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Vecchio 31-05-2017, 22:31   #1
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L'avatar di Paolo Zeder
 

Voglio condividere questo scritto perchè è un po' la condizione in cui mi trovavo fino a qualche anno fa. Avevo sempre la necessità di idealizzare le persone e addirittura trovare la mosca bianca in ogni situazione. Buona lettura e buona serata!


Nei tempi della mia prima giovinezza avevo conosciuto un giovane a nome Federico con il quale per un paio di inverni mi legai di amicizia. Eravamo ambedue studenti e della stessa età, ma i punti di somiglianza si fermavano qui; per tutto il resto le diversità erano profonde; e ben presto ci separarono. Dopo averlo incontrato sempre più raramente, lo persi di vista. Ho detto che eravamo diversi; ma questo forse non sarebbe bastato a dividerci se queste diversità fossero state, per così dire, complementari. Si trattava invece di differenze molto più scomode per cui se io mi fossi adattato a vivere come lui, non sarei stato più io e viceversa. Io ero piuttosto ritroso e dedito agli studi, Federico invece attribuiva la massima importanza a quello che, non senza enfasi, chiamava vita; e che in termini poveri si potrebbe definire come i rapporti con gli uomini.
Egli era naturalmente curioso, ma di una curiosità stranamente contraddittoria, perché mentre si avvicinava alle persone con un senso di attesa che gliele rendeva misteriose e attraenti, c'era al tempo stesso sottintesa e sempre presente nella curiosità stessa una volontà riduttiva, nomenclativa, che tendeva ad annullare quel mistero e quell'attrazione e a sostituirvi qualche motivo razionale e preciso. Si avvicinava per esempio Federico ad una ragazza la cui bellezza gli pareva nascondere a prima vista chissà quale animo profondo e imperscrutabile, ma non era contento finché al posto di quell'animo sfuggente e bello non aveva messo un piccolo meccanismo logico a scatto prevedibile e obbligato. Il curioso si era che egli aveva veramente momenti quasi di misticismo di fronte ad ogni nuova persona che incontrasse; e che davvero da quegli incontri si aspettava, come spesso mi confidò, scoperte di regioni mai viste, avventure, emozioni rare e ineffabili; ma poi tutto questo scompariva di fronte a frasi di questo genere: "sai il tale... un geloso... e figurati la tale... non pensa che a sposarsi... quell'altro... avaro, non esistono per lui che i denari" e così via. Debbo ammettere che queste povere e schematiche riduzioni di uomini in carne e ossa a specie di marionette gli procuravano sufficiente soddisfazione per invogliarlo a continuare la sua ricerca.
Una soddisfazione crudele molto simile a quella del ragazzo che rotto il balocco scopra la molla che lo faceva muoversi e suonare. Ma quello che mi riusciva incomprensibile era questa duplicità, questa capacità così umana e affettuosa di aspettarsi molto, anzi tutto dagli altri, e poi di non trovarci che dei miserabili motivi materiali di condotta.
Evidentemente c'era in Federico una specie di frattura tra il primo e il secondo momento; il primo momento gli permetteva di avvicinare le persone con quella grazia e quella familiarità senza le quali non sono possibili rapporti; ma poi nel secondo doveva prevalere in lui il fastidio di non saper nulla di quelle persone e dell'inferiorità che da questa ignoranza proveniva; e pur di non rimanere in tali condizioni, egli si affrettava ad abolire ogni contorno di sentimento e di mistero e a ridurre la persona ad uno schema o ad una cifra.
Naturalmente questo avveniva senza che egli ne fosse consapevole; ma che avvenisse lo dimostrava la facilità con la quale perdeva qualsiasi interesse in persone che fin allora gli erano sembrate attraenti e fascinose in sommo grado. Per questo le sue amicizie non duravano mai molto; o meglio non esistevano; e i suoi amori sfiorivano con allarmante facilità; quasi che l'aver scoperto nella donna che gli piaceva un carattere fisso e ricorrente gliela rendesse brutta e spiacevole o meglio la svestisse della viva avvenenza della carne rivelandogli uno scheletro freddo e comune. In gergo filosofico si potrebbe dire che Federico "superava" le persone come appunto i pensatori superano i sistemi.
Soltanto che tali superamenti del pensiero sono il più delle volte fecondi di nuove costruzioni; mentre era impossibile capire dove Federico volesse andare a parare con questa sua continua svalutazione della persona umana.
Nell'aspetto Federico non lasciava davvero presagire la presenza di questo suo demone delusivo. Era grande, flemmatico, biondo, con un viso un po' infantile, dagli occhi cerulei e fissi, dalla bocca perfetta, dalle guance rosee. Egli pareva tutto il contrario di quello che era
nella realtà; e questo non poco lo favoriva nelle vicissitudini della vita mondana. Era ricco; e poche persone ho veduto vestirsi con altrettanta sicurezza ed eleganza. Soltanto la sua voce, fredda, manierata, grossa, e nei momenti di confidenza, brutale, rivelava a chi, come me, lo conosceva a fondo, il vero esser suo.
Federico ed io avemmo parecchie dispute sul suo atteggiamento verso le persone. Io cercavo di fargli capire che, una volta trovata la molla segreta di un carattere, non per questo egli poteva pretendere di conoscere l'uomo che gli sfuggiva con tutta la sua complessità e il suo mistero; lui allora mi domandava di spiegargli in che cosa consistesse il mistero di una persona che non viveva e non pensava che ad una cosa sola. Io gli rispondevo che il mistero, per modo di dire, era il calore di una mano o il tono di una voce; e, insomma, proprio quelle apparenze che egli tanto disprezzava. Egli mi accusava di misantropia, vedendomi così solitario; e io ribattevo che il vero misantropo era lui, per scarso amore verso il prossimo e nessuno rispetto per l'integrità della persona umana.
Un giorno giunsi a fargli la facile profezia che si sarebbe ridotto ad una completa solitudine perché presto si sarebbe annoiato di vivere in un mondo di automi e di marionette. Egli disse che amava gli uomini, sia pure a modo suo. Andò a finire che lo vidi sempre più di rado, come ho detto. Poi io partii e cambiai città; e per molti anni non seppi più nulla di lui.
Io mi ero completamente dimenticato di Federico, quando capitai, parecchi anno dopo, nella città in cui viveva. Ci venni per ragioni di lavoro; e, come avviene, tra un impegno e l'altro, non sapevo che fare. Ebbi un'idea da quel provinciale che ero ormai diventato: andare al giardino zoologico.
Era un pomeriggio d'inverno, rigido, nudo, scintillante di sole. A quell'ora lo zoo era vuoto. Lungo i viali deserti non si vedevano che le bestie guardarsi l'un l'altra tra le sbarre delle gabbie; e in questo silenzio soleggiato si trovava svelato in tutta la sua crudeltà l'artificio di questa specie di vivente lezione di storia naturale. Immusoniti i grandi felini se ne stavano distesi all'ombra delle loro finte rupi di cemento azzurrino. I cammelli, le giraffe, gli elefanti si muovevano negli spazi angusti dei loro recinti con una lentezza piena di circospetto malessere quasi che avessero davvero risentito le loro gobbe, i loro colli, i loro nasi come mostruosità ingombranti e anormali. Ogni tanto un ruggito annoiato che faceva levare i passeri dai boschetti esotici o uno squittio forte, spasmodico di pappagalli. Le tasche gonfie di tozzi di pane, i guardiani si godevano il sole sonnecchiando sulle panchine.
Io presi a camminare piano lungo le gabbie. Le bestie selvatiche rinchiuse mi sono sempre sembrate patetiche in sommo grado. Così scoperte agli occhi dei curiosi, col loro pelo folto e i loro gesti guardinghi che vogliono il segreto dei boschi, la libertà misteriosa delle terre incolte. Si pensa all'impudicizia di un'esposizione simile dell'intimità umana. E quasi sorprende che siano così indifferenti alla curiosità degli oziosi dormendo, leccandosi, accarezzandosi sotto gli occhi di tutti. Ma è vero che li salva l'aria compatta di selvaggeria che li circonda. La foresta, la macchia, il deserto, la solitudine rupestre sono dentro di loro, nei loro istinti, nei loro occhi feroci e innocenti.
Così osservando quei prigionieri, quasi mi scontrai, davanti il recinto dei canguri, in un uomo alto, dal pastrano chiaro che, come me, guardava tra le sbarre delle gabbie. Lo riconobbi subito, era Federico.
Io ero rimasto con il concetto di lui che ho sopra esposto; ma non gliene avrei parlato dopo tanto tempo. Fu lui che, dopo le prime accoglienze, mi ricordò le nostre discussioni. Disse che aveva dovuto riconoscere che io avevo ragione. Infatti era avvenuto ciò che io avevo preveduto: in breve tempo egli aveva cessato del tutto di veder gente, annoiato e deluso, e si era ridotto ad una solitudine completa. "Come vedi" soggiunse sorridendo "sono molto cambiato".
Lo guardai. A dire il vero non era granché mutato. Vestito con estrema cura, il viso roseo sbarbato e piacevole, veramente di uomo mondano, la bocca rossa sotto i baffi biondi. Soltanto gli occhi cilestri avevano un cerchio di pieghe scure che denotavano non sapevo che umore ipocondriaco; e che, anche quando rideva, mantenevano alle sue pupille, un colore fosco.
Ringraziamenti da
Da'at (31-05-2017)
Vecchio 31-05-2017, 22:31   #2
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L'avatar di Paolo Zeder
 

Intanto ci eravamo seduti sopra una panchina, di fronte ai canguri. Il sole passando tra le sbarre larghe ne rifletteva l'ombra sul terreno brullo e battuto del recinto; saltellando in questo sole, i canguri andavano e venivano tra l'inferriata e la capanna australiana dal tetto di paglia che serviva loro da covile. Io domandai a Federico che cosa facesse della sua solitudine. Egli mi rispose che all'infuori di occuparsi delle proprie terre, non faceva nulla. Pensava che lasciandosi vivere, passeggiando al sole e riflettendo, pian piano il vecchio animo si sarebbe mutato. Allora forse, senza più orgoglio e pregiudizi, si sarebbe riaccostato alle persone. Soggiunse di esser convinto che questo mutamento in lui era già avvenuto.
Per un lungo momento restammo poi silenziosi. Io guardavo i canguri che su quel terreno pallido e senza un filo d'erba del loro recinto se ne andavano di traverso, balzando leggeri su quelle loro pesanti piote, la coda massiccia appoggiata sul suolo. Un maschio grande se ne stava sdraiato, gli occhi socchiusi nel sole, le zampe allungate con un languore singolare, come le gambe di una donna distesa. Feci notare a Federico la bizzarria degli strani animali, con la loro tasca pelosa semiaperta tra le rattrappite zampe anteriori. Egli disse che i canguri erano i suoi animali preferiti; e si mise a spiegarmi il modo che tenevano per procreare e per allevare i loro piccoli. Mi alzai e sempre insieme con Federico passai alla gabbia dell'orango. Cercai di far notare a Federico la tristezza arcaica e immutabile dei piccoli occhi cisposi della grande scimmia; ma lui di rimando mi diede nuove informazioni sul vivere e il riprodursi della bestia.
Davanti ad altre gabbie avvenne di nuovo lo stesso fatto. Io cercavo di fare ammirare a Federico la bellezza e singolarità delle belve e lui, senza neppur guardarle, mi parlava delle loro abitudini e dei loro costumi. Ora capivo che Federico non era affatto mutato; e che quella sua curiosità astratta di un tempo verso le persone, adesso la rivolgeva agli animali. Doveva aver letto dei libri o interrogato i custodi, non so. Tornavano persino le vecchie frasi diun tempo: "vedi quella bestiolina dall'aria così innocente... ebbene". Egli insomma si divertiva, come già un tempo, a scoprire quel che c'era sotto. Aveva superato le belve, come già gli uomini. Questa volta però mi guardai dal comunicargli queste mie riflessioni.
Di gabbia in gabbia ci trovammo all'uscita dello zoo. Federico rimase perché era il momento dei pasti e voleva vedere come funzionavano quegli appetiti ferini. Io me ne andai.
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