a prezzo di intelligenza e di dolore”. Detta in altro modo, la terapia è la costruzione di un etica della responsabilità di tipo adulto: anche quando la colpa è
oggettivamente degli altri (ed io ho
oggettivamente subito una violenza sfondo sessuale da piccolo) non sono determinato come un animale ma posso scegliere la mia strada verso la libertà e la realizzazione personale.
Il tutto si basa su un principio generale, che è il vero pilastro del lavoro di trasformazione. Il passato è immodificabile, mentre alcuni fattori sono governati completamente dal caso (mi cade un vaso di fiori in testa, un pazzo mi taglia la strada con il TIR) oppure dipendono da cose su cui non ho il minimo controllo (una crisi economica, la mia azienda decide una riduzione di personale).
Inutile e dannoso concentrarsi su questi aspetti: a seconda dei casi è fatica sprecata oppure lotta contro i mulini a vento. L’approccio più produttivo e dedicare tutte le energie a come si
reagisce agli eventi (questo si che in mio potere!), o a come
agire affinché le cose che desidero accadano. Questo è un approccio efficace, poiché presuppone l’azione e non l’autocommiserazione sterile. Posso cioè scegliere se piangermi addosso o cercare una soluzione, o meglio ancora darmi da fare. Compresi questo quando ero a circa un quinto della terapia, e sul mio diario scrissi una frase che sintetizzava il mio impegno:
“Con volontà e piena coscienza, scelgo di essere
più forte del mio destino”.
Li per li mi sembrò poco più che un buon proposito, una frase sì bella, ma fin troppo pretenziosa ed anche un pelo sopra le righe. Esitai a scriverla, ma alla fine restò li. Il futuro mi avrebbe dato ragione.
Finché aspettavo un aiuto esterno come un uccellino con il becco spalancato, nulla ha portato dei risultati. Quando ho capito che dovevo lavorare prima di tutto su me stesso, la situazione si è ribaltata. Non solo le occasioni mi si presentano da sole, a volte senza nemmeno che io muova un dito, ma riesco a sperimentare una gioia, una profondità ed un intimità dolcissima anche da rapporti semplicissimi e normali, come una semplice amicizia, dei rapporti artistici e così, fino a semi sconosciuti incontrati per caso.
Fuor di metafora: un tempo, pensavo che quando avrei avuto una vita sentimentale felice sarei stato trasfigurato e ‘guarito’ dall’amore, ora, dopo il lavoro di crescita personale, ho più occasioni di quante non ne avessi mai sognate. L’equilibrio, la serenità, la calda umanità, la pienezza della personalità e l’armonia del carattere sono qualità estremamente desiderabili, con cui compenso a meraviglia un aspetto fisico del tutto ordinario.
Il proseguimento della terapia è costellato da una serie di scoperte su sé stessi, spesso accolte con un incredibile stupore. Ogni scoperta porta con sé una serie trasformazioni personali che prese singolarmente sono minime, ma uno dopo l’altra costruiscono un cambiamento solido e duraturo.
E’ come se ci fosse stato un castello di bugie, di inganni e di maschere, una prigione che ogni persona ha costruito con le sue stesse mani seppellendosi viva dentro. L’abilità del terapista sta proprio nel trovare la pietra angolare sui cui si fonda tutta questa costruzione aberrante, e di farla delicatamente traballare, ad esempio ponendo la domanda giusta al momento opportuno. Poi basta una spintarella e crolla tutto. Le nostre idee (modelli, schemi, associazioni mentali) sono infatti alla base dei nostri atteggiamenti. L’atteggiamento crea l’azione, l’azione crea i risultati che noi desideriamo. E’ evidente che se il primo anello della catena non funziona, tutto il resto rimane sterile. Il terapista lavora proprio sulle idee, “disinnescando” le associazione che vi stanno alla base. Fatto questo, tutto il resto segue a ruota.
La terapia segue proprio questa sequenza. Dapprima si fa pulizia di scorie inutili, identificando tutte le idee disfunzionali ed eliminandole una dopo l’altra, poi, un po’ alla volta, si sostituiscono con idee produttive e positive, mettendole alla prova di fatti. Man mano che passa il tempo si crea una base solida, su cui si comincia a costruire, ma questa volta con un progetto più ambizioso e su una scala più grande. Arriva poi un periodo in cui l’impegno diminuisce e ci si confronta un po’ più blandamente (io lo chiamavo scherzosamente “fare i tagliandi”) con l’intento di rendere la trasformazione stabile e solida. Alla fine, con la più perfetta tranquillità, i legami vengono allentati ed infine tagliati del tutto. Con serenità e gioia ci si saluta definitivamente e si inizia a cavarsela da soli. Non si è ricevuto un pesce, si è imparato a pescare.
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Mesi dopo sono convinto di aver preso la decisione più azzeccata della mia vita e sono pronto a sottoscrivere che mai denaro fu meglio speso. Non sto parlando di un miglioramento, ma di un capovolgimento totale, solido e stabile.
Sembra quasi paradossale, ma le conoscenze più recenti (quelle cioè che non avevano mai percepito la mia condizione precedente) mi descrivono come una persona disinvolta e brillante, tanto che possiedo ormai la nomea di un uomo forte e sicuro di sé che “si butta” con disinvoltura in ogni situazione. “Ma come fai?, Come riesci?, “Vorrei essere come te?” sono le cose che mi sento dire più di frequente dagli uomini e potete immaginare bene la gioia e la soddisfazione con cui mi godo queste situazioni. Ho scoperto la gioia di sentirsi descrivere come una persona spontanea, allegra e solare, e non c’è davvero bisogno di molto sforzo per capire quale incredibile vantaggio possano costituire questi aspetti nelle relazioni personali.
Certo, sono una persona di aspetto assai ordinario e mi considero tutto fuorché un seduttore incallito. La mia vita si è però arricchita di un calore e di un’ intensità che non speravo mai di sperimentare, e che fino a qual punto avevo solo cercato vagamente di immaginare.
Ascoltare il respiro di un’altra persona, sentire il profumo morbido della sua pelle, ma anche la sensazione di passare le mani fra i capelli di lei o sfiorare con la punta delle dita il solco morbido fra i seni erano sensazione più immaginate che vissute. Pensate soltanto a cosa possa voler dire la scoperta di una nuova vita: pic-nic con la moto distesi sul prato, cenette a due in qualche bel locale, percepire per la prima volta di essere desiderati, ricevere SMS dolci e affettuosi come bacio speciale della buonanotte ed il resto non ve lo racconto, tanto ve lo immaginate da soli.
La sorpresa gioca anche a livelli forse più terra terra, anche per la novità di poter vivere in prima persona delle situazioni che avevo soltanto osservato con invidia negli altri. Ricordo con emozione la prima volta che ho avvicinato con decisione una donna che era in compagnia di un altro uomo (una relazione artistica, non sono il tipo che ci prova con tutte) ho percepito negli occhi di lui la paura del confronto e l’ho visto farsi da parte senza nemmeno che gli dicessi una parola. Ricordo il piacere quando ho compreso che avevo detto “no grazie” ad una che si stava diventando troppo insistente (!), come pure la soddisfazione di percepire le prime manifestazioni di gelosia (“Dai non ci credo che tu sia stato sfortunato in amore! Secondo me tutte le donne ti hanno sempre corso dietro”).
Da qui altre soddisfazioni, altri piccoli traguardi raggiunti. Sapete bene quanto sia facile abbassare il tiro, accontentarsi di poco, dire che tanto quelle belle ed affascinanti se le prendono gli altri e che nel futuro – se va bene – ci sarà soltanto una bruttona inguardabile con un carattere impossibile, quella cioè che nessuno ha mai voluto. Ecco, immaginate ora la sensazione di aspettarla sotto casa, o il piacere di camminare accanto a lei sentendo gli sguardi di ammirazione e di invidia degli altri, magari ascoltando compiaciuto il rumore svelto che fanno i suoi piedini inarcati dai tacchi a spillo, ovviamente belli alti proprio come piacciono a me.
Ecco qui, questa in sintesi la mia nuova vita. Aggiungo solo che non è stato propriamente una trasformazione, semmai un integrazione. Nuove abilità, nuovi aspetti del carattere si sono semplicemente aggiunti e fusi ai precedenti. Non si diventa cioè persone diverse, bensì persone migliori, tanto nella terapia si parla di crescita, di evoluzione e di sviluppo. Le caratteristiche che avevo affinato lungo il tempo sono rimaste esattamente dov’erano ed hanno finito per
integrarsi in un insieme molto armonico con un minimo di cambiamenti. La sensibilità è diventata capacità di ascoltare gli altri, l’introspezione si è trasformata in empatia, e addirittura la timidezza –
si proprio quella – è sbocciata in dolcezza e rispetto. Riuscite soltanto ad immaginare le mie emozioni quando una donna mi sussurra nell’orecchio “Oh, che carezze delicate!”, “Tu si che sai aspettare i miei tempi, com’è bello essere toccata da un uomo così attento”. Già, se sapesse da dove vengono fuori… Un po’ come se per lunghi anni avessi accumulato un tesoretto di sensibilità e buoni sentimenti, e che da un giorno all’altro l’abbia monetizzato portando tutto all’incasso.
Questo non significa che io abbia cambiato pelle, e che in particolare tratti le donne come oggetti pensando solo al mio esclusivo interesse. Penso che l’intimità fisica è una componente perfettamente naturale della vita, bisogna assaporarla con felicità quanto arriva, ma non cercarla ad ogni costo, magari in un contesto da “una botta e via”. Rimane una bella differenza fra il grufolare sul sedile di una macchina parcheggiata dietro una discoteca, galoppando con una persona di cui domani non si ricorderà nemmeno il nome, oppure essere anche solo vicini, sentire che lei sta cercando il tuo contatto e sentirti bisbigliare qualcosa come: “fra le tua braccia mi sento sicura e protetta…”
Il regalo più bello che ho ricevuto da questa esperienza è proprio questo: “libertà dalla paura”. Poi, ovviamente, lasciate le catene ognuno fa semplicemente quello che più lo rende felice, lo realizza o lo fa sentire meglio, senza che esista una soluzione che sia giusta a priori o più meritoria del punto etico. E’ come possedere finalmente un automobile: l’importante è saltarci su e andare, poi ognuno prende la strada che gli pare. Questa trasformazione ha aggiunto un filo di ‘cattivera’ alla mia personalità. Nulla di cui vergognarsi, beninteso, ma la consapevolezza che la distanza fra i miei desideri e la loro realizzazione possa essere deliziosamente breve. Se qualcosa mi piace (ed ho la possibilità di averla rimanendo nei limiti della morale) semplicemente me la prendo e me la gusto. Verso la fine, quando ormai cominciavo a intravedere i risultati, il mondo si è improvvisamente popolato di occasioni, di opportunità e di possibilità che in certi casi andavano addirittura al di la dei miei sogni.
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Non è tutto oro quel che splende e vi metto in guardia su alcune cose:
- Possedere questi lati del carattere non è un passaporto automatico per la felicità negli affetti. In altre parole, sulla vostra rubrica del cellulare possono aggiungere anche 4-5 nuovi nomi femminili alla settimana, ma nulla vi garantisce che fra queste ci sia automaticamente quella giusta. Fra di esse si nascondono la frustrata, l’insopportabile querula quella con un caratteraccio odioso, più il solito corredo di false, ciniche e manipolatrici. Posso dire di aver avuto la mia bella serie di delusioni, arrabbiature, sconfitte che ho però imparato ad accogliere con serenità.
- La terapia è maledettamente costosa. Non in termini monetari, anche se in genere i prezzi non scherzano, ma soprattutto in termini di motivazioni e impegno personali. Non aspettativi bacchette magiche e vi avviso subito che non si tratta di rose e fiori. Se non siete disposti a cambiare ed a mettere tutto in discussione non incominciate nemmeno. Ancora adesso ricordo la sensazione di avere le ginocchia di gelatina dopo qualche seduta particolarmente intensa: sarete faccia a faccia con i vostri peggiori demoni. Il momento peggiore è verso i tre quarti della terapia, quando sono state spazzate via le incrostazioni e si comincia a intuire il risultato, dove cioè si comprende che ormai nulla ci impedisce di agire per trasformare in realtà quegli stessi desideri che solo la settimana prima sembravano confinati nel mondo dei sogni e delle fantasie. In quel momento si prova una paura fortissima, poiché tutti noi ci siamo crogiolati per anni in uno sterile autocompiacimento della propria condizione, magari attribuendoci la veste di eroe sfortunato o giocando con il ruolo di vittima infelice del destino. Abbandonare questi modelli (che paradossalmente sono confortevoli, protettivi e rassicuranti) non è sempre semplice poiché costringe a prendere il mano la propria vita riconoscendo di essere gli artefici del proprio destino. E’ un momento difficile e spesso accade di interrompere la terapia sopraffatti dalla paura: questa nuova condizione di responsabilità ha un aspetto angoscioso perché costringe a muoversi su un sentiero che è allo stesso tempo allettante ed infido. Ricordo che all’epoca visualizzavo questo cambiamento come una luce calda e accecante, che allo stesso tempo desideravo e temevo. Se si supera quel momento, poi è tutto in discesa.
Sapete quando ho avuto la scossa per galoppare sul serio? Ci fu una seduta in cui presi coscienza della quantità enorme di tempo, energie, lavorio mentale, risorse, intelligenza che venivano utilizzati per creare mistificazioni, bugie, auto inganni sempre più raffinati, e quindi erano sostanzialmente sprecati. Mi chiesi allora: cosa accadrebbe se questa enorme quantità di risorse fosse
indirizzata invece ad uno scopo costruttivo, impiegata ad esempio per trovare la mia felicità e raggiungere i miei sogni? Quella notte non dormii.
- Se vedete il terapista come una figura salvifica, una specie di mago che in modo indolore vi tira fuori dai vostri guai allora avete sbagliato strada. Anche se non ve ne accorgerete, sarete voi stessi a farlo, sfruttando forze che non sospettavate nemmeno di possedere. Per questo la terapia ha anche un aspetto appassionante, qualcosa che ha a che con una virile sfida. Ricordate sempre che il lavoro di trasformazione non lo fa lui, lo fate voi stessi da soli benché sotto la sua guida. Alla fine il lavoro avrete condiviso il tempo e l’impegno, ma il merito sarà in massima parte vostro.
Quanto conta la persona? Direi 50-50. Se non riuscite a fidarvi, se non c’è comunicazione, se percepite che non riuscite ad entrare in sintonia, se non riuscite a vederlo come un alleato allora non c’è nulla da fare. Il rapporto terapeutico non inizierà mai e saranno solo chiacchiere costose. Salutatelo civilmente e trovatene un altro. D’altro canto, potreste benissimo essere davanti alla persona più brava della terra, ma se non siete seriamente motivati o scappate alla prima difficoltà sono soldi buttati. Per la mia esperienza è stato bellissimo avere una terapista donna, non solo per lavorare con una figura più protettiva, materna e rassicurante ma anche per l’abilità con cui mia alleata decifrava reazioni e comportamenti femminili che per me erano fino ad allora incomprensibili. Un po’ avere dalla mia parte una simpatica “spia” che conosceva tutti i trucchi ed i segreti del campo nemico
- Non vado in giro con il sorriso stampato sulle labbra, né ho trovato la bacchetta magica per risolvere ogni difficoltà. Ho le mie giornate storte, i miei momenti di sconforto, le mia paure e le mie ansie, il che vuol dire che non riesco automaticamente a muovermi nel mondo con il trasporto di una divisione panzer. A volte mi sento ancora brutto, goffo, inguardabile, fragile e timido, ma sono emozioni transitorie che ormai fanno parte di una normale dinamica dei sentimenti. Posso radermi la mattina e trovarmi ridicolo, ma risolvo la questione facendomi le boccacce allo specchio; sono un po’ a disagio se gli altri mi osservano scrivere a mano tanto che di solito mi compilo i bollettini postali al PC così allo sportello devo solo consegnarli, ma tutto sommato è una cosa più divertente che drammatica. Anche quando ho deciso di dichiararmi ad una donna (ma dichiararmi davvero, guardandola negli occhi e parlandole di tutti i miei sentimenti e delle mie emozioni) mi sentivo come uno scolaretto di fronte ad un professore burbero, ed nelle prime frasi avevo le palme sudate e la voce impastata. Figuratevi poi – eravamo in un posto pubblico… La sera dopo, però, avevo la sua testa abbandonata sul mio petto mentre lei mi sussurrava piano “com’è bello sentir battere il tuo cuore…”
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Siamo alla fine. Non ho scritto queste righe (righe, vabbé si fa per dire…) con l’intenzione di vantarmi né con il desiderio di accrescere la mia gioia per contrasto con l’infelicità altrui. Spero solo – e lo dico con tutto il cuore - che la mia testimonianza possa spingere qualcuno a fare il passo nella direzione giusta ed ha sperimentare quelle gioie a cui ogni persona ha diritto. Sarebbe valsa la pena di scrivere e di raccontare.
La cosa che mi sembra più importante da sottolineare è questa. Non ci sono ricette facili, né soluzioni valide per tutte le situazioni e tutte le persone. Non ho la bacchetta magica, né posso garantire che quello che ha funzionato per me possa funzionare ugualmente bene per gli altri: l’idea di un aiuto esterno, il tipo particolare di terapia o qualsiasi altro dettaglio. Il senso ultimo del mio messaggio è questo:
in qualsiasi situazione, la peggior cosa che possiate fare è non fare nulla, rassegnarsi alle circostanze, abbandonare la lotta, dicendo magari che le difficoltà sono insuperabili .
Semplicemente, vi porto la mia testimonianza, sperando che non la consideriate un fatto incredibile, bensì il risultato di un duro lavoro e quindi una possibile fonte di ispirazione.
Io stesso ritenevo che era troppo tardi, che ero ormai ‘fuori tempo massimo’, che la vita era ormai segnata, che ogni tentativo sarebbe stato voluttuario e fatalmente destinato all’insuccesso, e quindi fonte di rabbia e frustrazioni ulteriori. Eppure ho scoperto che nella vita c’è una tale capacità di rinnovamento e di rinascita da sconcertare anche gli animi più induriti e disincantati. Ve lo ricordate “quel” ponte? Ci sono tornato, ma eravamo in due, con il motore che andava piano e lei che mi sussurrava parole dolci… Già, proprio come avevo scritto nel diario un anno prima: “
più forte del destino” Il cerchio si era chiuso.
Ecco tutto. Come si condividono le esperienze negative per trovare conforto e sostegno, così è giusto condividere quelle luminose per dare ispirazione, speranza e stimoli. Nel mio passato ci sono state delle persone che mi hanno spinto ad agire e fare qualcosa, persone che hanno preso a cuore il mio stato e mi hanno indirizzato verso la giusta soluzione. Oggi, riconosco serenamente di aver ricevuto del bene in modo disinteressato, e quindi sento il dovere morale di comunicarlo agli altri. In altre parole, se volete un metafora poetica, sto semplicemente pareggiando i conti con la vita.
Felicità a tutti,
c.k.
Poscritto
Prima di iniziare la terapia ho dovuto superare diverse resistenze interne molto forti. Le descrivo qui di seguito sperando che siano utili a qualcuno, aggiungendo anche delle riflessioni alla luce di quello che è successo dopo.
A) Non mi va di raccontare i fatti miei ad un estraneo. Ci sono cose talmente imbarazzanti e delicate che non sanno nemmeno gli amici più cari ed i parenti più stretti, perché mai dovrei dirle ad una persona che nemmeno conosco?
Paradossalmente, proprio perché si tratta di un estraneo. Egli infatti non è minimamente coinvolto nella vostra vicenda personale, quindi agisce come una parte neutra. Parenti ed amici possono invece avere la tentazione di parlarne ad altri, nel caso migliore per scaricarsi un peso emotivo condividendolo con altri, nel caso peggiore, per malignità, vendetta o ripicca. Sembra incredibile, ma buona parte della mia attuale serenità è legato a questa sicurezza.
Vi siete mai chiesto perché la gente confida ai tassisti delle cose di sé che non direbbe al proprio migliore amico? Perché si tratta di due perfetti estranei, che non si rivedranno mai più. Con me la stessa cosa: non ci conoscevamo prima, né conosce qualcuno dei miei familiari, sono stato un paziente come tanti altri, e perlopiù è legato al segreto professionale. Cosa voglio di più?
Ho sempre pensato al terapista come ad una specie di avvocato: se voglio avere successo devo dargli tutti gli elementi possibili affinché possa far bene il suo lavoro. Come posso sperare di vincere la causa se non è conoscenza di tutto? Nel mio caso pensavo la stessa cosa: sapevo bene che era imbarazzante ed a volte addirittura penoso, ma ero consapevole che più cose riuscivo a tirare fuori, più la terapia sarebbe andata veloce e più i risultati durevoli. Certo, tutto va fatto con estremo buon senso: non gli ho raccontato tutto subito e c’è stata una gradualità man mano che il nostro rapporto diventava più solido.
B) Nessuno può conoscermi meglio di me stesso. Anche nella migliore delle ipotesi, il terapista non potrà mai dirmi nulla di più di quanto io già non sappia.
Apparentemente si tratta di una tautologia, di una verità così auto-evidente da non dover nemmeno essere dimostrata. In realtà, l’azione del terapista è così straordinariamente efficace proprio perché egli è ‘altro da me’: non è coinvolto nelle vicende, e pertanto vede le cose dall’esterno, con serenità, distacco e disincantata obiettività. Le esperienze più forti durante la terapia non sono state la scoperta di complesse ed ingarbugliate verità nascoste, semmai la sorpresa nel constatare come elementi essenziali per il mio benessere fossero stati letteralmente davanti agli occhi per anni e anni, senza che io riuscissi ad afferrarli. La mia esclamazione tipica era questa “Certo, è verissimo! Ma come ho fatto a non capirlo, è talmente evidente!” La mente umana, mi fu spiegato in seguito, ha un’abilità straordinaria nel fare l’imbonitrice di sé stessa, ovvero nel creare raffinatissimi autoinganni pur di non vedere delle verità scomode e disturbanti, ancorché evidentissime.
Ancora un elemento. Vi siete mai chiesti perché gli altri sono “pignoli” ma noi siamo “perfezionisti”, perché gli altri sono “mangioni” ma noi invece dei “buongustai”? La risposta è semplice: ognuno è un pessimo valutatore di sé stesso proprio perché si tratta di un percorso sostanzialmente autoreferenziale, in cui valutatore e valutato coincidono. Che garanzia di obiettività c’è in tutto questo? Tanta quanta nel darsi i voti da soli agli esami, cioè assai poca.
Riflettere da soli su sé stessi può portare a dei risultati, ma molto spesso non conduce da nessuna parte. Il dialogo, la parola, il confronto con una persona viva produce invece risultati molto più incisivi perché un punto di vista esterno può risultare illuminante, proprio in quanto ‘esterno da se’, non necessariamente migliore o superiore.
A volte durante la terapia esponevo con impegno le mie convinzioni, magari usando tutta la mia abilità argomentativa per risultare persuasivo. Al termine della mia esposizione, mi sentivo dire qualcosa del genere: “Dunque, lei in sostanza afferma che …” a cui seguiva una concisa perifrasi di quel che avevo detto. Nove volte su dieci l’effetto era sconcertante: sentire gli stessi concetti riformulati da una persona esterna aveva un effetto di smascheramento, ovvero ne coglievo all’improvviso la natura assurda, cervellotica, controproducente, o addirittura masochistica. Eppure erano idee sui cu mi ero soffermato per anni, rimeditandole continuamente fino ad essere convinto di aver scoperto verità assolute e inattaccabili. Seguiva un effetto gioiosamente liberatorio: “Come sono stato così stupido!” Click. Un altro scatto e un passo avanti verso la meta.
Con il senno di poi, vedo le cose in una prospettiva diversa. Negli anni passati avevo tentato moltissime molte di risolvere il problema da solo, ma solo dopo aver concluso la terapia ho capito con assoluta chiarezza perché non ci fossi mai riuscito, e questo nonostante sforzi accaniti e tutta la mia più buona volontà che ho profuso nell’arco di anni ed anni. Inoltre, ero sconcertato dal fatto che il mio problema fosse diventato
cronico, ovvero dopo un po’tornassi infallibilmente nella stessa identica situazione di prima.
Quando cercavo di farcela da solo, mi concentravo sulle
manifestazioni esteriori del problema, ad esempio mi costringevo ad espormi buttandomi nelle situazioni sociali o mi imponevo di frequentare nuovi giri di amicizie; con la terapia ho invece lavorato sulle
cause del problema, quindi la soluzione è stata definitiva e perlopiù si è conclusa con un’acquisizione ‘strutturale’ di nuove abilità. Come in medicina, c’è un’enorme differenza fra curare i sintomi (ad esempio prendere un antidolorifico) o concentrarsi sulla causa del male. Se ripenso alla mia peronalissima esperienza, dire "sono inibito e devo assolutamente sforzarmi di uscire" mi sembra oggi come avere una spina nel piede e prendere un'aspirina. Più realistico scoprire le cause ed eliminarle una volta per sempre.
C) Sono una persona intelligente, capace e profonda. Devo farcela da solo, utilizzando solo le mie forze.
Vedi il punto precedente. Ma qui voglio aggiungere un'altra cosa: la maggior parte di noi mangia per mezzo di denti che sono stati otturati, devitalizzati o addirittura – come me - sostituiti da copie di porcellana: eppure a nessuno viene in mente di estrarsi un molare utilizzando lo schiaccianoci, né si sente umanamente menomato perché non è stato capace di curarsi un ascesso da solo. Semplicemente, a secondo del tipo di problema ci si rivolge allo specialista più capace, che usa gli strumenti ed i metodi più efficaci. Punto e basta.
Era un’obiezione molto forte, anche perché fin dall’infanzia ero abituato all’idea di possedere una mente di prim’ordine, con delle raffinatissime capacità analitiche. Alla fine utilizzai un approccio il più semplice e pragmatico possibile, dicendo a me stesso che la cosa più ragionevole era semplicemente quella di tentare, di fare qualcosa:
- Se agisco e la cosa funziona, avrò dei benefici che possono andare al di là della mia immaginazione, quindi sostanzialmente ho tutto da guadagnare e nulla da perdere;
- Se agisco e non accade nulla, avrò sprecato del tempo e buttato via del denaro, ma per fortuna non dovrò raccontarlo in piazza e perlomeno saprò come
non si risolve il mio problema;
- Se invece non faccio nulla, ho sostanzialmente tutto perdere perché le cose resteranno così come sono. Infatti è irrealistico pensare di ottenere nuovi risultati continuando a fare quello che si è sempre fatto, e l’idea di ottenere una trasformazione miracolistica senza fare nulla è del tutto improbabile.
In altre parole, avevo di fronte a me il bivio: la
possibilità di essere felice e la
certezza quasi assoluta di consumare la vita nel dolore e nell’infelicità. Mi convinsi con la statistica. Ha funzionato.
D) Mi legherò ad una persona che introdurrà una regia occulta nella mia vita, rinunciando così alla mia autonomia ed alla mia libertà di giudizio.
Si va dal terapista non per mettere in discussione tutta la propria
esistenza, bensì per rimuovere degli ostacoli che impediscono la propria realizzazione personale, che è una cosa ben diversa. Non ci si ‘sposa’ con lui, né gli si consegna una cambiale in bianco, o tantomeno un’ipoteca sul proprio futuro: i professionisti più seri utilizzano le prime sedute per formulare un ‘contratto’, ovvero un accordo verbale che definisce esattamente su cosa si andrà a lavorare e i risultati che attesi, perlopiù formulato in una o due frasi incisive.
L’idea di terapie che proseguono per decenni o accompagnano il paziente per tutta la vita sono perlopiù un luogo comune cinematografico, oppure un particolare approccio terapeutico che oggi viene considerato superato: i metodi moderni sono molto pragmatici, incisivi e ottengono risultati in tempi assai brevi, diciamo qualche decina di sedute.
Sembra un paradosso, ma proprio nel momento stesso in cui si inizia una terapia si pongono le basi per poterne fare a meno. Il momento in cui si entra nello studio presuppone il momento in cui se ne uscirà per non farvi mai più ritorno. In altre parole, è un cammino verso l’indipendenza e la libertà, non l’inizio di una sudditanza. Per un periodo limitato si accetta la guida di un altro (ma l’espressione guida è impropria, e tecnicamente si parla proprio di “alleanza terapeutica”) per poi riuscire a farne a meno. Un po’ come chiedere a qualcuno di metterci le rotelline sulla bicicletta essendo però pronti a farcele togliere appena saremo diventati bravi, anzi a volte bravissimi. Ancora adesso non mi sembra di dovergli nulla in particolare, o meglio non devo a lui più di quanto debba alla mia bicicletta per la gioia di una bella scampagnata: senza quel mezzo non avrei fatto nulla, ma la fatica, la forza e l’energia sono state le mie, e sono stato io a decidere dove andare. Se non si preme sui pedali, non ci si muove. Non voglio dire che non gli sia grato, né che io scantoni per strada quando la incontro. Ha fatto molto bene il suo lavoro come io ho fatto bene il mio: per un periodo della vita siamo stati un’eccellente squadra.
E) Perderò la mia autenticità, quello che più di distingue come persona. Non sarò più lo stesso, verrò plasmato e modificato da una forza che è esterna a me.
Questa è stata forse l’obiezione più forte, che mi ha accompagnato fin quasi alla fine. Perché devo perdere la mia delicatezza, la mia sensibilità, la mia profonda interiorità e diventare come la massa che profondamente disprezzo? Perché devo perdere proprio le caratteristiche che mi rendono unico e omologarmi agli altri?
In pratica, durante la terapia possono succedere sostanzialmente due cose:
e1) Certe idee sono talmente nocive e generatrici di sofferenza che vanno cancellate, punto e basta. Si tratta perlopiù di concetti disfunzionali come: “Se non sono assolutamente perfetto non vado bene”, “non sono destinato ad essere amato”, “non valgo nulla”. Questi meccanismi mentali sono come delle neoplasie dell’anima, se lasciate al loro posto si alimentano di sé stesse, nutrendosi a poco a poco anche delle parti sane. Un po’ come scoprire di avere un dente marcio: lo si estirpa di corsa, prima di ritrovarsi con un ascesso per tutta la mascella.
e2) Altri lati del carattere non sono né buoni né cattivi. Semplicemente, si impara ad utilizzarli per uno scopo più produttivo e realistico. Un esempio per tutti la capacità di introspezione e di auto-osservazione. Prima, era usata come mezzo di auto flagellazione, uno strumento diabolico con cui scrutare implacabilmente dentro di me per scoprire anche i fallimenti più lievi ed infliggermi così una quantità enorme di sofferenza del tutto gratuita. Ora, quello stesso lato del mio carattere non è diminuito di una virgola, ma viene usato per comprendere e riconoscere i miei sentimenti, ad esempio per capire cosa provo per un’altra persona, senza bisogno di maschere e di finzioni, o di trincerami dietro un ruolo. Semplicemente riesco a leggere con chiarezza il mio stato d’animo e le mie emozioni, evitando a me agli altri un sacco di dolore. Una volta ho dovuto dire un “no” gentile ma deciso, ma per fortuna la risposta è stata più o meno questa: “Mi dispiace che i miei sentimenti non siano corrisposti, ma volevo solo dirti che almeno sono sollevata scoprendo come hai saputo guardare con onestà dentro te stesso, capire che non mi hai ingannata, né hai cercato di manipolarmi. Ti resterò per sempre amica”.
Vedete la differenza? Quella capacità, quel lato del carattere, è rimasto sempre lo stesso, solo che prima la usavo come strumento masochistico per autoinfliggermi una quantità smisurata di dolore inutile, ora invece me ne servo a mio vantaggio, come una risorsa in più per dare qualcosa di positivo a me ed a persone che mi sono care. E’ un'idea bella e quasi toccante: si trasforma un grande dolore in un grande bene, per me e per gli altri. E’ un po’ come avere un coltello affilatissimo: in sé non è né buono ne cattivo, e può essere un’arma micidiale o un strumento per tagliare i pomodori. La terapia mi ha dato proprio questo. Gli spetti più delicati e speciali della mia personalità non sono stati
modificati, sono stati semplicemente
indirizzati a scopi più utili e vantaggiosi, scopi che ho scelto io e nessun altro.
Riguardo all'idea stessa di trasformazione, al rapporto prima/dopo, la sensazione più chiara è questa. Le qualità personali che ora mi danno più gioia (spontaneità, freschezza, empatia, disinvoltura) non sono state
aggiunte dall’esterno, ma semplicemente
portate fuori, che è una cosa ben diversa.
Sono state sempre lì, solo che erano violentemente schiacciate e represse ad un punto che non ne avevo nemmeno più esperienza diretta, né ero più consapevole di possederle.
Vi faccio un esempio: un restauratore non aggiunge nulla di suo, ma cerca di riportare l’opera il più vicino possibile allo stato originale, come cioè se i fori di tarlo, gli strappi, le macchie di umidità non fossero mai esistiti e la tela fosse stata sempre conservata in condizioni impeccabili. Il terapista è un restauratore dello spirito: non aggiunge nulla di esterno, ma in un tempo ragionevolmente breve cerca di far sviluppare la persona verso quella condizione in cui dovrebbe trovarsi naturalmente, se – ad esempio- non avesse subito eventi traumatici, se fosse cresciuta in un ambiente sereno o avesse ricevuto gli stimoli giusti.
Ecco, mi sembra una metafora molto bella, che descrive a meraviglia la mia esperienza. Mi sento, è vero, come avrei sempre
voluto essere, ma soprattutto come avrei
dovuto essere se certe condizioni esterne fossero state diverse. In altre parole la trasformazione e l’evoluzione di cui parlo è anche un semplice e naturale
ritorno alle origini. Una delle sensazioni che mi danno ora più serenità e pace è la sensazione di stare perfettamente bene dentro me stesso, come se avessi
recuperato una condizione originale che mi apparteneva da sempre in quanto essere umano, non
aggiunto qualcosa di esterno.
Ultima metafora. Ho una macchina con un buon motore, ma tre ruote hanno dei pneumatici di prim’ordine (rispettivamente sensibilità, intelligenza, cultura) mentre la quarta (rapporti umani) è solo un cerchione malconcio. Qual è l’ipotesi più realistica? Andare avanti balzelloni, oppure trovare un pneumatico per la quarta? Di certo quest’ultima! Così ho fatto. Mentre proseguivo con la terapia, una delle idee che mi dava sostegno e coraggio era proprio questa: non sto diventando diverso, sto cercando di diventare migliore, cerco cioè di realizzare una sintesi ad un livello più alto. Il risultato è andato al di là dei miei sogni.
Secondo poscritto
Tre semplici risposte a delle obiezioni che mi sono state poste più volte:
A) “Scritto troppo bene. Pare un libro”
Scrivere è il mio lavoro, e per mestiere devo saper usare il linguaggio in tutte le possibile sfumature, anche se mi occupo di cose molto diverse da queste. Inoltre, ho una tendenza naturale a comunicare usando immagini e metafore: mi dedico ad attività artistiche nel tempo libero e la ricerca dell’espressività è per me una cosa naturale.
B) “Sembra una pubblicità, manca solo l’indirizzo e il numero di telefono”
E’ infatti non troverete né l’uno né l’altro. Riflettete su questo: la mancanza di un plausibile tornaconto personale è la prova più convincente che io sono reale, la dimostrazione che mia storia si è svolta essenzialmente così, come pure l'evidenza che l’unico motivo per raccontare è stato l’altruismo disinteressato, un sentimento che del resto manifesto in molti altri campi della vita (volontariato, donatore di sangue ecc.). Altrimenti, chi me l’avrebbe fato fare?
C) “Una favoletta carina e nulla di più. Ditegli per favore che abbiamo smesso di credere a Babbo Natale”.
Già, la volpe e l’uva. Leggete bene
tutto quello che ho scritto, anche quello che non collima con la vostra visone del mondo, e soprattutto le parti dove insisto sul valore dell’impegno e sul senso di responsabilità personale. Non ho mai detto che sia un lavoro facile, è difficile anzi difficilissimo, ma difficilissimo non significa “al di la delle possibilità umane”.