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Vecchio 28-05-2009, 20:44   #1
Principiante
 

..............................

Ultima modifica di Cazzaro; 27-04-2010 a 12:05.
Vecchio 28-05-2009, 20:46   #2
Esperto
L'avatar di Milo
 

é un complimento o un'offesa?
Vecchio 28-05-2009, 20:59   #3
Banned
 

io lo dico da molto...un continuo lamentarsi...ogni giorni ci si rende conto che provarci o non provarci è uguale...sempre solo come un cane resti...
Vecchio 28-05-2009, 22:31   #4
Intermedio
L'avatar di wild_rose
 

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Ultima modifica di wild_rose; 05-10-2010 a 02:18.
Vecchio 28-05-2009, 22:31   #5
Esperto
L'avatar di piocca
 

Quote:
Originariamente inviata da Cazzaro Visualizza il messaggio
in questo forum si sguazza davvero alla grande nel prorpio marciume...
(in realtà più un'osservazione...che una discussione)
Bello sguazzare nel proprio lerciume! ci si sente a casa...
Vecchio 28-05-2009, 23:23   #6
Esperto
L'avatar di BadDream
 

E' la nostra consolazione lasciateci almeno questa ...
Vecchio 28-05-2009, 23:35   #7
Banned
 

Quote:
Originariamente inviata da Cazzaro Visualizza il messaggio
in questo forum si sguazza davvero alla grande nel prorpio marciume...
(in realtà più un'osservazione...che una discussione)
In effetti l'autocommiserazione abbonda. Però nel complesso questo forum mi pare il minore dei mali...
Vecchio 28-05-2009, 23:39   #8
Esperto
L'avatar di valmor
 

Quote:
Originariamente inviata da BadDream Visualizza il messaggio
E' la nostra consolazione lasciateci almeno questa ...
Giusto, quoto.
Vecchio 28-05-2009, 23:45   #9
Esperto
L'avatar di calinero
 

bella cazzaro!
Vecchio 18-09-2009, 04:06   #10
Esperto
L'avatar di historie d'O
 

Quote:
Originariamente inviata da Cazzaro Visualizza il messaggio
in questo forum si sguazza davvero alla grande nel prorpio marciume...
(in realtà più un'osservazione...che una discussione)
beh hai ragione ..fai una cosa se ne sei disgustato...cancellati
Vecchio 18-09-2009, 04:16   #11
Esperto
 

da http://www.nilalienum.it/Sezioni/Ope...iaSociale.html
Leggetelo, è la constatazione di un antropologo-psicoterapeuta che con evidenza fotografa la situazione dei gio

IV. Il disagio adolescenziale

E’ ormai universalmente ammesso che il disagio psicologico adolescenziale si va precocizzando e diffondendo epidemiologicamente. La precocizzazione è attestata dal fatto che sempre più di frequente sindromi strutturate si manifestano, criticamente o in forma strisciante, in soggetti di tredici-quattordici anni. Anche gli episodi psicotici acuti che in passato esplodevano tra i 18 e i 22 anni, tendono a presentarsi con frequenza crescente tra i 15 e i 17. La diffusione epidemiologica del disagio, secondo le più recenti statistiche (peraltro poco concordanti tra loro), sembra riguardare il 10-15% della popolazione adolescenziale. Si tratta, se non della punta, di una parte solo del corpo dell’iceberg. Nella ricostruzione di numerose storie di soggetti che manifestano una sintomatologia franca tra i venti e i venticinque anni è possibile reperire anamnesticamente vissuti e indizi sintomatici e comportamentali, spesso sottovalutati dai soggetti stessi e dai parenti, che attestano una lunga incubazione del disagio.

L’entità del problema e la sua potenziale drammaticità, riconducibile per un verso al fatto che un numero crescente di adolescenti si trova ad essere invalidato talora per anni in un periodo decisivo per la socializzazione e la formazione scolastica, e per un altro alla possibilità che alcune esperienze esitino, in conseguenza di maldestri trattamenti soprattutto psicofarmacologici, in una forma nuova di precoce cronicità psichiatrica che pone un terribile problema alle famiglie e alle strutture assistenziali, spiegano l’interesse crescente da parte degli operatori per il disagio psichico adolescenziale, il fiorire di convegni sullo stesso, e l’istituirsi di servizi pubblici e privati che tentano di rispondere a questa nuova domanda sociale. Ma in che termini si pone questa domanda?

E’ un luogo comune, condiviso dalla psicologia evolutiva, che l’adolescenza è l’epoca della ribellione e del malessere. Ciò che sorprende oggi è la frequenza sempre maggiore con cui le crisi adolescenziali o abortiscono in virtù di un salto adultomorfo, che trasforma un bambino in un essere apparentemente sicuro di sé, o si traducono, più o meno repentinamente, in un disagio psichico conclamato. Nel primo caso, si struttura un falso sé destinato, nel corso degli anni, a dare luogo da una caratteropatia o ad esitare in una crisi. Per quanto riguarda il disagio psichico conclamato, che investe soggetti dai 12 ai 18 anni, non è azzardato affermare che esso sembra iscriversi nell’ambito di due configurazioni psicodinamiche caratterizzate dall’avere una corrispondenza immediata con la conflittualità propria dell’adolescenza: le ribellioni inibite e quelle agite. Le ribellioni inibite si esprimono sotto forma di attacchi di panico, angosce ipocondriache, fobie del più vario genere, sindromi ossessive ritualizzate, crisi di depersonalizzazione, depressioni, deliri persecutori, di colpa e di possessione. Le ribellioni agite si esprimono sotto forma di disordini comportamentali (aggressivi e/o erotici) con una spiccata impronta trasgressiva, sindromi narcisistiche, anoressia e bulimia, stati di subeccitamento o di eccitamento maniacali, deliri di onnipotenza e deliri mistici.

Anche questa distinzione, come tutti i tentativi di classificazione, lascia il tempo che trova. Intanto perché si danno di frequente viraggi dalle ribellioni inibite a quelle agite e viceversa, e, in secondo luogo, perché il superamento dell’ottica nosografica costringe ad utilizzare termini che, in gran parte, appartengono alla tradizione psicodinamica e sono logorati dall’uso. Per sormontare questa confusione occorre affrontare il problema alla radice: chiedersi in altri termini, poiché si parla di ribellioni, a chi o a cosa si ribellano gli adolescenti, e, poiché si parla di inibizioni e di disinibizioni, cos’è che inibisce e cosa disinibisce.

Purtroppo i livelli di coscienza degli adolescenti non sono di grande aiuto: alcuni riconoscono di stare male e chiedono di essere liberati dall’incubo di morire, di impazzire o di commettere atti antisociali, altri sottolinenano la loro inadeguatezza, l’insicurezza, le difficoltà di relazione con gli altri; alcuni ce l’hanno a morte con i genitori, con coloro che li perseguitano, con Dio o con il demonio, altri giustificano razionalisticamente i loro comportamenti e negano di stare male; alcuni individuano cause occasionali del loro disagio (un insuccesso scolastico, una delusione d’amore, un incidente, ecc.), altri fanno riferimento ad un’infanzia disagiata, a traumi affettivi, a maltrattamenti subiti. Solo alcuni hanno una percezione viva e netta delle loro rabbie, ma, tendendo a giustificarle, negano di nutrire sensi di colpa. Coloro viceversa che hanno una percezione dei sensi di colpa, tendendo ad accreditarle, negano di nutrire rabbia. Nulla più dei livelli di coscienza degli adolescenti disagiati pongono di fronte alla realtà inquietante di un mondo che, con i suoi cambiamenti economici, sociali e culturali a tutti i livelli, micro- e macrosistemici, si pone come un rebus sempre più difficile da decifrare e, nel contempo, non provvede in alcun modo a dotare coloro che partecipano ad esso di strumenti minimali di decodificazione.

Non è difficile porre ordine in questa confusione di vissuti, peraltro comprensibile. Le ribellioni, siano esse inibite o agite, sono riconducibili ad un vissuto ricorrente, presistente l’avvento del disagio psichico: un vissuto intollerabile di oppressione, di coercizione, di limitazione della libertà personale e della vocazione ad essere, associato costantemente ad una rabbia infinita. Tale vissuto solo di rado è cosciente e rievocabile; più spesso occorre lavorare non poco per indurre una presa di coscienza. Si tratta di un vissuto sorprendente che in sé e per sé non spiega nulla. Solo in alcuni casi, e non sempre nei più drammatici, infatti è possibile ricostruire un contesto familiare e ambientale oggettivamente definibile come oppressivo e coercitivo. L’interpretazione di questo vissuto è essenziale ai fini della comprensione psicodinamica del disagio psichico. Ma si tratta di un’impresa problematica. Come spiegare infatti l’entità del disagio adolescenziale e giovanile attuale, in un contesto sociale liberale e liberalizzato, a confronto con quello del passato, di sicuro minore, in un contesto patriarcale e repressivo? La risposta ci porta nel cuore del problema.

Mutatis mutandis, per gli adolescenti vale lo stesso discorso fatto per i bambini. Il fatto che essi oggi godano di privilegi (in termini di cure, beni, libert&#224 incommensurabilmente maggiori rispetto al passato è una verità parziale. In passato le aspettative familiari, sociali e soggettive erano di gran lunga più modeste rispetto a quelle attuali. Erano aspettative normative inderogabili, in quanto imposte repressivamente, ma imponevano ai soggetti solo il rispetto dell’ordine gerarchico, della legge e delle convenzioni sociali, dell’onore familiare e del ruolo assegnato dalla nascita. La rigida coercizione della vocazione ad essere individuale, in un contesto socio-culturale che, essendo incentrato sui vincoli e sui doveri parentali, né la riconosceva né dava spazio ad essa, ha fatto anche in passato delle vittime. Ma, per quanto possa apparire sorprendente, tale coercizione è poca cosa a confronto della pressione normativa cui sono sottoposti oggi i bambini, gli adolescenti e i giovani: dalle famiglie che aspirano, tramite loro, ad un salto di qualità dello status sociale, dalla società che propone la vita nei termini di una lotta per sopravvivere, e dalla stessa cultura giovanile infatuata dal mito della forza, dell’adeguatezza, della padronanza di sé, dell’onnipotenza narcisistica. I privilegi di oggi sono soggettivamente pagati a caro prezzo, almeno da parte di alcuni, in termini di indebitamento, perfezionismo, ansia competitiva, necessità di dimostrarsi forti e normali, ecc. Non si va lontano dal vero contrapponendo alla cultura sostanzialmente repressiva del passato una cultura attuale molto più insidiosa che si potrebbe definire aspirativa o risucchiante poiché si fonda su miraggi sociali e/o morali che, alimentati dalle famiglie, dai mass-media e dai giovani stessi, li catturano e li alienano.

Gran parte della confusione sulla condizione adolescenziale e giovanile attuale discendono dall’ignorare il peso delle aspettative che gravano su di essi e che provenendo da più fronti (la famiglia, la società, i coetanei) risultano spesso contraddittorie tra di loro. Se si tiene conto del fatto che queste aspettative, rifratte dalla sensibilità personale in misura più o meno rilevante, vengono interiorizzate e che dunque gli adolescenti oggi sono letteralmente risucchiati da richieste prima ambientali, consce e inconsce, e poi interiori, di cui sono più o meno consapevoli, il vissuto di oppressione, la cui intensità induce talora a pensare che siano vissuti in un lager, trova immediatamente una spiegazione. La libertà di cui godono è apparente e formale. I codici normativi da cui sono investiti, che sommano a tradizioni remote valori di recente produzione, sono di fatto, oltre che contraddittori, terribilmente coercitivi. E lo sono in maniera insidiosa perché non appaiono quasi mai coercitivi.

Con buona pace dei cognitivisti, che ritengono lo sviluppo della personalità un processo prevalentemente autopoietico, e di alcuni recenti indirizzi psicologici che minimizzano l’influenza familiare e amplificano arbitrariamente quella dei coetanei e dei mass-media, occorre riconoscere che l’infrastruttura della personalità è riconducibile ancora oggi all’interiorizzazione dei valori culturali proposti dall’ambiente con cui il soggetto interagisce.
Vecchio 18-09-2009, 04:16   #12
Esperto
 

La pertinenza di questa concettualizzazione in rapporto al disagio adolescenziale e giovanile è intuitiva. L’adolescenza è il grande snodo dell’evoluzione della personalità, il periodo in cui i doveri interiorizzati precocemente entrano naturalmente in conflitto con le istanze di differenziazione e di libertà personale che vengono esse stesse da lontano ma che, nel suo corso, si intensificano criticamente. E’ il periodo in cui le tensioni tra i bisogni intrinseci accumulate in precedenza possono risolversi ma anche produrre un conflitto strutturale. E’ questo carattere naturalmente ‘nevrotico’ dell’adolescenza, che sempre più spesso dà luogo ad una fuga in avanti o alla caduta in uno stato di crisi psicologica, ad assegnare al disagio adolescenziale un significato psicopatologico di straordinaria importanza teorica poiché esso, in virtù di un’incubazione i cui tempi si riducono progressivamente, lascia trasparire e rende quasi evidenti le matrici del conflitto.

La psicopatologia adolescenziale e giovanile, in maniera più evidente rispetto a quella adulta, pone di fronte a due realtà: l’una caratterizzata dalla volontà inconsapevole di restare pateticamente fedeli a un sistema di valori interiorizzati che, per il loro rigore o la loro astrattezza, impediscono al bisogno di opposizione/individuazione di dispiegarsi e, frustrandolo, finiscono con l’alienarlo, vale a dire col renderlo rabbioso e anarchico; l’altra dalla volontà inconsapevole di spogliarsi del tutto di quei valori sostituendoli con un altro sistema che, per essersi definito sul registro dell’antitesi, è esso stesso alienato, vale a dire tradisce e distorce gli autentici bisogni di libertà e di autenticità del soggetto, costringendolo a indurirsi, a insensibilizzarsi e a incattivirsi.

Qual’è l’humus socioculturale che consente di spiegare il disagio adolescenziale e giovanile? Nessun ambito del disagio psichico anagraficamente definito – infantile, adolescenziale, giovanile, adulto, senile – può essere affrontato senza una riflessione sul fatto che non solo la scansione delle stagioni della vita ma anche i codici normativi che definiscono il comportamento che si ritiene adeguato per ciascuna di esse e i ruoli asegnati dipendono dal contesto storico-culturale. Per prendere atto di questo assunto, di cui spesso non si tiene conto, in rapporto alla fascia di età che ci interessa, basta considerare alcuni dati elementari, giuridici, come, per esempio, la fluttuazione dell’obbligo scolastico, la definizione, conseguente a questo, di un limite di età al di sotto del quale non è consentito svolgere un’attività lavorativa, il cambiamento dell’accesso alla pienezza dei diritti civili (il raggiungimento della maggiore età che contrassegna anche il venir meno della patria potest&#224, la definizione dell’imputabilità penale, ecc. Al di là di questi dati di ordine giuridico occorre poi considerare i cambiamenti culturali che assumono un valore di consuetudini. La libertà comportamentale degli adolescenti, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di muoversi al di fuori del controllo parentale, è aumentata di gran misura rispetto al passato. Molti adolescenti passano il sabato sera fuori casa, parecchi trascorrono le vacanze tra coetanei. Le frequentazioni eterosessuali, anche con alcune remore, sono ammessi o comunque tollerati. Si riconosce agli adolescenti lo statuto di consumatori di beni non primari in conseguenza del quale, in molte famiglie, una quota del reddito viene investita nelle spese voluttuarie e nelle ‘paghette’. Il rapporto con gli adulti, nella maggioranza dei casi, risulta affrancato dalla soggezione del passato ed è caratterizzato da un’interazione comunicativa più franca, precocemente paritaria (com’è attestato dall’uso del tu inconcepibile appena qualche decennio fa). L’accesso alle informazioni, attraverso i mass-media e Internet, è forse fin troppo ricco, come pure lo scambio comunicativo all’interno dei gruppi giovanili, il cui esito è la produzione di un linguaggio e di una cultura autonoma, e spesso in opposizione rispetto a quella degli adulti.

Gli effetti psicosociologici di questi cambiamenti sono diversamente valutati dagli esperti e dall’opinione pubblica. C’è chi sottolinea i rischi legati all’eccessiva libertà e al venir meno del controllo sociale, all’atteggiamento permissivistico delle famiglie e alla loro tendenza a viziare i figli; chi viceversa, pur non negando alcune contraddizioni, vede nella situazione attuale una fase di transizione verso una maggiore maturità, flessibilità psicologica e apertura al mondo.

Prescindendo da giudizi di valore occorre ammettere che non appare agevole cogliere i nessi tra i cambiamenti socioculturali cui si è fatto cenno e il crescente disagio psichico adolescenziale. Ciò dipende forse dal fatto che i cambiamenti in questione avvengono alla superficie della struttura sociale, mentre è probabile che qualcosa di più complesso stia avvenendo al di sotto di essa. Ma per quali vie accedere alle falde profonde della struttura sociale, laddove si originano e si organizzano i codici normativi culturali in virtù di un perenne conflitto tra vecchi e nuovi valori? Un indizio che gode del pregio di essere evidente merita attenzione.

Esso è costituito dal fatto che, come la sua metafora stagionale - la primavera -, l’adolescenza come periodo evolutivo di lunga durata, necessariamente travagliato, contraddittorio, ricco di slanci e di ricadute, di aperture e di chiusure affettive e cognitive, di dubbi e di certezze assolute, di tensioni edonistiche e spirituali nel contempo, tende a scomparire.

Sempre più di frequente infatti le crisi adolescenziali si configurano o come un repentino balzo in avanti comportamentale che trasforma quasi magicamente un bambino in un soggetto terribilmente (e temibilmente) sicuro di sé, ostile alla classe degli adulti, tendenzialmente estroversivo, che odia la solitudine e non ama porsi problemi (con la conseguenza di agire spesso comportamenti sociali caratterizzati da una scarsa sensibilità nei confronti degli altri) o, in una minoranza di casi, come il mantenersi e l’incrementarsi di un assetto comportamentale fin troppo maturo e serio, definitosi quasi sempre sin dall’infanzia.

Si tratta in entrambi i casi di un salto dalla condizione infantile all’adultomorfismo, contrassegnata dalla necessità di apparire più grandi di quanto di fatto si è. La differenza, di non poco rilievo, è che nel primo caso il modello adultomorfo è ispirato dalla necessità di sentirsi confermati dal gruppo coetaneo, nel secondo dalla necessità di continuare ad essere confermati dagli adulti: nel primo la soggezione agli adulti, intesa come segno di infantilismo, è aborrita; nel secondo essa viene ad essere privilegiata mentre è aborrito il modello dei coetanei. In termini analitici si può parlare per un verso di un adultomorfismo antitetico, per segnalare il suo carattere manifestamente oppositivo alla cultura e alle preoccupazioni dei grandi (genitori, insegnanti, ecc.), per un altro di un adultomorfismo superegoico, per segnalare la soggezione (spesso inconscia) ai valori interiorizzati nel corso dell’infanzia.

Il rilievo psicopatologico di questa mutazione, che esprime due terribili coercizioni normative – l’apparire forzatamente adeguati al modello estroversivo dominante tra i giovani e il non poter tradire le aspettative interiorizzate degli adulti - è abbastanza semplice da definire. Le due tipologie individuate sono entrambe potenzialmente conflittuali: la prima infatti privilegia in assoluto il bisogno di individuazione e, per assicurare ad esso una realizzazione prematura, per l’appunto adultomorfa, frustra il bisogno di appartenenza sociale, rappresentato nella personalità dai valori tradizionali trasmessi dalle istituzioni educative; la seconda privilegia in assoluto il bisogno di appartenenza sociale e, in nome delle aspettative degli adulti, frustra il bisogno di individuazione. Su questo sfondo si definisce la psicopatologia adolescenziale secondo due modalità fondamentali. Alcuni adolescenti appartenenti alla prima tipologia sono indotti infatti dalla pressione dei valori superegoici ad accentuare il loro adultomorfismo antitetico: a indurirsi caratterialmente e comportamentalmente, a insensibilizzarsi, e ad assumere spesso degli atteggiamenti marcatamente egoistici e cinici, finendo con il maturare degli intensi sensi di colpa che prima o poi sono destinati ad esplodere. Alcuni adolescenti appartenenti alla seconda tipologia sono indotti dalla pressione del bisogno di opposizione/individuazione frustrato ad irrigidire il loro adultomorfismo superegoico imponendosi una disciplina di vita, solitamente incentrata sullo studio e sulla coltivazione di valori elevati, che finisce con l’animare nel loro intimo una rabbia anarchica destinata ad implodere o ad esplodere. Si danno anche - e sono sempre più frequenti - casi di adolescenti che virano repentinamente dall’una all’altra tipologia per uno smottamento interiore che tende a risolvere il conflitto senza produrre immediatamente sintomi. Ma, dato che il rimedio risulta solitamente se non peggiore del male un male esso stesso, anche costoro vivono in una condizione di precarietà psicologica.
Vecchio 18-09-2009, 04:17   #13
Esperto
 

Occorre chiedersi quali siano le cause socioculturali che hanno prodotto la scomparsa dell’adolescenza come essa è stata descritta nei libri di psicologia evolutiva sino agli anni ‘70. Il discorso, ovviamente complesso, non può essere qui affrontato che sinteticamente .

Occorre considerare almeno tre aspetti: l’ibridazione di valori avvenuta a livello di mentalità, vale a dire di inconscio sociale, in seguito al venir meno della cultura patriarcale e all’avvento della cultura borghese, l’organizzazione della famiglia e delle istituzioni pedagogiche che sono divenute agenzie di riproduzione antropologica inconsciamente orientate a sfruttare il ‘capitale’ ad esse affidato, e la socializzazione adolescenziale stessa, prodotto della liberalizzazione dei costumi, che, in virtù di una fitta interazione tra coetanei, promuove una cultura relativamente autonoma che esalta, senza rendersene conto, il modello antropologico borghese e lo porta alle estreme conseguenze.

Il primo aspetto può essere appena accennato. Nonostante l’avvento al potere della borghesia risalga ormai a quasi due secoli, la cultura borghese solo lentamente è divenuta un fenomeno di massa scalzando le tradizioni popolari e contadine e entrando in conflitto con le tradizioni religiose. I tratti differenziali propri di quella cultura sono l’esaltazione dell’individuo come causa sui, l’assunzione dello status sociale che egli consegue come espressione del suo merito, e la sollecitazione a competere, a mettersi a confronto e a misurarsi. Rispetto ai vincoli posti all’affermazione dell’individuo dalle culture precedenti, che facevano discendere il suo status e il suo destino dalla nascita, si tratta di un indubbio progresso. Ma il modello borghese, che muove dalla concezione della vita come lotta per sopravvivere, è un modello marcatamente adultomorfo, implicitamente aggressivo che, al di sotto delle apparenze, postula un qualche grado di insensibilizzazione sociale. La sua espressione più propria è il darwinismo sociale, che trasferisce a livello di società la legge della selezione naturale e individua nella debolezza, comunque intesa, un difetto e una colpa.

La sostanziale spietatezza di questo modello ha sollecitato una parte della cultura borghese, quella illuminata, a tentare di smussarlo innestando su di esso valori universali – i diritti umani – che comportano la pari dignità tra gli individui e la necessità conseguente di tutelare i più deboli. Ma si tratta di un’ibridazione culturale dovuta al fatto che, all’epoca del suo avvento, la borghesia ha dovuto fare i conti col potere religioso al quale ha dovuto concedere un qualche riconoscimento. La matrice della società borghese era e rimane l’egoismo individualistico, amorale e asociale entro i limiti della legalità, che comporta l’assunzione del socius come rivale.

Funzionale al mantenimento del sistema economico che esso ha prodotto, il modello borghese che, alla superficie della struttura sociale, è stato smussato dai compromessi col liberalesimo filosofico e con il socialismo, ha lentamente permeato l’inconscio sociale, ha investito i rapporti interpersonali ed è giunto infine a radicarsi nella soggettività, inducendo l’accettazione della legge del più forte come naturale, e, in coseguenza di questo, la fobia di ogni forma di debolezza e un vissuto universalmente persecutorio.

Il ruolo egemone del modello borghese non ha inattivato però tutte le tradizioni precedenti, troppo profondamente radicate nell’inconscio sociale per essere estirpate. Ciò è vero sia per le tradizioni gerarchiche patriarcali, sia per quelle religiose, tendenzialmente egualitarie e comunitaristiche. Sia le une che le altre anzi di recente si sono rafforzate: le prime in virtù di un bisogno diffuso di ordine che stigmatizza, anche a livello giovanile, gli eccessi e le conseguenze negative della libertà; le seconde in conseguenza del bisogno di reagire all’atomismo individualistico borghese e di contrapporre, alla spietata legge del più forte, la legge dell’amore evangelico.

Nessuno ha la possibilità di decifrare ciò che avviene a livello d’inconscio sociale. Ciò che è certo è che tale livello influenza profondamente il modo di sentire, di vedere e di agire degli esseri umani, indipendentemente dalla consapevolezza che questi hanno di tale influenza. Non è azzardato dunque pensare che i campi educativi, attraversati dalla confluenza di questi diversi valori, sono sostanzialmente confusivi. Il principio di autorità, l’ugualitarismo comunitaristico, l’individualismo borghese si rifrangono nei vari campi - familiari e scolastici - secondo uno spettro di possibilità che comporta, in misura diversa, la compresenza di questi valori che vengono ad essere interiorizzati. Il principio di autorità, del resto, a livello pedagogico è assicurato dalla percezione onnipotente, magica e idealizzata che i bambini hanno universalmente delle figure adulte, ed esso, che assicura la trasmissione dei valori culturali tra le generazioni in virtù di una sorta di ipnosi infantile, non è che apparentemente inattivato dalla familiarità e dall’intimità tra i bambini e gli adulti. Per quanto riguarda gli altri due aspetti, si tratta di due catechismi che vengono regolarmente impartiti. Per fare un solo esempio basta pensare alla scuola. Nell’ora di religione si tenta di imprimere nelle anime infantili, con la paura di un’autorità suprema che vede tutto e punisce i peccatori, i valori dell’amore del prossimo, della solidarietà e dell’uguaglianza. Questi stessi valori, sia pure in una versione, che traduce l’amore per il prossimo in rispetto e la solidarieta nel riconoscimento dei diritti umani, sono promossi da molti insegnanti e sono espressi nei libri di testo. Ma la scuola nel suo complesso, deputata a produrre cittadini capaci di inserirsi nel contesto di una società borghese, alimenta la competitività, si disinteressa dei più deboli, che vengono spesso ridicolizzati in pubblico, sollecitando le famiglie ad aiutare i figli nello studio sostiene, senza saperlo, il classismo e i privilegi di nascita, seleziona darwinisticamente i più adatti.

Per quanto concerne l’organizzazione della famiglia, che richiederebbe un lungo discorso, si considereranno solo alcuni aspetti. Per lungo tempo attestata sul registro della riproduzione di sussistenza, la famiglia si sta lentamente trasformando (senza saperlo) in un’istituzione capitalistica. Ciò significa che l’investimento dei genitori nell’allevamento dei figli, in termini, se non di tempo, di affetto, di attenzione,di cultura, di denaro (nonostante alcune dicerie che non tengono conto del passato allorchè i figli erano tirati su come piante) è aumentato sia quantitativamente che qualitativamente. Ma questo investimento non ha prodotto sinora buoni risultati: per un verso perchè il modello pedagogico di riferimento, sotteso da un’universale fobia della devianza, mira a produrre il cittadino medio, quietamente integrato nella società, e mortifica più o meno profondamente il bisogno, soprattutto adolescenziale, di differenziazione e di originalità; per un altro perchè esso si associa costantemente a delle aspettative elevate di essere ricambiati e si traduce, nei figli, in un vissuto di indebitamento che, se riconosciuto, li rende schiavi di quelle aspettative e, se negato, li spinge ad agire in opposizione ad esse.

Occorre tener conto inoltre che le aspettative genitoriali risentono della confusione tra sistemi di valore di cui si è parlato poc’anzi. Esse sono univoche nello scongiurare che i figli facciano una brutta fine, che divengano devianti. E già questa preoccupazione, che cresce con il crescere della devianza, laddove diventa ossessiva basta da sola ad operare come una previsione che si avvera. Ma per quanto riguarda il resto, esse sono più o meno contraddittorie. I principi che vengono impartiti infatti risultano funzionali sia al buon vivere civile (sia esso fondato su valori religiosi o sul rispetto sociale) sia alla necessità di cavarsela nella lotta per la sopravvivenza senza andare troppo per il sottile. Ciò in nome del fatto che, se la fobia della devianza ha raggiunto un livello critico, la fobia dell’esclusione, vale a dire che i figli, senza deviare, si ritrovino ad essere socialmente emarginati, non le è da meno.

Il terzo fattore è un dato sociologicamente del tutto nuovo: la produzione relativamente autonoma (in quanto influenzata dai mass-media) di una cultura adolescenziale e giovanile fortemente incentrata sull’adultomorfismo estroversivo. Il modello di riferimento degli adolescenti e dei giovani, da essi stesso prodotto, e inconsapevolmente tributario del modello borghese radicale (quello originario che identificava nell’imprenditore una sorta di rivoluzionario amante dell’azzardo, dell’innovazione, del progresso, e che solo lentamente si è trasformato nel modello piccolo-borghese incentrato sulla sicurezza), impone la spigliatezza sociale, l’intraprendenza sessuale, la fobia della debolezza (intesa come insicurezza, dubbio, soggezione nei confronti dell’autorità, tendenza ad abbandonarsi alle emozioni), la padronanza di sè, il culto dell’immagine, la tendenza a sfidare le paure, ecc. Adottato dai più questo modello rende gli adolescenti tendenzialmente narcisisti, egocentrici, edonisti, poco sensibili ai bisogni altrui, inclini a prendere in giro chi rivela una qualunque debolezza e, nel loro intimo, costantemente angosciati dalla paura di crollare e di rivelare la loro inadeguatezza. Coloro che non riescono ad aderire a questo modello, in quanto solitamente introversivi, tendono viceversa ad oscillare tra un sentimento di superiorità e uno di inferiorità rispetto agli altri, ad isolarsi e ad essere rifiutati, a coltivare valori elevati intellettuali e morali e a nutrire un intimo disprezzo, sotteso di invidia, nei confronti degli altri.
Vecchio 18-09-2009, 04:24   #14
Esperto
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ma sono le 4 di mattina introooo ..........dormi
Vecchio 19-09-2009, 02:43   #15
Esperto
 

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