Pensando all'evitamento mi è venuto in mente che nelle occasioni in cui si esce, si risponde a una telefonata, si chatta, si va ad un pranzo coi parenti etc., si cerca di "mettere da parte il disagio". Non solo mascherandolo, cercando di rimuoverlo, di farsi due risate etc., ma anche manifestandolo attraverso il dialogo con un amico o con un parente o con un estraneo etc.
Cioè si separa il disagio da sé e da quel momento, come se fosse una parte di noi che può essere isolata e astratta, dimenticandosi che è lì con noi anche in quel momento, e magari si manifesta quando sentiamo di dover prendere fiato un momento andando in bagno, o in un momento di imbarazzo, o al sentire una frase o un discorso che ci turba e ci lascia perplessi, ricacciando un commento, cercando di rilassarsi, di stare bene etc.
Poi, magari, dopo che si torna a casa, si avverte una sensazione di infinita stanchezza dovuta a quella tensione a cui magari non facciamo tanto caso perché "sono stata con gli altri, abbiamo riso, abbiamo scherzato, ci sono state confidenze etc.".
I casi più chiari ovviamente sono quelli in cui il disagio si impossessa completamente di noi e lì appare appunto
evidente che non è qualcosa che si può accantonare.
E paradossalmente quel disagio così forte, oltre ad essere ciò da cui si tenta di sfuggire, è anche rivelatore di quello in cui siamo incastrati. E cioè che ci ritroviamo in un contesto nel quale non possiamo esercitare liberamente la nostra persona.
Ed è qui che sta il punto a parer mio.
La questione dell'autoaffermazione. Perché non è che se in una situazione ti trovi a disagio allora vuol dire che il rapporto con te stesso è malato, no.
Però la persona autoaffermata, da quel disagio si sottrae.
O perché non viene scalfito da ciò che lo circonda, o perché si allontana dal fastidio. Cioè in una maniera o nell'altra sa cosa vuole e nei limiti del possibile non permette a niente e nessuno di danneggiarlo. O comunque si muove in maniera da limitare i danni.
È questo che io vorrei per me e che non so come ottenere.
E credo che è a questo che dovremmo puntare tutti. Il problema è che non si può fingere la sicurezza, vengono fuori isterismi, aggressività, porcherie.
Cioè si finisce o per soccombere o per cercare di attaccare l'altro prima che lui attacchi noi.
Per questo non capisco: se pure concettualmente non la credo vera, io ho introiettato la convinzione di essere inferiore all'altro, inteso come al mio prossimo. Che poi è curioso, l'altro e i suoi bisogni valgono più di me (=sono inferiore), ma io devo essere comprensivo e accogliere l'altro (=devo essere superiore).
Cioè, come si fa a farsi "superiori", a farsi accoglienti, comprensivi e a pensare di non essere sommersi dall'altro, se ci si considera "inferiori"?
Essere tolleranti ai limiti dell'abnegazione è un prodotto del senso di colpa e della morale cattolica, che nulla ha a che vedere con il senso di amore Universale del dio o di chi per lui.
Cioè, il dio ama e accoglie tutti in quanto essere superiore, non si può amare tutti sentendosi inferiori.
[senza fonte, riflessione a cazzo tanto per]
Raramente i rapporti sono fra
pari. L'insicurezza serpeggia, celandosi/mostrandosi attraverso varie forme.
Due pari fra di loro possono parlare liberamente, l'uno fermerà l'altro quando riterrà che abbia sorpassato un qualche limite. Si educheranno reciprocamente.
Un rapporto in cui si teme di aprir bocca — qualsiasi siano i motivi — non ha futuro, non è un rapporto alla pari. O perché l'altro è troppo insicuro e abbiamo paura di ferirlo, o perché abbiamo paura di essere feriti noi.
Io credo che non serva a niente cercare di fare numero con le uscite o coi rapporti. Credo che ci siano dei nodi dentro di sé che vanno affrontati.
C'è chi ritiene che comunque nei rapporti si ferisce e si viene feriti, che è normale, che va accettato, che più si sarà vicini più sarà probabile farsi male, e ok. Ma noi stiamo vivendo un'incapacità aprioristica che non ha a che vedere solo con il terrore del male e dei conflitti.
Non è che siamo
sbagliati perché siamo brutti, impacciati, goffi, disgustosi. Semplicemente siamo
danneggiati dal rapporto con noi stessi, che nell'ambiente in cui siamo cresciuti non ha avuto modo di essere soddisfacente.
Ovviamente qui è impossibile tirare una riga e separarsi dagli altri, visto che l'ambiente, la famiglia e le persone incontrate lungo la vita hanno inciso profondamente.
Se sia possibile recuperare il rapporto con sé stessi a discapito di tutto
non lo so ma sto cercando di scoprirlo.
Il problema è che ora ci si ritrova incastrati in questo discorso con noi stessi e con gli altri. Siamo al mondo e in mezzo alla gente, e non abbiamo altro che noi stessi, e dobbiamo fare i conti con questa cosa ogni giorno.
E non capisco.
La fobia è proprio lì in bilico fra il desiderio di avvicinarsi agli altri e il desiderio di non allontanarci da noi stessi.
Per questo io non credo che ci si identifichi nel disagio, o nel disturbo, semplicemente improvvisamente abbiamo un codice, un linguaggio Universale che parla chiaro e dice: io ho questa cosa qui, io ho questo problema qui.
Non si è affezionati alla malattia, non si vuole (solo) sentirsi finalmente affrancati, solo semplicemente si trova un modo per mostrarsi.
Non sto parlando di autodiagnosi, questo forum si chiama Fobia Sociale, se io vado a leggermi la definizione di fobia sociale penso: questo parla di me, racconta qualcosa di me. Ovvio che non basta, ovvio che non è completo, ovvio che presenta solo una serie di sintomi/comportamenti, ma è già qualcosa che posso cominciare a delineare, a studiare, a capire. Ed è qualcosa che posso far capire agli altri.
Non ci si vuole autoincasellare, incastrarsi nel "io sono così io sono malato baci", né appunto serve a molto rifiutare l'idea di avere tratti fobici perché "ma no uei io mica sono pazzo".
Cioè qui si perde di vista il fatto che la parola fobia sociale serve solo ad indicare qualcosa.
Per questo a volte si rivendica un disturbo, magari anche cautamente, dicendo: non voglio fare autodiagnosi, ma io mi ritrovo ad avere tratti evitanti, e leggendo le descrizioni del disturbo. . .
Cioè, ci si attacca alla cosa perché capiamo che parla di noi, che dice qualcosa di noi.
Il problema è che appunto spesso si rimane sul vago.
Si dice: tu hai paura del male, hai paura di soffrire, hai paura dell'umiliazione.
Ma anche, spesso, e purtroppo, quando il fobico pensa ai rapporti prova la stessa sensazione di quando si riflette sull'Universo e si prende coscienza di essere mortali e della morte.
Mi riferisco alla sensibilità.
Se pure come tutti si avranno degli atteggiamenti grossolani, parte dei fobici avrà una sensibilità che difficilmente riuscirà a tenere alle briglie.
Tutto risulta amplificato, ogni incontro, ogni parola detta e sentita apre un microcosmo.
E si viene travolti. E sommersi.
E qui sta la cosa: il fobico ha paura di essere sommerso, di perdere i propri spazi, di non essere più, di sentirsi scomparire nel rapporto, di essere fagocitato.
E non perché l'altro sia mostruoso e prevaricatore e maligno, ma perché appunto manca quel
senso di sé che ci permetterebbe di muoverci liberamente nel mondo.
Edit: Che poi mi fa ridere, migliorare il rapporto con sé stessi, ma come si fa? E nel frattempo cosa si fa? Come si vive? Se la propria interiorità si presta alle ferite come si risolve? Che cazzo di palle cazzo.
Alla gente allergica al sole non si dice: dai vai fuori che qualcosa cambierà.
Ma poi cazzo, come se più ti rapporti con gli altri più migliorassi e ti rafforzassi, ma non è mica detto.
Anche se tipo si va avanti seguendo il principio di prova ed errore, prova ed errore, prova ed errore non è detto che non se ne esca distrutti.
Se tutto è fuori controllo come funziona? Che chi riesce cavalca la cresta dell'onda e si salva e gli altri si attaccano a 'sto manico?