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Vecchio 26-10-2014, 08:50   #1
~~~
Esperto
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Pensando all'evitamento mi è venuto in mente che nelle occasioni in cui si esce, si risponde a una telefonata, si chatta, si va ad un pranzo coi parenti etc., si cerca di "mettere da parte il disagio". Non solo mascherandolo, cercando di rimuoverlo, di farsi due risate etc., ma anche manifestandolo attraverso il dialogo con un amico o con un parente o con un estraneo etc.

Cioè si separa il disagio da sé e da quel momento, come se fosse una parte di noi che può essere isolata e astratta, dimenticandosi che è lì con noi anche in quel momento, e magari si manifesta quando sentiamo di dover prendere fiato un momento andando in bagno, o in un momento di imbarazzo, o al sentire una frase o un discorso che ci turba e ci lascia perplessi, ricacciando un commento, cercando di rilassarsi, di stare bene etc.

Poi, magari, dopo che si torna a casa, si avverte una sensazione di infinita stanchezza dovuta a quella tensione a cui magari non facciamo tanto caso perché "sono stata con gli altri, abbiamo riso, abbiamo scherzato, ci sono state confidenze etc.".

I casi più chiari ovviamente sono quelli in cui il disagio si impossessa completamente di noi e lì appare appunto evidente che non è qualcosa che si può accantonare.
E paradossalmente quel disagio così forte, oltre ad essere ciò da cui si tenta di sfuggire, è anche rivelatore di quello in cui siamo incastrati. E cioè che ci ritroviamo in un contesto nel quale non possiamo esercitare liberamente la nostra persona.

Ed è qui che sta il punto a parer mio.
La questione dell'autoaffermazione. Perché non è che se in una situazione ti trovi a disagio allora vuol dire che il rapporto con te stesso è malato, no.
Però la persona autoaffermata, da quel disagio si sottrae.
O perché non viene scalfito da ciò che lo circonda, o perché si allontana dal fastidio. Cioè in una maniera o nell'altra sa cosa vuole e nei limiti del possibile non permette a niente e nessuno di danneggiarlo. O comunque si muove in maniera da limitare i danni.

È questo che io vorrei per me e che non so come ottenere.
E credo che è a questo che dovremmo puntare tutti. Il problema è che non si può fingere la sicurezza, vengono fuori isterismi, aggressività, porcherie.
Cioè si finisce o per soccombere o per cercare di attaccare l'altro prima che lui attacchi noi.

Per questo non capisco: se pure concettualmente non la credo vera, io ho introiettato la convinzione di essere inferiore all'altro, inteso come al mio prossimo. Che poi è curioso, l'altro e i suoi bisogni valgono più di me (=sono inferiore), ma io devo essere comprensivo e accogliere l'altro (=devo essere superiore).
Cioè, come si fa a farsi "superiori", a farsi accoglienti, comprensivi e a pensare di non essere sommersi dall'altro, se ci si considera "inferiori"?

Essere tolleranti ai limiti dell'abnegazione è un prodotto del senso di colpa e della morale cattolica, che nulla ha a che vedere con il senso di amore Universale del dio o di chi per lui.
Cioè, il dio ama e accoglie tutti in quanto essere superiore, non si può amare tutti sentendosi inferiori.[senza fonte, riflessione a cazzo tanto per]

Raramente i rapporti sono fra pari. L'insicurezza serpeggia, celandosi/mostrandosi attraverso varie forme.
Due pari fra di loro possono parlare liberamente, l'uno fermerà l'altro quando riterrà che abbia sorpassato un qualche limite. Si educheranno reciprocamente.
Un rapporto in cui si teme di aprir bocca — qualsiasi siano i motivi — non ha futuro, non è un rapporto alla pari. O perché l'altro è troppo insicuro e abbiamo paura di ferirlo, o perché abbiamo paura di essere feriti noi.

Io credo che non serva a niente cercare di fare numero con le uscite o coi rapporti. Credo che ci siano dei nodi dentro di sé che vanno affrontati.

C'è chi ritiene che comunque nei rapporti si ferisce e si viene feriti, che è normale, che va accettato, che più si sarà vicini più sarà probabile farsi male, e ok. Ma noi stiamo vivendo un'incapacità aprioristica che non ha a che vedere solo con il terrore del male e dei conflitti.

Non è che siamo sbagliati perché siamo brutti, impacciati, goffi, disgustosi. Semplicemente siamo danneggiati dal rapporto con noi stessi, che nell'ambiente in cui siamo cresciuti non ha avuto modo di essere soddisfacente.
Ovviamente qui è impossibile tirare una riga e separarsi dagli altri, visto che l'ambiente, la famiglia e le persone incontrate lungo la vita hanno inciso profondamente.

Se sia possibile recuperare il rapporto con sé stessi a discapito di tutto non lo so ma sto cercando di scoprirlo.
Il problema è che ora ci si ritrova incastrati in questo discorso con noi stessi e con gli altri. Siamo al mondo e in mezzo alla gente, e non abbiamo altro che noi stessi, e dobbiamo fare i conti con questa cosa ogni giorno.

E non capisco.
La fobia è proprio lì in bilico fra il desiderio di avvicinarsi agli altri e il desiderio di non allontanarci da noi stessi.
Per questo io non credo che ci si identifichi nel disagio, o nel disturbo, semplicemente improvvisamente abbiamo un codice, un linguaggio Universale che parla chiaro e dice: io ho questa cosa qui, io ho questo problema qui.
Non si è affezionati alla malattia, non si vuole (solo) sentirsi finalmente affrancati, solo semplicemente si trova un modo per mostrarsi.

Non sto parlando di autodiagnosi, questo forum si chiama Fobia Sociale, se io vado a leggermi la definizione di fobia sociale penso: questo parla di me, racconta qualcosa di me. Ovvio che non basta, ovvio che non è completo, ovvio che presenta solo una serie di sintomi/comportamenti, ma è già qualcosa che posso cominciare a delineare, a studiare, a capire. Ed è qualcosa che posso far capire agli altri.

Non ci si vuole autoincasellare, incastrarsi nel "io sono così io sono malato baci", né appunto serve a molto rifiutare l'idea di avere tratti fobici perché "ma no uei io mica sono pazzo".

Cioè qui si perde di vista il fatto che la parola fobia sociale serve solo ad indicare qualcosa.
Per questo a volte si rivendica un disturbo, magari anche cautamente, dicendo: non voglio fare autodiagnosi, ma io mi ritrovo ad avere tratti evitanti, e leggendo le descrizioni del disturbo. . .
Cioè, ci si attacca alla cosa perché capiamo che parla di noi, che dice qualcosa di noi.

Il problema è che appunto spesso si rimane sul vago.
Si dice: tu hai paura del male, hai paura di soffrire, hai paura dell'umiliazione.
Ma anche, spesso, e purtroppo, quando il fobico pensa ai rapporti prova la stessa sensazione di quando si riflette sull'Universo e si prende coscienza di essere mortali e della morte.

Mi riferisco alla sensibilità.
Se pure come tutti si avranno degli atteggiamenti grossolani, parte dei fobici avrà una sensibilità che difficilmente riuscirà a tenere alle briglie.

Tutto risulta amplificato, ogni incontro, ogni parola detta e sentita apre un microcosmo.
E si viene travolti. E sommersi.

E qui sta la cosa: il fobico ha paura di essere sommerso, di perdere i propri spazi, di non essere più, di sentirsi scomparire nel rapporto, di essere fagocitato.
E non perché l'altro sia mostruoso e prevaricatore e maligno, ma perché appunto manca quel senso di sé che ci permetterebbe di muoverci liberamente nel mondo.


Edit:
Che poi mi fa ridere, migliorare il rapporto con sé stessi, ma come si fa? E nel frattempo cosa si fa? Come si vive? Se la propria interiorità si presta alle ferite come si risolve? Che cazzo di palle cazzo.
Alla gente allergica al sole non si dice: dai vai fuori che qualcosa cambierà.

Ma poi cazzo, come se più ti rapporti con gli altri più migliorassi e ti rafforzassi, ma non è mica detto.

Anche se tipo si va avanti seguendo il principio di prova ed errore, prova ed errore, prova ed errore non è detto che non se ne esca distrutti.

Se tutto è fuori controllo come funziona? Che chi riesce cavalca la cresta dell'onda e si salva e gli altri si attaccano a 'sto manico?

Ultima modifica di ~~~; 26-10-2014 a 09:16.
Vecchio 26-10-2014, 10:20   #2
~~~
Esperto
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Originariamente inviata da ****** Visualizza il messaggio

Concordo con quanto dici. Ed è una bella situazione del capppero, perchè poi il consiglio che ti danno tutti (o meglio i pochi a cui osi parlare di determinate sensazioni) è di "buttarti" ! E non è neanche detto che in alcuni casi non sia un consiglio utile ma non sono sicura che lo sia nel caso in cui la sensazione che hai nel confrontarti con gli altri è quella di annegare.
Grazie della risposta Ho trascritto pensieri un po' annaspanti, e bo

comunque non so cosa significhi lavorare con sé stessi, avvicinarsi a sé etc., una volta preso coscienza della cosa rimango ferma lì, non so e non capisco.

non è difficile che le cose sfuggano di mano e si concluda pensando massì tanto va tutto a cazzo

ma poi pure abbracciando quel pensiero non riuscirei a vivere "a spallate", fottendomene delle conseguenze. bo.

penserei ok va tutto a cazzo, però io non posso danneggiare nessuno, e ho paura che ad alzare troppo la testa qualcuno mi rimetta nei ranghi, quindi chiudiamoci qui.

Ultima modifica di ~~~; 25-06-2016 a 07:08.
Vecchio 26-10-2014, 10:59   #3
Principiante
L'avatar di Vision
 

Le discussioni riguardo il cosiddetto evitamento mi attirano sempre, proprio perchè ne soffro (come dici tu è come se qualcuno stesse parlando di me) e nel mio caso è stato diagnosticato, quindi è più attendibile di un'autodiagnosi, cmq sia proprio come dici tu non mi sento di dire non c'è più niente da fare, sono un povero pazzo, non ne uscirò mai.. cioè prendo atto di soffrire di questo disturbo e vado avanti, male, soffrendo, e senza fare niente di decisivo, a causa dell'apatia e di una probabile depressione...

Quote:
Originariamente inviata da ~~~ Visualizza il messaggio
Pensando all'evitamento mi è venuto in mente che nelle occasioni in cui si esce, si risponde a una telefonata, si chatta, si va ad un pranzo coi parenti etc., si cerca di "mettere da parte il disagio".

Cioè si separa il disagio da sé e da quel momento, come se fosse una parte di noi che può essere isolata e astratta, dimenticandosi che è lì con noi anche in quel momento
Questo è proprio quello che faccio anch'io, però non ci riesco mica a distaccarmi da questo disaggio, rimane con me per tutta la serata, per tutto il tempo, impedendomi di essere naturale e spontaneo.
Gli altri escono e si incontrano consapevoli del fatto che staranno bene insieme che si divertiranno che passeranno una bella serata, io invece mi preparo ad affrontare un'altra dura battaglia che ovviamente non vedo l'ora che finisca per infilarmi in macchina e andare via rilassandomi un pò, perchè, come dici tu, il tutto mi stanca parecchio...
Non c'è assolutamente un equilibrio, gli altri escono per divertirsi, io quando esco sto male, da qui all'isolamento è un attimo...

P.S: è cmq questo disaggio interferisce ogni volta si tratti di interagire con qualcuno, non solo quando si esce, si fa festa, pizza, ristorante, drink, ecc.

Ultima modifica di Vision; 26-10-2014 a 11:02.
Vecchio 26-10-2014, 11:49   #4
~~~
Esperto
L'avatar di ~~~
 

Quote:
Originariamente inviata da Vision Visualizza il messaggio
Questo è proprio quello che faccio anch'io, però non ci riesco mica a distaccarmi da questo disaggio, rimane con me per tutta la serata, per tutto il tempo, impedendomi di essere naturale e spontaneo.
Gli altri escono e si incontrano consapevoli del fatto che staranno bene insieme che si divertiranno che passeranno una bella serata, io invece mi preparo ad affrontare un'altra dura battaglia che ovviamente non vedo l'ora che finisca per infilarmi in macchina e andare via rilassandomi un pò, perchè, come dici tu, il tutto mi stanca parecchio...
Non c'è assolutamente un equilibrio, gli altri escono per divertirsi, io quando esco sto male, da qui all'isolamento è un attimo...
Nel mio caso (parlo di uscite con amici/persone che volevo vedere) il disagio è sempre stata una cosa più o meno sotterranea, nel senso che l'idea di uscire mi terrorizzava, magari la prima mezz'ora ero un po' in tensione però poi mi tranquillizzavo, con alcuni invece si giocava talmente tanto che appunto veniva facile distrarsi da quella sensazione.
Il problema è che diventando sempre più consapevole di come funziona la mia personalità mi sono resa conto di cosa mi faceva soffrire, e piano piano tutti i miei rapporti di amicizia (legami stretti e apparentemente profondi) mi sono diventati pesantissimi.
È che io appunto non riuscivo a manifestare i miei bisogni, a limitare i miei spazi. Cioè mi mostravo in altri modi, ma non trasmettendo all'altro il rispetto per me. Tipo, se io mi tratto di merda viene da farlo anche agli altri. Non è una cosa proprio consequenziale, è una cosa molto subdola.
E non è che è colpa della vittima, è che appunto chi appare debole o svantaggiato o troppo remissivo finisce per attirare comportamenti di un certo tipo, che se non vengono stroncati subito danno il via a delle dinamiche pericolose. Ma io non dico solo le cose negative. Faccio un esempio: se un'amica ha piacere a sentirmi al telefono tutti i giorni e non so dirle di no (anche se a me pesa) quella continuerà a chiamarmi.

C'è stato un periodo che mi è successa una cosa del genere, una mia amica (da cui mi sono congedata dopo estremi rimorsi/ripensamenti/sofferenze) mi chiamava tutti i giorni dopo la scuola, spesso con la pretesa di "studiare al telefono". Onestamente a me la cosa dava fastidio ma mi pungeva sul vivo tutto il suo essere, cioè non era il singolo comportamento che mi disturbava, proprio la totalità dei suoi modi e della sua persona sembravano schiacciarmi.
Con uno sforzo sovrumano le ho mandato un messaggio in cui le chiedevo di non chiamarmi più dopo la scuola, di limitare le chiamate insomma, e le spiegavo i motivi, ma forse il messaggio era appunto pregno di sensi di colpa e disaggi (non mi ricordo cosa le scrissi), ma non so cosa capì lei, addirittura in classe un compagno venne a dirmi "Ma perché non rispondi alle chiamate di XXX? Dice che hai paura della sua voce.". Eeeeehhhh?!, io incredula.
No raga nella vita bisogna saper mettere le cose in chiaro e non farsi spaccare i coglioni così ma chi cazzo li conosce a questi? Tra parentesi lo stesso compagno una volta mi attaccò al muro perché facevo troppe assenze.
Io non dico ah la gente è invadente e pazza ah io sono così e cosà, no no non me ne fotte un cazzo di come è la gente, io voglio sapermi difendere, pure da quella troia che ha figliato con mio cugino e mi tratta come una ritardata con frasi tipo "lavooora, ~~~!" perché dovevo passarle il biberon ed evidentemente non ero stata abbastanza repentina ma poi si piglia confidenze ma chi cazzo sei ma sta gente io potessi la piglierei a bastonate nei denti ma che è oh.


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Originariamente inviata da Vision Visualizza il messaggio
P.S: è cmq questo disaggio interferisce ogni volta si tratti di interagire con qualcuno, non solo quando si esce, si fa festa, pizza, ristorante, drink, ecc.
E infatti si giunge a questo, nel mio caso perché mi rendo conto di non avere modo di "difendermi", e quindi al momento sarebbe impossibile un confronto perché sono troppo satura ed è capace che al primo che mi piazza una parola storta gli trivello il culo
Vecchio 26-10-2014, 11:55   #5
Esperto
L'avatar di zoe666
 

ondine posso solo dirti che per quanto tu ti senta inferiore scrivi da dio e con una chiarezza e con una semplicità che ti invidio da morire.
Vecchio 26-10-2014, 14:49   #6
Esperto
L'avatar di Emil
 

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Pensando all'evitamento mi è venuto in mente che nelle occasioni in cui si esce, si risponde a una telefonata, si chatta, si va ad un pranzo coi parenti etc., si cerca di "mettere da parte il disagio". Non solo mascherandolo, cercando di rimuoverlo, di farsi due risate etc., ma anche manifestandolo attraverso il dialogo con un amico o con un parente o con un estraneo etc.

Cioè si separa il disagio da sé e da quel momento, come se fosse una parte di noi che può essere isolata e astratta, dimenticandosi che è lì con noi anche in quel momento, e magari si manifesta quando sentiamo di dover prendere fiato un momento andando in bagno, o in un momento di imbarazzo, o al sentire una frase o un discorso che ci turba e ci lascia perplessi, ricacciando un commento, cercando di rilassarsi, di stare bene etc.

Poi, magari, dopo che si torna a casa, si avverte una sensazione di infinita stanchezza dovuta a quella tensione a cui magari non facciamo tanto caso perché "sono stata con gli altri, abbiamo riso, abbiamo scherzato, ci sono state confidenze etc.".

I casi più chiari ovviamente sono quelli in cui il disagio si impossessa completamente di noi e lì appare appunto evidente che non è qualcosa che si può accantonare.
E paradossalmente quel disagio così forte, oltre ad essere ciò da cui si tenta di sfuggire, è anche rivelatore di quello in cui siamo incastrati. E cioè che ci ritroviamo in un contesto nel quale non possiamo esercitare liberamente la nostra persona.
Ma se ci pensi il disagio è la nostra persona. Il fatto di mascherarlo, simularlo o sminuirlo sono anch'essi sintomi del malessere perché ci mostrano nel tentativo (spesso goffo e maldestro) di nasconderci agli altri. Perché non vedano ciò che noi stessi rifiutiamo con orrore.
Come scriveva Pavese non si ci libera di qualcosa evitandolo ma attraversandolo.


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Ed è qui che sta il punto a parer mio.
La questione dell'autoaffermazione. Perché non è che se in una situazione ti trovi a disagio allora vuol dire che il rapporto con te stesso è malato, no.
Però la persona autoaffermata, da quel disagio si sottrae.
O perché non viene scalfito da ciò che lo circonda, o perché si allontana dal fastidio. Cioè in una maniera o nell'altra sa cosa vuole e nei limiti del possibile non permette a niente e nessuno di danneggiarlo. O comunque si muove in maniera da limitare i danni.

È questo che io vorrei per me e che non so come ottenere.
E credo che è a questo che dovremmo puntare tutti. Il problema è che non si può fingere la sicurezza, vengono fuori isterismi, aggressività, porcherie.
Cioè si finisce o per soccombere o per cercare di attaccare l'altro prima che lui attacchi noi.
Si vuole sottrarre il proprio disagio agli occhi altrui per non dover vedere utilizzare la forza degli altri contro la nostra debolezza che si è manifestata. Ed è così che ci si difende. Creo sia un destino comune a tutti.

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Essere tolleranti ai limiti dell'abnegazione è un prodotto del senso di colpa e della morale cattolica, che nulla ha a che vedere con il senso di amore.
A volte il senso di colpa riguarda solo noi stessi, che ci consideriamo inferiori sempre e comunque rispetto a chi ci sta di fronte finendo col dare poca importanza e nessuna dignità alle nostre ragioni. Nasce allora la tolleranza ad oltranza, la sottomissione fino all'annullamento della nostra persona la cui vita sarà sempre meno.

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Raramente i rapporti sono fra pari. L'insicurezza serpeggia, celandosi/mostrandosi attraverso varie forme.
Due pari fra di loro possono parlare liberamente, l'uno fermerà l'altro quando riterrà che abbia sorpassato un qualche limite. Si educheranno reciprocamente.
Un rapporto in cui si teme di aprir bocca — qualsiasi siano i motivi — non ha futuro, non è un rapporto alla pari. O perché l'altro è troppo insicuro e abbiamo paura di ferirlo, o perché abbiamo paura di essere feriti noi.
Cito ancora Pavese:<<Tu sarai amato il giorno in cui potrai mostrare la tua debolezza senza che l'altro se ne serva per affermare la sua forza>>.


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Se sia possibile recuperare il rapporto con sé stessi a discapito di tutto non lo so ma sto cercando di scoprirlo.
Il problema è che ora ci si ritrova incastrati in questo discorso con noi stessi e con gli altri. Siamo al mondo e in mezzo alla gente, e non abbiamo altro che noi stessi, e dobbiamo fare i conti con questa cosa ogni giorno.
La tua oscillazione tra il "recuperare" te stessa (o comunque il rimanere fedele a te stessa) e il protendersi verso gli altri è un dilemma e un inquietudine che accompagna chiunque.
Per alcuni il senso di individuazione è più pressante e necessario (vedi l'introverso o il timido) viceversa per altri il senso di appartenenza e di sentirsi parte di qualcosa ha la meglio. L'importante è cercare di assecondare ciò che ci riguarda maggiormente tra le due cose...dove ovviamente l'una non deve escludere per forza l'altra.

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Cioè, ci si attacca alla cosa perché capiamo che parla di noi, che dice qualcosa di noi.
Senso di appartenenza? Voler far parte di questo cosa per non sentirsi più "i soli" a farne parte.

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Mi riferisco alla sensibilità.
Se pure come tutti si avranno degli atteggiamenti grossolani, parte dei fobici avrà una sensibilità che difficilmente riuscirà a tenere alle briglie.

Tutto risulta amplificato, ogni incontro, ogni parola detta e sentita apre un microcosmo.
E si viene travolti. E sommersi.

E qui sta la cosa: il fobico ha paura di essere sommerso, di perdere i propri spazi, di non essere più, di sentirsi scomparire nel rapporto, di essere fagocitato.
E non perché l'altro sia mostruoso e prevaricatore e maligno, ma perché appunto manca quel senso di sé che ci permetterebbe di muoverci liberamente nel mondo.
Ecco qui non sono d'accordo. Il fobico, il timido, l'introverso, il depresso e così via non hanno una mancanza verso se stessi e gli altri, al contrario hanno un modo di sentirsi e di sentire gli altri (anche se si manifesta in modi differenti) molto spiccato. Perfino troppo.
Può darsi che questo sentire sofferto sia il frutto di introiezioni errate da parte del soggetto stesso ad es. riguardo i giudizi negativi altrui, le mancate conferme sociali, la mancanza di affetto...

Per esempio per quanto mi riguarda ho sempre avuto una forte componente emotiva. Ma le emozioni, come dici tu, spesso mi hanno sommerso, accecato senza riuscire a capire. Direi che ciò che accadeva (e accade ancora) non era spiegabile neanche con le mie capacità linguistiche, come se l'emozione stessa e le circostanze in cui si sviluppava fossero troppo complesse rispetto all'intelligenza e a ciò che sapevo...insomma rispetto agli strumenti che possedevo (e possiedo).
Per capire e spiegare ci vuole freddezza e distacco dall'oggetto, cosa che al momento mancano del tutto perché l'emozione è così forte che paralizza. Si sente molto più di ciò che è concesso gestire e spiegare.

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Che poi mi fa ridere, migliorare il rapporto con sé stessi, ma come si fa? E nel frattempo cosa si fa? Come si vive? Se la propria interiorità si presta alle ferite come si risolve?
Niente. Per me la realtà rimane una ferita costantemente aperta. La riflessione è, tra le altre cose, già una ferita. Ma non è vivere questo?
Vecchio 26-10-2014, 18:48   #7
Banned
 

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Se tutto è fuori controllo come funziona? Che chi riesce cavalca la cresta dell'onda e si salva e gli altri si attaccano a 'sto manico?
Esattamente. Dovresti riconsiderare le tue idee alla luce di questo principio assoluto.

Per quanto riguarda il disagio, esso subentra nel momento in cui l'idea che abbiamo di noi stessi e degli altri è diverso dalla realtà oggettiva. Nel momento in cui raggiungiamo una sorta di illuminazione nella quale tutto ci risulta più chiaro, e le azioni nostre e degli altri più prevedibili, siamo più in grado di interagire con la realtà senza incorrere nell'errore.

Quote:
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Che poi è curioso, l'altro e i suoi bisogni valgono più di me (=sono inferiore), ma io devo essere comprensivo e accogliere l'altro (=devo essere superiore).
Cioè, come si fa a farsi "superiori", a farsi accoglienti, comprensivi e a pensare di non essere sommersi dall'altro, se ci si considera "inferiori"?

Cioè, il dio ama e accoglie tutti in quanto essere superiore, non si può amare tutti sentendosi inferiori.
Qui secondo me sei fuori strada. Costruisci una scala di valori, contraddittoria, basata sull'altruismo; come se l'altruismo fosse l'unità di misura per valutare le persone. Poi parli di cose che devi fare.... che significa?

I principali, se non unici, moventi delle azioni umane sono la vanità e l'egoismo (gli stessi che, legati ad un bisogno di considerazione, molto probabilmente, ti hanno spinto a te scrivere e a me a rispondere) vincolati alla logica del profitto, a vantaggio dal punto di vista materiale e dell'amor proprio. Secondo questo principio l'unica scala di valori riscontrabile oggettivamente è: forte-superiore debole-inferiore derivata da una serie di interminabili battaglie

Quote:
Originariamente inviata da ~~~ Visualizza il messaggio
Raramente i rapporti sono fra pari. L'insicurezza serpeggia, celandosi/mostrandosi attraverso varie forme.
Due pari fra di loro possono parlare liberamente, l'uno fermerà l'altro quando riterrà che abbia sorpassato un qualche limite. Si educheranno reciprocamente.
Un rapporto in cui si teme di aprir bocca — qualsiasi siano i motivi — non ha futuro, non è un rapporto alla pari. O perché l'altro è troppo insicuro e abbiamo paura di ferirlo, o perché abbiamo paura di essere feriti noi.
I rapporti tra pari per lo più funzionano per affinità, per compatibilità e sopratutto per profitto; il tutto viene abbastanza naturale.
E' normale che i rapporti tra persone siano vincolate al compromesso (ha poco a che fare l'insicurezza), che debbano rispettare una sorta di protocollo al di fuori del quale si potrebbe entrare nel campo dell'ostilità e dello scontro. Non siamo esseri assoluti, siamo vincolati all'opinione che gli altri hanno di noi e all'impressione che noi vorremo dagli. Per esempio se noi due fossimo su un'isola deserta, e io avessi la certezza che tu non mi possa nuocere in nessun modo, ti confiderei tutti i miei segreti più nascosti perchè so che non subirei conseguenze rilevanti.

Ultima modifica di MisterIcs; 26-10-2014 a 18:52.
Vecchio 26-10-2014, 20:34   #8
Banned
 

A volte penso che il nostro problema sia di natura biologica e non dei principi sbagliati . Capisco il disagio

Ultima modifica di cancellato13248; 26-10-2014 a 20:37.
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