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Vecchio 22-01-2015, 21:07   #1
Banned
 

Apro questo topic come contenitore di brani che ci hanno colpito per qualsiasi motivo, e che saremmo lieti di condividere.
Non devono essere necessariamente i nostri brani preferiti, né dobbiamo condividerne il contenuto. Chi vuole può specificare il motivo per cui ne è stato colpito, ma non è necessario.

Inizio io, con un estratto da "Italia de Profundis", di Giuseppe Genna:

"Nuovamente solo. Ero fuggito, con una scorta medicinale che avrebbe surclassato l’istituto farmacologico dell’ospedale locale, a Berlino. Pensando che era un utero passabile: la leggenda di una Berlino sotto renovatio sociale, formicolante di un melting pot in cui avrei potuto facilmente inserirmi, pullulante di locali dove avrei discusso di poetiche e situazioni geopolitiche, ricchissima di una vita notturna la cui fama dilagava in Europa – il luogo giusto dove difendermi. Fossi stato male, ero nel centro della sacra e benedetta sterilità della mia civiltà morente (ovviamente stetti male, si contano cinque episodi di dialoghi surreali con farmacisti berlinesi che non sono in grado di interagire in inglese, mentre disperatamente chiedo rimedi per emorroidi e stipsi: l’efficienza di Filini combinata con una mimica da Mr. Bean).
Per due settimane non avevo incontrato essere umano in tutta Berlino a cui rivolgere parola. Giravo, nella vitrea contemplazione, sorprendentemente priva di lutto per lei, osservavo la gente da una distanza siderea o da una vicinanza subatomica. Le prime sere avevo fatto il mio inglorioso ingresso in club che erano gli onfalos della nightlife im Berlin. Mi erano stati segnalati da un esperto traveller (sospetto un turista con interessi non soltanto per i panorami e i musei...), si ricordava a memoria i nomi dei locali, i target anagrafici dei partecipanti, le eventuali specialità che caratterizzavano questi supposti templi del divertimento europeo. Io entravo come un batterio inerte in un corpo ospite. Ero l’ultracorpo invisibile. Prendevo una birra, un superalcolico, cercavo zone umane in cui percepire la fessura di entrata, cercavo con tutta l’acribia che la mia finissima psicologia mi consente. Calcolavo attoniche, prossemiche, individuavo i leader di gruppo. Mi avvicinavo in momenti topici, con tattiche da guerriglia dei bottoni: il momento del brindisi, ciclico, era la fessura, aggiungevo il mio bicchiere a quello di una compagnia sassone e ululavo che l’Italia li salutava, con il ritorno di sguardi vitrei o, nel migliore dei casi, inquietantemente interrogativi.
Di sera in sera scalavo verso destini sempre più miserevoli.
Ero finito per accucciarmi in un centro sociale in pieno Mitte, abnorme nelle sue dimensioni: una specie di antro di Efesto a più piani sventrati, un colosseo coperto, dove da più punti convergeva verso il centro la musica new-metal di più complessi, invariabilmente onde sonore sempreguali, irritanti, disarmoniche, la degenerazione finale dei Kraftwerk sotto i miei orecchi che già avvertivano l’approssimarsi dei sintomi dell’otite cronica bilaterale. Mi ero accucciato con le spalle al muro graffitato come sono graffitati i muri a Garbagnate oltre che a Berlino, accucciato a terra, sul pavimento cementificato lercio, una superficie che ricorda in forma contemporanea la pavimentazione lignea e cosparsa di pozze di birra e polvere della locanda che il K. del Castello kafkiano osserva abbracciato a Frieda, nascosti sotto un tavolo. La differenza tra me e K., che non si può definire un campione di seduzione e buonasorte, è che, con K., Frieda ci sta – accanto a me ho due Frieda che invece non ci stanno. Fatta salva la radiazione metafisica di K., io risulto più sfigato della creatura kafkiana. Ho scelto di accucciarmi accanto a due Fride per un motivo letterario. In Italia una certa letteratura aveva riscoperto la figura della “ninfetta”: era molto di moda questo nabokovismo politically correct, perché certo non si aveva il coraggio del confiteor radicale, e quindi della fantasia pedofila messa su carta. Si ironizzava, ma il fatto era questo: nelle pagine celebratissime di certa narrativa italiana, impazzava la “ninfetta”, cioè il desiderio di scopare, per non si sa quale supposta perversione. La verità era che si trattava di una narrativa moralista. E che la critica peggiore e più maliziosa aveva recepito questo elemento che le è quintessenziale: il moralismo e la violazione beghina di tabù immaginari e molto, molto borghesi. Alessandro piperno, che è un mio amico, era indubitabilmente il consapevolissimo capofila dell’approccio narratologico alla “ninfetta”. Lo seguiva un codazzo che si immolava a una memoria mitologica, del gesto esistenziale mitologico, laddove l’aggettivo ha la sua collocazione ideale nel binomio del “mitologico Gilda”, il locale romano delle “ninfette”. La “ninfetta” come traccia di una vita trasognata ma comunque vita, e vita raccontata in letteratura, dove il confronto con se stessi, il proprio padre e tutti i momenti topici del romanzo borghese, che è morto e quindi trionfa nei gusti facili di un pubblico che rimpiange quando era borghese, trovano un’appropriata sede nostalgica e celebrativa.
Dunque sono due ninfette che paiono uscite dal Leoncavallo in un transporter di Star Trek, e approdate alla parete taggata dove mi accuccio io. Non raggiungono i vent’anni. Sono tedesche. A me, delle “ninfette”, non me ne frega niente. Però mi piace sentirmi Piperno, tentare la chance esistenziale offerta dal romanzo di Alessandro Piperno. Quindi dirò che la loro pelle serica, violata disgraziatamente da piercing labiali e da tatuaggi sugli avambracci lisci, quella pelle bianchissima, quello sguardo talmente innocente nel suo tentativo di apparire rotto ormai già a tutte le possibilità denutritive dell’esistenza, il loro apparire come punkabbestia prive di punk e di bestia, il lento dondolìo della gamba accavallata di una di loro, una gamba fasciata da una calza strappata appositamente, quello stralcio di carne priva di peluria, quel movimento bambino e grossolanamente peripatetico, il loro abboccare la bottiglia di Ceres, occasionale, il sussurro e l’arrochimento inatteso del loro colloquio, il gorgoglìo argentino delle risate che facevano esplodere dopo battute che non dovevano esserlo, la traiettoria delle loro valutazioni di caccia al maschio che puntavano nella folla discontinua al centro di questo Colosseo oscuro e prometeico – beh, tutto ciò emanava un certo magnetismo che avrebbe colpito Piperno, e quindi colpiva anche me.
Dopo un periodo di valutazione circa il momento adatto a rompere la distanza con le due Fride (periodo calcolabile secondo i metri in cui si contano stratificazioni cenozoiche), irrompo, io, il palesemente vecchio, il lubrico che si annuncia come tale al suo primo apparire, l’italiano che fa la cosa giusta che fanno gli italiani all’estero. Formulo, cioè, mentre stanno parlando tra loro, la domanda in raffinato idioletto anglosassone: “Speak english?”.
Giuseppe Genna.
Le ninfette.
Speak english.
A sorpresa mi rispondono che sì, parlano inglese, non sembrano rifiutare l’approccio del lubrico che non sono e che evidentemente percepiscono che non sono. Quando ti approccia Filini, se sei una donna, immagino che ti colga un moto di pietà. Così posso accedere a una domanda successiva e il raffinato scrittore Giuseppe Genna, quello che ragiona sugli archi voltaici che portano da Eschilo a Hugo attraverso Dante e Cervantes, chiede: “Cosa fate?”.
Cosa fate.
“Ora o nella vita?” risponde la Frieda più lontana, che è anche, ovviamente in quanto mi ha risposto, la più brutta delle due.
“Nella vita”.
Eschilo, Dante, Cervantes, Hugo.
“Università” risponde la Frieda più vicina.
“Alla Von Humboldt?” chedo. Ah!, le mie competenze berlinesi: so che l’università su iegarten, dove passa ogni anno metà della società occidentale sviluppata, è intitolata per me incomprensibilmente a Von Humboldt. Calcolo che, se dico che lì insegnavano Hegel e Schopenauer, e mi dilungo sul fatto che il secondo arrostiva internamente per ustioni da astio biliare in quanto Hegel gli lasciava cinque studenti, darei l’impressione di essere tra la guida turistica e Luciano Onder, l’esperto di prostata del Tg2."

[continua]
Vecchio 22-01-2015, 22:08   #2
Esperto
L'avatar di utopia?
 

L'unico che mi viene in mente da poter citare qui, tra i pochi "romanzi" che ho letto, è "Il tenente sturm", di Ernst Jünger.
Relativamente, un ottimo punto di vista sull'inutilità del corri-corri della vita.
O almeno, questo è il modo in cui io l'ho interpretato.

Quote:
Anche quel giorno era accaduto l’incredibile. Se ne era stato disteso all’interno della sua conca ardente, immobile, per un’ora, senza vedere altro che un’aspra curva della lunga e sottile linea di terra che, dall’altra parte, si staccava nettamente dall’erba. Là c’era un posto dove, ogni due ore, si poteva vedere il cambio di guardia di una sentinella inglese. Proprio così, anche quella volta non era stato là disteso inutilmente, un guizzo giallo era appena passato sulla cresta di terra. Sturm prese ancora una volta la mira, tolse la sicura e puntò il fucile. Adesso era là: una testa sotto un elmo grigioverde, sovrastato dalla bocca del fucile messo a tracolla. Sturm esitò quando la testa si trovò al centro della croce di collimazione del cannocchiale di puntamento.

La campagna si distendeva di nuovo tranquilla e morta, solo le bianche ombrelle della cicuta tremolavano di luce. Lo aveva colpito? Non lo sapeva. Ma la questione non era se adesso, dall’altra parte, quell’uomo tingesse di rosso il fango sul suolo della trincea oppure no. Ciò che pareva sorprendente era il fatto che lui, Sturm, freddo, lucido ed estremamente cosciente, aveva appena cercato di uccidere un altro. E continuava a chiedersi con insistenza: era ancora lo stesso di un anno fa? L’uomo che ancora di recente stava scrivendo una tesi di dottorato su « La riproduzione dell’ameba proteus per sezione artificiale »? Si poteva pensare un contrasto più grande di quello tra un uomo che si sprofonda amorosamente negli stati in cui la vita, ancora allo stato fluido, si raccoglie in minuscoli nuclei, e uno che, a sangue freddo, spara sulla creatura più sviluppata? Perché quel tale dall’altra parte poteva benissimo aver studiato a Oxford, così come lui aveva studiato a Heidelberg. Già, era assolutamente diventato un altro, diverso non solo nei fatti, ma - quel che era essenziale - anche nel sentimento. Perché il fatto che non provasse, nemmeno per un attimo, alcun rimpianto, ma piuttosto gratificazione, era la prova di una moralità profondamente trasformata. Ed era lo stesso per moltissimi che da tempo si avvicinavano di nascosto alla smisuratezza del fronte. Laggiù una stirpe nuova dava vita a una nuova interpretazione del mondo, passando attraverso un’esperienza antichissima. La guerra era una nebbia originaria di possibilità psichiche, carica di sviluppi; chi tra i suoi effetti riconosceva solo l’elemento rozzo, barbarico coglieva, di un complesso gigantesco, un solo attributo, con l’identico arbitrio ideologico di chi vi vedeva soltanto il carattere eroico e patriottico.

Dopo questo intermezzo, Sturm era di nuovo strisciato nelle trincee di combattimento e non aveva trascurato di gridare a tutti i vivandieri e a tutte le sentinelle che incontrava sulla sua strada mentre ritornavano dopo il cambio di guardia: « Ne ho appena ammazzato un altro ancora ». Nel dir ciò aveva fatto molta attenzione all’espressione dei volti: non ce n’era stato nemmeno uno che non avesse fatto un sorriso di approvazione. (pp. 25 - 26)
Quote:
Che senso aveva tutto lo splendore di cui gioiva, se era destinato a sprofondare in un gelido nulla, a frantumarsi senza scopo in fondo a un abisso come un calice levigato? Certo, questa distruzione non era affatto un’eccezione nel grande slancio del cosmo. La guerra era come la tempesta, la grandine e i lampi, si avventava sulla vita, senza badare dove colpiva. Ai tropici c’erano vortici di vento che infuriavano come animali selvaggi attraverso le enormi foreste. Spezzavano le palme piumate o le strappavano con tutta la radice e le abbattevano al suolo insieme agli altri alberi. Spazzavano via dai rami le grandi orchidee che profumano di vaniglia e sterminavano stormi di scintillanti colibrì. Cancellavano lo smalto dalle ali di farfalle indicibilmente colorate e gettavano fuori dai nidi i piccoli pappagalli. Ma questa poteva forse essere una consolazione per il singolo? Costui viveva una sola volta nella luce e, quando trapassava, l’immagine del suo mondo si dissolveva insieme a lui. (p. 53)
...
Il limite massimo di caratteri è nemico naturale di discussioni come questa.

Ultima modifica di utopia?; 21-02-2015 a 12:42.
Vecchio 22-01-2015, 22:48   #3
Esperto
L'avatar di Emil
 

<<[...] La psicologa aveva l'aria fresca, distesa. Dapprima ci fu un breve scambio riguardo alle dosi di farmaci; poi, in modo diretto, spontaneo, decisamente inatteso, mi chiese: "In sostanza, perché lei è così infelice?"
Tutto ciò era molto insolito; quella freschezza. E allora anch'io feci qualcosa di insolito: le porsi un breve testo che avevo scritto la notte precedente, per fare qualcosa della mia insonnia.
- "Preferirei sentirla parlare..." disse lei.
- "Legga."
Era decisamente di buon umore; prese il foglio che le porgevo e lesse le seguenti frasi:
"Alcune persone provano presto nella vita una spaventosa impossibilità di vivere da sé; in sostanza non sopportano di vedere la propria vita in faccia, e di vederla per intero, senza nessuna zona d'ombra, senza nessuno sfondo. La loro esistenza, lo ammetto, è d'eccezione alla legge della natura non solo perché questa frattura di inadattamento fondamentale si produce fuori da qualsiasi finalità genetica, ma anche per via dell'eccessiva lucidità che essa presuppone, lucidità che evidentemente trascende gli schemi di percezione dell'esistenza ordinaria. Talvolta basta mettere di fronte a una di queste persona un'altra persona - a condizione di poterla supporre altrettanto pura, altrettanto trasparente - perché tale insostenibile frattura si risolva in un'aspirazione luminosa, tesa in permanenza verso l'assolutamente inaccessibile. Sicché, laddove giorno dopo giorno lo specchio non riflette altro che una stessa immagine esasperante, due specchi paralleli elaborano e costruiscono una rete netta e fitta che impegna lo sguardo umano lungo una traiettoria infinita, senza limiti, infinita nella sua purezza geometrale, al di là delle sofferenze e del mondo."
Sollevai gli occhi, la guardai. Aveva l'aria un po' sorpresa.
- "Interessante, la faccenda dello specchio..."
Doveva aver letto qualcosa di Freud, o su Topolino. Insomma, faceva quel che poteva, era dolce. Ripreso coraggio, aggiunse:
- "Comunque preferirei che mi parlasse direttamente dei suoi problemi. Ancora un volta lei si tiene troppo sull'astratto".
- "Può darsi. Però non capisco, concretamente, come la gente riesca a vivere. La mia impressione è che tutti quanti dovrebbero essere infelici. Vede, noi viviamo in un mondo enormemente semplice: da un lato c'è un sistema basato sulla dominazione, sul denaro e sulla paura - un sistema decisamente maschile, che chiameremo Marte; dall'altro c'è un sistema femminile basato sulla seduzione e sul sesso, che chiameremo Venere. Tutto qua. E' davvero possibile vivere e credere che non ci sia altro? Insieme ai realisti della fine del XIX secolo, Maupassant ha creduto che non ci fosse nient'altro; e questo lo ha condotto alla pazzia furiosa."
- "Lei fa una gran confusione. La follia di Maupassant era soltanto uno stadio dello sviluppo della sifilide. Tutti gli esseri umani normali accettano i due sistemi di cui lei parla."
- "E invece no. Se Maupassant è diventato pazzo, è stato perché aveva un'acuta consapevolezza della materia, del nulla e della morte - ma non ne aveva di nient'altro. Simile, in questo, ai nostri contemporanei egli stabiliva una separazione assoluta tra la propria esistenza individuale e il resto del mondo. E' l'unico modo possibile oggigiorno per pensare il mondo. [...] Più in generale, siamo tutti soggetti all'invecchiamento e alla morte. E per l'individuo umano il concetto di invecchiamento e di morte è insopportabile: nella nostra civiltà, esso si sviluppa sovrano e incondizionato, saturando progressivamente il campo della coscienza senza mai lasciarsi sostituire da altro. Così, poco a poco, si stabilisce la certezza della limitazione del mondo. Persino il desiderio svanisce; non restano che l'amarezza, la gelosia e la paura. Soprattutto resta l'amarezza; un'immensa, inconcepibile amarezza. Nessuna civiltà, nessuna epoca è stata in grado di sviluppare nell'individuo una simile mole di amarezza. Da questo punto do vista viviamo momenti senza precedenti. Se occorresse riassumere in una sola parola lo stato mentale del nostro tempo, senza dubbio sceglierei questa: amarezza.">>


Da Estensione del dominio della lotta di Michel Houellebecq

Ultima modifica di Emil; 22-01-2015 a 23:01.
Ringraziamenti da
Angus (22-01-2015)
Vecchio 22-01-2015, 22:59   #4
Super Moderator
L'avatar di Loner
 

Interessante questo topic, peccato non ci sia il tasto SPOILER, servirebbe tanto per discussioni come questa.

Al momento non mi viene in mente nulla, posterò sicuramente qualcosa più avanti.
Vecchio 25-01-2015, 14:51   #5
Esperto
L'avatar di Emil
 

La fuga


Ieri soffiava un vento conosciuto. un vento che avevo già incontrato.
Era una primavera precoce. Camminavo nel vento a passi decisi, rapidi, come tutte le mattine. Eppure avevo voglia di ritrovare il mio letto e distendermi, immobile, senza pensieri, senza desideri, e di restare sdraiato fino al momento in cui avrei sentito avvicinarsi quella cosa che non è voce né gusto né odore, solo ricordo vaghissimo, venuto da oltre i limiti della memoria.
Lentamente la porta si è aperta e le mie mani abbandonate hanno sentito con terrore il pelo serico e dolce della tigre.
- Musica! - Ha detto. - Suoni qualcosa. Al violino o la piano. Meglio al piano. Suoni!
- Non sono capace, - ho detto. Non ho mai suonato il piano in tutta la mia vita, non ho nemmeno un pianoforte, non l'ho mai avuto.
- In tutta la sua vita? Che sciocchezza! Vada alla finestra e suoni!
Davanti alla mia finestra c'era un bosco. Ho visto gli uccelli riunirsi sui rami per ascoltare la mia musica. Ho visto gli uccelli. Le piccole teste inclinate e gli occhi fissi che guardavano da qualche parte attraverso me.
La mia musica si faceva sempre più forte. Diventava insopportabile.
Un uccello morto è caduto da un ramo.
La musica è cessata.
Mi sono voltato.
Seduta in mezzo alla camera, la tigre sorrideva.
- Per oggi basta, - ha detto. - Dovrebbe esercitarsi più spesso.
- Si, glielo prometto, mi eserciterò. Ma attendo visite, lei capisce, per favore. Essi, loro, potrebbero trovare strana la sua presenza qui, a casa mia.
- Naturalmente, - ha detto sbadigliando.
A passi felpati ha varcato la porta che subito ho richiuso a doppia mandata dietro di lei.
Arrivederci, mi ha gridato ancora.


Line mi aspettava all'entrata della fabbrica, appoggiata contro il muro. Era così pallida e triste che ho deciso di fermarmi e parlarle. E invece l'ho superata, senza nemmeno girare la testa verso di lei.
Un po' più tardi, quando avevo già messo in moto il mio macchinario, era vicino a me.
- Sa, è strano. Non l'ho mai vista ridere. La conosco da anni. In tutti questi anni, lei non ha riso nemmeno una volta.
L'ho guardata e sono scoppiato a ridere.
- Preferisco che non lo faccia, - ha detto Line.
In quel momento ho sentito una viva inquietudine e mi sono affacciato alla finestra per vedere se il vento era sempre là. Il movimento degli alberi mi ha rassicurato.
Quando mi sono voltato, Line era scomparsa.
Allora le ho parlato:
- Line, ti amo. Ti amo veramente, Line, ma non ho tempo per pensarci, ci sono tante cose alle quali devo pensare, per esempio questo vento, adesso dovrei uscire e camminare nel vento. Non insieme a te, Line, non ti arrabbiare. Camminare nel vento è una cosa che non si può fare altro che da soli, perché c'è una tigre e un pianoforte la cui musica uccide gli uccelli, e la paura può essere dissolta solo dal vento, si sa, io è tanto che lo so.
Attorno a me i macchinari suonavano l'Angelus.
Ho seguito il corridoio. La porta era aperta.
Quella porta era sempre aperta e io non avevo mai provato a uscire da quella porta.
Perché?


Il vento spazzava le vie. Queste vie deserte mi sembravano strane. Non le avevo mai viste la mattina di un giorno di lavoro.
Più tardi mi sono seduto su una panchina di pietra e ho pianto.
Nel pomeriggio c'era il sole. Piccole nuvole correvano nel cielo e la temperatura era dolce.
Sono entrato in un bistrot, avevo fame. Il cameriere ha posato un piatto di panini davanti a me.
Mi sono detto:
<<Ora tu devi tornare in fabbrica. Devi tornarci, non hai alcuna ragione di interrompere il lavoro. Si, adesso ci ritorno>>.
Di nuovo mi sono messo a piangere e mi sono accorto che avevo mangiato tutti i panini.
Ho preso il bus per arrivare più in fretta. Erano le tre del pomeriggio. Potevo lavorare ancora due ore e mezzo.
Il cielo s'è coperto.
Quando un bus è passato di fronte alla fabbrica, il controllore mi ha guardato. Più avanti mi ha toccato la spalla:
- E' il capolinea, signore.
Il posto dove sono sceso era una specie di parco.
Alberi, qualche casa. Era già notte quando sono entrato nel bosco.
Ora la pioggia era fitta, mista a neve. Il vento batteva selvaggiamente sul mio viso. Ma era lui, lo stesso vento.
Camminavo, sempre più veloce, verso una cima.
Ho chiuso gli occhi. Comunque sia non vedevo niente. Urtavo alberi a ogni passo.
- Un po' d'acqua!
Lontano sopra di me, qualcuno aveva gridato.
Era ridicolo, c'era acqua dappertutto.
Anch'io avevo sete. Ho lanciato la testa all'indietro e braccia aperte mi sono lasciato cadere. Ho affondato il viso nel fango gelato e non mi sono più mosso.
E' così che sono morto.
Presto il mio corpo s'è confuso con la terra.


Da Ieri di Agota Kristof
Vecchio 25-01-2015, 15:14   #6
Esperto
L'avatar di HelterSkelter
 

Certe volte mi giro e sento il tuo odore e non riesco ad andare avanti cazzo non riesco ad andare avanti senza esprimere questo terribile cazzo tremendo fisicamente doloroso cazzo questo desiderio che ho di te. E non ci credo che io sento questo per te e tu non senti nulla. Non senti nulla?

(Silenzio).

Non senti nulla?

(Silenzio).

Ed esco alle sei di mattina e inizio a cercarti. se ho sognato qualcosa su una strada o un pub o una stazione vado là. E ti aspetto.

(Silenzio).

Sai, mi sento veramente manipolata.

(Silenzio)

Nella mia vita non ho mai avuto problemi a dare agli altri ciò che volevano. Ma nessuno è mai stato capace di fare lo stesso per me. Nessuno mi tocca, nessuno mi è vicino. Ma tu mi hai toccata da qualche parte così a fondo cazzo da non credere e ora io non riesco a fare lo stesso con te. Perché non riesco a trovarti.

(Silenzio)

Com'è lei? Come farò a riconoscerla quando la vedo? Morirà, morirà, morirà anche lei cazzo.

(Silenzio).

Credi che sia possibile che una persona nasca nell'era sbagliata?
(Silenzio).

Vaffanculo. Vaffanculo. Vaffanculo perché mi rifiuti non essendoci mai, vaffanculo perché mi fai sentire una merda con me stessa, vaffanculo perché fai morire dissanguati il mio amore e la mia vita, vaffanculo a mio padre perché si fottuto per bene la mia vita e vaffanculo a mia madre che non l'ha lasciato, ma più di tutti, vaffanculo a Dio che mi ha fatto amare una persona che non esiste,VAFFANCULO VAFFANCULO VAFFANCULO.
.
.
.

-Tesoro che hai fatto al braccio?

- Mi sono tagliata.
- è un gesto da persone immature, in cerca di attenzioni. Ti ha dato sollievo?
- No.
- Ti ha allentato la tensione?
- No.
- Ti ha dato sollievo?

(Silenzio).

Ti ha dato sollievo?
- No.
- Non capisco perché l'hai fatto.
- Allora chiedimelo.
- Ti ha allentato la tensione?

(Un lungo silenzio).

Posso guardare?
- No.
- Vorrei guardare, per vedere se si è infettato.
- No.

(Silenzio).

- Lo sapevo che l'avresti fatto. Lo fa un sacco di gente. Allenta la tensione.

- Tu l'hai mai fatto?
- ...
- No. Figuriamoci troppo sano troppo sensibile. Non so dove l'hai letto, ma non allentala tensione.

(Silenzio).

Perché non mi chiedi PERCHE’?PERCHE’ mi sono tagliata il braccio?
- Ti va di dirmelo?
- Si.
- Allora dimmelo.
- CHIEDIMELO.

(Un lungo silenzio).

- Perché ti sei tagliata il braccio?
- Perché è fortissimo cazzo. Perché è straordinario cazzo.
- Posso guardare?
- Puoi guardare. Ma non toccare.-
(Guarda)
E secondo te sei malata?

- No.
- Io credo di si. Non è colpa tua. Ma devi diventare responsabile delle tue azioni. Per favore non lo rifare.

Mi spaventa la mancanza di quella lei che non ho mai sfiorato l'amore mi tiene schiava in una gabbia di lacrime.
Mi mastico questa lingua con cui non posso mai parlare.
Sento la mancanza di una donna che non è mai nata
Sono anni che bacio una donna che dice non ci incontreremo mai.
Tutto passa.
Tutto muore.
Tutto viene a noia.
il mio pensiero si allontana con un sorriso omicida
lasciando che un'angoscia stridente gridi dentro la mia anima
Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessunasperanza Nessuna speranza Nessuna speranza


Sarah Kane, tratto dallo spettacolo teatrale "Psicosi delle 4:48"
Ringraziamenti da
Angus (27-01-2015)
Vecchio 25-01-2015, 15:59   #7
Banned
 

Questa "scena" di uno dei miei romanzi preferiti mi ha molto commosso a suo tempo quando lo lessi. Alla lettura di questo brano io abbinerei questa musica, io leggo sempre con la musica... https://www.youtube.com/watch?v=q_7wNeA_Rrg"]https://www.youtube.com/watch?v=q_7wNeA_Rrg

"Oh, mio Dio" esclamò, "avevo tanto pregato, che speravo mi aveste ascoltato...! Mio Dio,
dopo aver perduto
la libertà della mia vita... mio Dio, dopo avere smarrito la calma della mente... mio Dio,
dopo avermi richiamato
all'esistenza... mio Dio, abbiate pietà di me, non mi lasciate morir disperato!..."
"Chi parla di Dio e di disperazione nello stesso tempo?" articolò una voce che sembrava
venire di sottoterra e
che, attenuata dall'opacità, giungeva a Edmondo con accento sepolcrale.
Edmondo sentì drizzarsi i capelli sulla testa, indietreggiò cadendo in ginocchio.
"Ah" mormorò, "finalmente sento parlare un uomo!"
Erano già quattro o cinque anni che non aveva sentito parlare altri che il suo carceriere, ed
il carceriere non è
considerato uomo dal prigioniero ma una porta viva aggiunta alla porta di quercia, o una
sbarra di carne e d'ossa
aggiunta alle sbarre di ferro.
"In nome del cielo" gridò Dantès, "voi che avete parlato, continuate a parlare, quantunque
la vostra voce mi
abbia spaventato. Chi siete?"
"Chi siete voi piuttosto?" domandò la voce.
"Un disgraziato prigioniero..." rispose Dantès, che non aveva alcuna difficoltà a farsi
conoscere.
"Di quale paese?"
"Francese."
"Il vostro nome?"
"Edmondo Dantès."
"La vostra professione?"
"Marinaio."
"Da quanto tempo siete qui?"
"Dal 1 marzo 1815."
"Il vostro delitto?"
"Io sono innocente."
"Ma di qual delitto siete accusato?"
"Di aver cospirato per il ritorno dell'Imperatore."
"Come! per il ritorno dell'Imperatore? L'Imperatore non è dunque più sul trono?"
"Egli ha abdicato a Fontainebleau nel 1814 ed è stato relegato all'isola d'Elba. Ma voi che ignorate tutto questo, da quanto tempo siete qui?"
"Dal 1811." Dantès rabbrividì; quest'uomo aveva quattro anni di prigionia più di lui.
"Sta bene, non scavate più" disse la voce, parlando in fretta, "soltanto ditemi a quale
altezza si trova lo scavo che fate."
"Rasente terra."
"Da che cosa è nascosto?"
"Dal mio letto."
"Hanno smosso mai il vostro letto da che siete in prigione?"
"Mai."
"Dove immette la vostra cella?"
"Ad un corridoio."
"E il corridoio?"
"Mette capo ad un cortile."
"Ahimè!" mormorò la voce.
"Oh, mio Dio che cosa avete?" gridò Dantès.
"C'è che ho sbagliato, che l'imperfezione dei miei disegni mi ha ingannato, che la
mancanza di un compasso
mi ha perduto, che una linea sbagliata sul mio piano ha equivalso a quindici piedi e che io
ho preso il muro che
voi scavate per quello della cittadella."
"Ma allora voi sareste uscito sul mare."
"Era ciò che volevo!"
"E se foste riuscito?"
"Mi sarei gettato a nuoto, sarei approdato a una delle isole che circondano il Castello d'If, sia l'isola di Daume, sia l'isola di Tiboulen, o ancora la spiaggia, ed allora sarei stato salvo."
"E avreste potuto nuotare fin là?"
"Dio me ne avrebbe dato la forza. Ma ora tutto è perduto!"
"Tutto?"
"Sì, richiudete il vostro foro con precauzione, non lavorate più, non vi occupate di mente,
e aspettate mie
notizie."
"Ma almeno ditemi chi siete..."
"Sono... io sono il numero 27."
"Vo i dunque non vi fidate di me?" domandò Dantès. Edmondo credette intendere un
amaro sorriso penetrare
per la volta e giungere fino a lui.
"Oh, io sono un buon cristiano" esclamò, indovinando per istinto che quell'uomo pensava
di abbandonarlo.
"Vi giuro per quanto c'è di più sacro, che mi farò piuttosto uccidere che far scoprire ai
vostri carnefici ed ai miei
l'ombra della verità. In nome del cielo, non mi private della vostra presenza, non mi
private della vostra voce, ve lo giuro, perché sono all'estremo delle mie forze, mi romperò la testa contro le
muraglie, e voi avrete a
rimproverarvi la mia morte."
"Quanti anni avete?" riprese l'incognito interlocutore. "La vostra voce sembra quella di un
giovane"
"Non so quant'anni abbia perché non ho misurato il tempo dacché sono qui. So che il
primo marzo 1815,
quando fui arrestato, avevo circa 19 anni."
"Non ancora 26 anni!" mormorò la voce. "A questa età non si può essere un traditore."
"Oh, no, no... ve lo giuro" ripeté Dantès. "Ve l'ho già detto, e ve lo ridico: mi farei tagliare a
pezzi piuttosto
che tradirvi."
ve lo giuro, perché sono pezzi piuttosto
che tradirvi."
"Avete fatto bene a parlarmi, avete fatto bene a pregarmi" riprese la voce, "perché avrei
pensato un altro
piano, e mi sarei separato da voi. Ma la vostra età mi tranquillizza; vi raggiungerò,
aspettatemi."
"E quando?"
"Bisogna che io calcoli i pericoli, lasciatemi, vi farò un segnale."
"Ma non mi abbandonerete, non mi lascerete solo, verrete da me, o mi permetterete di venire da voi? Noi fuggiremo assieme e, se non potremo fuggire, almeno parleremo, voi delle persone che
amate, io di quelle che
amo. Amate qualcuno?"
"Io sono solo al mondo."
"Allora amerete me... Se siete giovane, sarò vostro compagno, se siete vecchio, sarò vostro figlio... Ho un padre che deve avere 70 anni se vive ancora; non amavo che lui, ed una ragazza che si
chiamava Mercedes. Mio padre non mi avrà certo dimenticato, ne sono sicuro, ma lei, Dio sa, se lei pensa ancora a me... Vi amerò come amavo mio padre..."
"Sta bene" disse il prigioniero; "addio, a domani."
Queste poche parole furono dette con un accento che convinse Dantès. Non chiese di più,
si alzò, prese le
solite precauzioni per i rottami tolti dal muro, e rimise il letto al suo posto. Da quel
momento Dantès si
abbandonò del tutto alla sua felicità, pensando che non sarebbe stato certamente più solo,
fors'anche sarebbe
stato libero. Al peggio fosse rimasto prigioniero, avrebbe avuto un compagno. La prigionia divisa non è che un mezzo castigo.
I lamenti che si emettono in comune sono quasi preghiere, e le preghiere che si fanno in
due sono atti di
ringraziamento.
Per tutta la giornata Dantès passeggiò nella sua prigione: il cuore gli batteva di gioia.
Di tanto in tanto questa gioia lo soffocava. Si sedeva sul letto premendosi con una mano il petto. Al più piccolo rumore che sentiva nel corridoio, balzava alla porta.
Una volta o due, il timore che lo avessero separato da quell'uomo che non conosceva, e che già amava come
un amico, gli passò per il cervello. Allora era deciso: al momento che il carceriere avesse scostato il suo letto ed
abbassata la schiena per esaminare l'apertura, gli avrebbe fracassato la testa su quello stesso pavimento dove aveva rotto la brocca.
Sarebbe stato condannato a morte, lo sapeva, ma non stava forse per morire di noia e di disperazione al momento in cui questo rumore miracoloso lo aveva reso alla vita? La sera venne il carceriere. Dantès era steso sul letto; gli pareva che così avrebbe meglio fatto la guardia alla sua buca.
Senza dubbio guardava il suo visitatore importuno con uno sguardo stravagante, perché questi gli disse: "Oh,
vediamo! State per tornar pazzo?"
Dantès non rispose parola, ebbe paura che l'emozione della voce lo tradisse.
Il carceriere si ritirò scuotendo la testa.
Giunta la notte, Dantès pensò che il suo vicino avrebbe approfittato del silenzio e dell'oscurità per riprendere il dialogo, ma s'ingannò.
La notte passò senza che alcun rumore rispondesse alla sua febbrile aspettativa. Ma l'indomani, dopo la visita
del mattino, e mentre aveva allontanato il suo letto dal muro, sentì battere tre colpi distinti ad intervalli uguali. Si precipitò in ginocchio.
"Siete voi? disse. "Eccomi."
"Il vostro carceriere se n'è andato?" domandò la voce.
"Sì" rispose Dantès, "non ritornerà che questa sera... Abbiamo dodici ore di libertà!"
"Posso dunque agire?" disse la voce."Sì! sì! sì! senza indugio, sull'istante, ve ne supplico!"
La porzione di terra sulla quale Dantès, per metà introdotto nell'apertura, appoggiava le mani, sembrò cedere.
Si gettò indietro mentre un ammasso di terra e di rottami precipitò nel foro che veniva ad aprirsi sotto lo scavo da lui fatto. Allora, dal fondo di questo foro oscuro, e di cui non si poteva misurare la profondità, vide apparire
una testa, poi due spalle e finalmente un uomo tutto intero che uscì con molta agilità.

Da il romanzo, Il conte di Montecristo.

Ultima modifica di Stefania90; 25-01-2015 a 16:29.
Ringraziamenti da
Angus (27-01-2015)
Vecchio 25-01-2015, 22:13   #8
Esperto
L'avatar di Josef K.
 

Bellissimo questo topic. Mi riserverò il giusto tempo per selezionare qualche passo appropriato; purtroppo oggi non sono proprio in vena, rischierei di postare roba in stile Pasto nudo di Burroughs.
Vecchio 20-02-2015, 19:21   #9
Esperto
L'avatar di Emil
 

Questa è la più conosciuta di tutte le poesie tedesche che siano mai state scritte, una poesia che tutti i bambini tedeschi devono imparare a memoria:


Su tutte le vette
c'è quiete,
in tutte le cime degli alberi
non senti
quasi un respiro;
tacciono gli uccellini nel bosco.
Aspetta, tra poco
riposerai anche tu.


L'idea espressa non è certo originale: nel bosco tutto dorme, anche tu dormirai. Il senso della poesia però non sta nell'abbagliarci con un'idea sorprendente, ma nel rendere un istante dell'essere indimenticabile e degno di un'insostenibile nostalgia.
Tradotta alla lettera, questa poesia perde tutto.
Capirete quanto sia bella solo dopo averla letta in tedesco:


Über allen Gipfeln
Ist Ruh,
In allen Wipfeln
Spürest du
Kaum einen Hauch;
Die Vögelein schweigen im Walde.
Warte nur, balde
Ruhest du auch.



Ogni verso ha un numero di sillabe differente, c'è un alternarsi di trochei, giambi, dattili, il sesto verso è stranamente più lungo degli altri e, pur trattandosi di due quartine, la prima fase grammaticale finisce in modo asimmetrico nel quinto verso, creando così una melodia mai esistita prima e che troviamo unicamente in questa poesia, tanto splendida quanto banale.
Il padre l'aveva imparata in Ungheria, ai tempi in cui frequentava la scuola elementare tedesca e Agnes aveva la stessa età quando l'ascoltò da lui per la prima volta.[...]

[...]Il padre le aveva recitato per l'ultima volta quella poesiola due o tre giorni prima di morire. All'inizio Agnes aveva creduto che fosse per lui un modo di tornare alla lingua materna e all'infanzia; poi, vedendo che lui la fissava negli occhi con uno sguardo eloquente e familiare, pensò che volesse ricordarle la felicità delle loro passeggiate; soltanto alla fine si rese conto che quella poesia parla di morte: il padre voleva direi che stava morendo e che lo sapeva. Mai prima d'allora aveva pensato che quei versi innocenti, buoni per degli scolaretti, potessero avere quel significato. Il padre giaceva a letto, con la fronte sudata per la febbre, e lei gli stringeva la mano; trattenendo il pianto sussurrava insieme a lui: warte nur, balde ruhest du auch. Presto anche tu riposerai. E ormai riconosceva la voce della morte del padre che si avvicinava: era il silenzio degli uccelli che tacevano sulle cime degli alberi.
Dopo la morte si stese davvero il silenzio e quel silenzio era nell'anima di Agnes ed era belo; lo dirò ancora una volta: era il silenzio degli uccelli che tacciono sulle cime degli alberi. E più passava il tempo, più si udiva distintamente in quel silenzio, come un corno da caccia che risuona dal profondo dei boschi, l'ultimo messaggio del padre. Che cosa voleva dirle con il suo dono? Di essere libera. Di vivere così come voleva vivere, di andare la dove voleva andare. Lui non aveva mai osato. Per questo aveva dato tutti i mezzi a sua figlia, perché osasse lei.
Dall'istante in cui si era sposata, Agnes aveva perso la gioia della solitudine: in ufficio passava ogni giorno otto ore in una stanza con due colleghi; poi ritornava a casa, un'appartamento di quattro stanze.
Ma nessuna di queste stanze era sua: c'era un grande salone, la camera matrimoniale, la camera di Brigitte e il piccolo studio di Paul. Quando si era lamentata, Paul le aveva proposto, di prendersi come sua stana il salone e le aveva promesso (con indubbia sincerità) che li dentro ne lui ne Brigitte l'avrebbero disturbata. Ma come poteva stare bene in una stanza con il tavolo da pranzo e otto sedie abituate agli ospiti serali?
Ora forse è chiaro perché si sentiva così felice nel letto che Paul aveva appena lasciato, e perché attraversava così silenziosa l'ingresso, nel timore di attirare l'attenzione di Brigitte. Le piaceva persino il capriccioso ascensore, perché le concedeva qualche secondo di solitudine. Anche in macchina era contenta, perché la nessuno le parlava e nessuno la guardava. Si, la cosa più importante era che nessuno la guardasse. Solitudine: dolce assenza di sguardi.
Una volta entrambi i suoi colleghi si erano ammalati e lei per due settimane aveva lavorato nella stanza da sola. Aveva constatato con sorpresa che la sera era molto meno stanca. Da quel periodo sapeva che gli sguardi erano come pesi che la buttavano a terra, oppure come baci che le succhiavano le forse; che le rughe che aveva in volto erano state incise dagli aghi degli sguardi.[...]

[...]Questi pensieri fecero riaffiorare in lei il desiderio della Svizzera. Del resto, dalla morte del padre vi tornava due o tre volte all'anno. Paul e Brigitte, con un sorriso condiscendente, parlavano a questo proposito di bisogno igienico-sentimentale: va a spazzar via le foglie dalla tomba del padre e a respirare l'aria fresca dalla finestra spalancata di un albergo sulle Alpi. Si sbagliavano: anche se la non aveva un amante, la Svizzera era solo il profondo e sistematico tradimento del quale si rendeva colpevole nei loro confronti. Svizzera: il canto degli uccelli sulle cime degli alberghi. Sognava di restare li, un giorno, e di non tornare più. Si era spinta così lontano che qualche volta sulle Alpi era andata a vedere le case in vendita e in affitto, e dentro di sé aveva persino elaborato una lettera nella quale annunciava alla figlia e al marito che, pur non cessando di amarli, aveva deciso di vivere da sola, senza di loro. Li pregava soltanto di una cosa, che le facessero avere ogni tanto loro notizie, perché voleva avere la certezza che non accadesse loro niente di male. E proprio questo era tanto difficile da esprimere e da spiegare: aveva bisogno di sapere come stavano, anche se nello stesso tempo non desiderava affatto vederli ed essere con loro.
Questi naturalmente erano solo sogni. Come poteva una donna ragionevole abbandonare una vita matrimoniale felice? Eppure nella sua pace coniugale giungeva di lontano una voce seducente: era la voce della solitudine. Chiudeva gli occhi e ascoltava il suono del corno da caccia che veniva dal profondo di boschi lontani. In quei boschi c'erano delle strade e in una di queste c'era il padre; sorrideva e la chiamava a sé.


Da L'immortalità di Milan Kundera.
Vecchio 20-02-2015, 20:41   #10
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Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! I suoi occhi arditi lanciano frecce a qualche oggetto invisibile, in lontananza, nello spazio. Non deve avere più di otto anni, eppure non si diverte come converrebbe. Dovrebbe almeno ridere e passeggiare con qualche compagno, invece di restare solo; ma non è nel suo carattere.
Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! Un uomo, mosso da un disegno segreto, si siede accanto a lui, sulla stessa panchina, con fare equivoco. Chi è? Non ho bisogno di dirvelo; lo riconoscerete dalla sua conversazione tortuosa. Ascoltiamoli, non disturbiamoli:
- A che pensavi, bambino?
- Pensavo al cielo.
- Non serve che tu pensi al cielo; è già abbastanza pensare alla terra. Sei dunque stanco di vivere, tu che sei appena nato?
- No, ma chiunque preferisce il cielo alla terra.
- Ebbene, non io. Poiché il cielo è stato fatto da Dio, come la terra, stai pur certo che vi incontrerai gli stessi mali di quaggiù. Dopo la morte non sarai ricompensato secondo i tuoi meriti; infatti, se su questa terra ti infliggono ingiustizie (come più tardi proverai, per esperienza), non c'è ragione perché nell'altra vita non te ne vengano inflitte ancora. Ciò che puoi fare di meglio è non pensare a Dio, e farti giustizia da te, dal momento che ti viene rifiutata. Se uno dei tuoi compagni ti offendesse, non saresti forse felice di ucciderlo?
- Ma è proibito!
- Non quanto credi. Si tratta soltanto di non farsi prendere. La giustizia stabilita dalle leggi non vale niente; conta soltanto la giurisprudenza dell'offeso. Se tu detestassi uno dei tuoi compagni, non ti renderebbe infelice l'idea di avere ad ogni istante il pensiero di lui davanti agli occhi?
- È vero.
- Ecco dunque un compagno che ti renderebbe infelice per tutta la vita; infatti, vedendo che il tuo odio è soltanto passivo, non la smetterebbe mai di provocarti e di farti impunemente del male. C'è dunque un solo mezzo per far cessare questa situazione; sbarazzarsi del proprio nemico. Ecco dove volevo arrivare, per farti capire su quali basi è fondata la società attuale. Ognuno deve farsi giustizia da sé, altrimenti è soltanto un imbecille. Colui che riporta la vittoria sui propri simili è il più astuto e il più forte. Non vorresti, un giorno, dominare i tuoi simili?
- Sì, sì.
- Allora devi essere il più forte e il più astuto. Sei ancora troppo giovane per essere il più forte; ma fin da oggi puoi usare l'astuzia, lo strumento più bello degli uomini di genio. Quando il pastore Davide colpì in fronte il gigante Golia con una pietra lanciata con la fionda, non è forse ammirevole notare che soltanto grazie all'astuzia Davide ha vinto il suo avversario, e che se, al contrario, si fossero affrontati in un corpo a corpo, il gigante l'avrebbe schiacciato come una mosca? Lo stesso vale per te. In una guerra aperta, mai potrai vincere gli uomini su cui sei ansioso di imporre la tua volontà; ma con l'astuzia potrai lottare da solo contro tutti. Desideri le ricchezze, i bei palazzi e la gloria? o mi hai ingannato quando mi hai dichiarato queste nobili pretese?
- No, no, non v'ingannavo. Ma è con altri mezzi che vorrei ottenere ciò che desidero.
- Allora non otterrai proprio niente. I mezzi, virtuosi e bonari non portano a nulla. Occorre impegnare leve più energiche e intrighi più sapienti. Prima che tu diventi celebre con la tua virtù e raggiunga il tuo scopo, altri cento avranno tutto il tempo di farti capriole sulla schiena e di terminare la carriera prima di te, e così non vi sarà più posto per le tue idee anguste. Occorre saper abbracciare con maggiore apertura l'orizzonte del tempo presente. Per esempio, hai mai sentito parlare della gloria immensa che procurano le vittorie? Eppure le vittorie non si compiono da sole. Occorre versare sangue, molto sangue, per generarle e deporle ai piedi dei conquistatori. Senza i cadaveri e le membra sparse che tu scorgi nella pianura dove saggiamente si è prodotta la carneficina, non ci sarebbero guerre, e senza guerre non vi sarebbero vittorie. Come vedi, quando si vuole diventare celebri, è necessario immergersi con grazia in fiumi di sangue alimentati dalla carne da cannone. Il fine giustifica i mezzi. La prima cosa, per diventare celebri, è avere denaro. Ora, poiché tu non ne hai, occorrerà assassinare per procurarsene; ma poiché non sei sufficientemente forte per maneggiare il pugnale, fatti ladro, nell'attesa che le tue membra si siano irrobustite. E affinché si irrobustiscano più in fretta, ti consiglio di fare ginnastica due volte al giorno, un'ora al mattino e un'ora la sera. In questo modo potrai tentare il delitto, con un certo successo, a partire dall'età di quindici anni, invece di aspettare fino a venti. L'amore della gloria giustifica tutto, e forse, più tardi, padrone dei tuoi simili, farai loro del bene quasi pari al male che avrai fatto loro all'inizio!...
Maldoror si accorge che il sangue ribolle nella testa del suo giovane interlocutore; le sue narici sono dilatate, e le labbra emettono una leggera schiuma bianca. Gli tasta il polso; le pulsazioni sono velocissime. La febbre si è impadronita di quel corpo delicato. Teme le conseguenze delle proprie parole; si defila, lo sciagurato, contrariato per non essersi potuto intrattenere più a lungo con quel bambino. Se in età matura è tanto difficile dominare le passioni, in bilico tra il bene e il male, che cosa può mai accadere in una mente ancora piena d'inesperienza? e quanta energia relativa può occorrergli in più? Il bambino se la caverà con tre giorni di letto. Voglia il cielo che il contatto materno porti la pace in quel fiore sensibile, fragile involucro di un'anima bella!

(I canti di Maldoror) Isidore Ducasse conte di Lautréamont

Ultima modifica di Odradek; 20-02-2015 a 23:55.
Vecchio 02-03-2015, 17:00   #11
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Giovanni Papini
Un uomo finito

I. Un mezzo ritratto.

Io non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.
Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell’innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell’universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento. L’ho sapute dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo; le ho sentite e provate per la .prima volta in me, passati i vent’anni, in qualche attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, è letizia, è spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, triste, meditante.
Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso - né so il perché. Forse perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli altri? Non so: ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett’anni e che tutti i parenti l’accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi; i complimenti mi davan noia; i gesti mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagni dell’età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un “bambino scontroso” e le donne in capelli “un rospo”.
Avevan ragione: dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
Quando mi ritrovavo per caso con altri ragazzi non entravo quasi mai nei loro giochi. Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e seri di giudice e di nemico. Non per invidia: era piuttosto disprezzo quel che sentivo dentro in quei momenti. Fin da quel tempo incominciò la guerra fra me e gli uomini. Io li sfuggivo e loro mi trascuravano; non li amavo e mi odiavano. Fuori, nei giardini, chi mi scacciava e chi mi rideva dietro; a scuola mi tiravano i riccioli o mi accusavano ai maestri; in campagna, anche in villa dal nonno, i ragazzi dei contadini mi tiravan le sassate, senza che avessi fatto nulla a nessuno, quasi sentissero ch’ero d’un’altra razza. I parenti m’invitavano o mi carezzavano quando proprio non potevan farne a meno, per non mostrare dinanzi agli altri una parzialità troppo indecente, ma io m’accorgevo benissimo della finzione e dello sforzo e mi nascondevo e tacevo e ad ogni loro parola rispondevo sgarbato ed acerbo.
Un ricordo più di tutti gli altri s’è inciso nel mio cuore: umide serate domenicali di novembre o dicembre, in casa del nonno, col vino caldo in mezzo alla tavola, dentro a una zuppiera, sotto il gran lume a petrolio bronzato; col vassoio delle bruciate accosto e tutta la famiglia - zii e zie, cugini e cugine in quantità - coi visi rossi attorno.
Il patriarca, accanto al fuoco, bianco ed arguto, rideva e beveva. Scoppiettavano i ciocchi già mezzi coperti di lieve cenere delicata; sbattevano i bicchieri sui piatti; squittivano le zie bigotte e sapute sui casi e gli scandali della settimana e i ragazzi ridevano e strillavano in mezzo al fumo turchino dei sigari paterni. A me tutto quel brusìo di festa economica e idiota faceva male all’anima e al capo. Mi sentivo straniero lì dentro, e lontanissimo da tutti. E appena mi riusciva passavo di nascosto la porta e a passi prudenti, rasente al muro umidiccio, mi inoltravo nell’andito lungo e tenebroso che portava fin all’uscio di casa. E lì sentivo il mio piccolo cuore di solitario che batteva con veemenza, come se stessi per far un non so che di male, per commettere un tradimento. In quell’andito v’era una porta vetrata che dava sopra una corticina scoperta: la schiudevo appena e mi mettevo ad ascoltar l’acqua che veniva giù stanca e a malincuore, rimbalzando sui mattoni e sulle pozze; che veniva giù senz’entusiasmo, senza furia, ma con l’ostinatezza lenta e odiosa di qualcosa che non finirà mai. Ed io l’ascoltavo nel buio, col freddo nel viso e cogli occhi bagnati e se dallo spiraglio qualche goccia mi schizzava d’un tratto sulla carne mi sentivo felice, come se quella stilla capricciosa venisse a purificarmi, a invitarmi altrove, fuori delle case e delle domeniche. Ma una voce mi richiamava alla luce, al supplizio, ai commenti. “Che ragazzo maleducato!”. 5

Sì, è vero: io non sono stato bambino. Sono stato un “vecchio” e un “rospo” pensoso e scontroso. Fin da allora il meglio della mia vita era -dentro di me. Fin da quel tempo, tagliato fuori dall’affetto e dalla gioia, mi rintanavo, mi nascondevo, mi distendevo in me stesso, nell’anima, nella fantasticheria bramosa, nella solitaria ruminazione dell’io e del mondo rifatto attraverso l’io. Non c’era altro scampo, altra gioia per me. Non piacevo agli altri e l’odio mi rinchiuse nella solitudine. La solitudine mi fece più triste e più spiacente; la tristezza mi chiuse il cuore ed aizzò il cervello. La diversità mi staccò anche dai prossimi e la separazione mi fece sempre più diverso. E fin da quel principio di vita cominciai a gustare, se non a capire, la virile dolcezza di quell’infinita e indefinita malinconia che non vuole sfoghi e consolazioni, ma che si consuma in sé stessa, senza scopo, creando a poco a poco quell’abitudine della vita interna, solitaria, egoista che ci allontana per sempre dagli uomini.
No: io non ho mai conosciuto la fanciullezza. Non ricordo affatto d’essere stato bambino. Mi rivedo, sempre, selvatico e soprappensiero, appartato e silenzioso, senza un sorriso, senza uno scoppio di franca gioia. Mi rivedo pallido e attonito come nel mio primo ritratto.
La fotografia è strappata a metà, sotto il cuore. E piccina, sudicia e stinta: i bordi del cartoncino son neri, come le cornici dei morti. Un viso sbiancato di bambino sognante guarda verso sinistra e si sente che lì a sinistra, difaccia a lui, nessuno lo guarda. Gli occhi son tristi, un po’ affossati - non son venuti bene? -, la bocca è chiusa a forza, coi labbri un po’ soprammessi, per non far vedere i denti. Unica bellezza: i riccioli morbidi, lunghi, inanellati che cascan giù sul bavero della marinara.
La mamma dice che son io a sett’anni. Può essere. Questo mezzo ritratto è Tunica prova ch’io abbia della mia fanciullezza. Ma vi par forse questo un ritratto di bambino? Questo piccolo spettro slavato, che non mi guarda, che non vuol guardare nessuno?
Si vede subito che quegli occhi non son fatti per tingersi del celeste del cielo; son bigi, son nuvolosi di suo. Quelle gote si vede bene che son bianche, che son pallide e che saranno sempre bianche e sempre pallide: diventeranno rosse soltanto per fatica o vergogna. E quelle labbra così chiuse, volontariamente chiuse, non son fatte per aprirsi al riso, alla parola, alla preghiera, al grido. Son le 6

labbra serrate di chi patirà senza la seccante debolezza dei lamenti. Son labbra che verranno baciate troppo tardi.
In questa mezza fotografia sbiadita io ritrovo l’anima morta di quei giorni; il viso delicato del “rospo”; il cipiglio dello “scontroso”; l’accoramento calmo del “vecchio”. E mi si stringe il cuore ripensando a tutti quei giorni smorti, a quegli anni infiniti; a quella vita rinchiusa, quella mestizia senza motivi; a quella nostalgia incancellabile di altri cieli e d’altri camerati.
No, no: quello non è il ritratto di un bambino. Io vi ripeto che non ho avuto fanciullezza.
II. Un centinaio di libri.
Mi salvò da codesta solitudine senza luce la smania di sapere. Da quando ebbi conquistato rigo per rigo il mistero del sillabario - [massiccie lettere nere, minuscole ma in grassetto; oneste incisioni in legno; lontane e freddolose serate d’inverno, sotto al lume a petrolio, colla palla tutta dipinta di fiorellini arancioni ed azzurri, accanto alla mamma giovane e sola che cuciva coi capelli neri chinati sotto a’ riflessi] - io non ebbi piacere più grande né consolazione più sicura del leggere.
Vecchio 08-04-2015, 23:05   #12
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"La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s'ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie."

da 'Psico-Analisi', in 'La Coscienza di Zeno' , di Italo Svevo.

Ultima modifica di Loner; 08-04-2015 a 23:08.
Vecchio 26-04-2015, 20:17   #13
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L'avatar di Emil
 

[...]Girovagò per la città. Placida e assolata in un giorno d'autunno dell'America profonda. Un'apprensione nel cuore che non provava dai tempi in cui temeva il padre a seguito di qualche trasgressione infantile.
Mangiò un panino al drugstore e dopo pranzo si incamminò verso il cimitero. Su una stradina di campagna dove le foglie erano state riunite dal vento in andane gialle in mezzo al bosco oppure rotolavano sul macadam scuro. Era a un'ora di cammino e passavano poche auto.
Due colonne di pietra segnavano l'ingresso, la catena abbassata in un mucchietto dell'erba. Si inoltrò nella stradina di ghiaia tra le lapidi finché su una collina scorse un gazebo verde. Due uomini consumavano il loro pranzo seduti nell'erba. Suttree passando li salutò con un cenno del capo. Sotto il gazebo c'erano file di sedie pieghevoli, e fiori disposti sopra un ammasso di tessuto verde.
Non ebbe la forza di chiedere se era lì che sarebbe finito il suo bambino morto e andò oltre. Se c'erano altre sepolture in corso le avrebbe viste.
In una parte più antica del cimitero scorse alcune persone che passeggiavano. Un signore anziano munito di bastone, la moglie al braccio. Loro non lo videro. Procedevano tra le lapidi inclinate e l'erba incolta, col vento che soffiava gelido dai boschi nella luce del sole. Un angelo di pietra con le sue vesti di marmo logorate dalle intemperie, occhi bassi. Le voci dei sue anziani che si perdono nello spazio solitario, mormorii sospesi sopra quei luoghi di morte. I licheni sulle pietre sgretolate come uno strano chiarore verdognolo. Le voci si affievoliscono. Oltre lo schiaffeggio lieve dell'erba alta. Lui li vede chinarsi a leggere qualche scritta curiosa e si ferma davanti a un'antica tomba di famiglia che la crescita di un albero ha mezzo demolita. Dentro non c'è nulla. Niente ossa, né polvere. Com'è vero che i morti sono oltre la morte. La morte è ciò che i vivi si portano dentro. Uno stato di angoscia, come un'inquietante anticipazione di un ricordo amaro. Ma i morti non hanno memoria e il nulla non è una maledizione. Tutt'altro.
Si sedette nelle chiazze di luce tra le lapidi. Un uccello cantava. Cadeva qualche foglia. Sedette con le mani adagiate nell'erba a palmi all'insù come una marionetta rotta e la testa svuotata di ogni pensiero.[...]



[...]Una notte limpida sopra Knoxville sud. le luci del ponte danzavano sul fiume tra i piccoli isomeri lastricati di scuro di costellazioni lontane. Dondolandosi sulla sedia Suttree formulava gli interrogativi che l'ovale di luce tremolante sul soffitto doveva rivolgergli.
Ammettiamo che ci fosse qualcuno in ascolto e che tu stanotte morissi?
Mi sentirebbe morire.
Niente ultime parole?
Anche le ultime parole sono solo parole.
A me lo puoi dire, paradigma della tua stessa funesta genesi interpretato da una fiamma in una campana di vetro.
Direi che non sono stato infelice.
Non possiedi nulla.
Forse gli ultimi saranno i primi.
Tu ci credi?
No.
A che cosa credi?
Credo che gli ultimi e i primi soffrano allo stesso modo. Pari passu.
Allo stesso modo?
Non è solo nelle tenebre della notte che tutte le anime sono un'anima sola.
Di cosa ti pentiresti?
Di niente.
Di niente?
Di una cosa. Ho parlato con amarezza della mia vita e detto che mi sarei battuto contro l'infamia dell'oblio e della sua mostruosa assenza di volto e che in quel vuoto avrei eretto una stele dove tutti avrebbero letto il mio nome. Una vanità che ora abiuro in toto.
Il suo volto intagliato nel vetro nero lo guardava da sopra la spalla illuminata dalla lampada. Si chinò e spense la fiamma, il suo doppio, l'immagine sul soffitto. Un camion rombò sul ponte. [...]

(Suttree; Cormac McCarthy)
Vecchio 26-04-2015, 20:24   #14
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Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.
In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia. Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente; chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza.
Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo piú grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella.
Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo piú posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi mori le piú grandi battaglie. Cominciammo a recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.
Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria:
- Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia. -
Non so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il primo dei suoi figli. Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.

Gli uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti buttarmi a una mezza corsa. Mi sentí, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi piú sotto, mi ripeté di tornarmene su ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli piú grandi, quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa .
Mi spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentí al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbatté tre passi su.
Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero piú sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lí intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: “Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa”, ma non vedevo una testa d’uomo, in tutta la conca.
Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e sopratutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.
Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lí, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.
Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.

(Il gorgo- Beppe Fenoglio)
Vecchio 24-11-2015, 02:49   #15
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Originariamente inviata da Odradek Visualizza il messaggio
Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.
In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia. Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente; chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza.
Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo piú grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella.
Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo piú posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi mori le piú grandi battaglie. Cominciammo a recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.
Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria:
- Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia. -
Non so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il primo dei suoi figli. Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.

Gli uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti buttarmi a una mezza corsa. Mi sentí, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi piú sotto, mi ripeté di tornarmene su ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli piú grandi, quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa .
Mi spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentí al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbatté tre passi su.
Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero piú sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lí intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: “Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa”, ma non vedevo una testa d’uomo, in tutta la conca.
Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e sopratutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.
Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lí, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.
Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.

(Il gorgo- Beppe Fenoglio)

Molto, molto bello.
Vecchio 24-11-2015, 03:31   #16
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Spero che Odradek stia bene, e che se non dovesse leggere questo post sia perché abbia qualcosa di meglio da fare:



Gli uni dicono che la parola “Odradek” derivi dallo slavo e cercano su questa base di spiegare la formazione della parola. Altri invece stimano che essa derivi dal tedesco e sia soltanto influenzata dalla lingua slava. L’incertezza delle due interpretazioni permette però di concludere che nessuna delle due è esatta, tanto più che con nessuna delle due si può trovare un senso alla parola.
Naturalmente nessuno si occuperebbe di tali ricerche, se non esistesse davvero un essere il cui nome è Odradek. Alla prima appare come un rocchetto piatto, a forma di stella, e infatti sembra anche rivestito di filo; si capisce che non potrebbe trattarsi se non di vecchi fili strappati, tutti a nodi e ingarbugliati, d’ogni specie e colore. Ma non è soltanto un rocchetto; dal centro della stella sporge una piccola stanghetta trasversale, e su questa stanghetta ne è incastrata una seconda ad angolo retto. Per mezzo di quest’ultima stanghetta, da una parte e di uno dei raggi della stella dall'altra, il tutto può star su, ritto come su due gambe.
Si sarebbe tentati di credere che questa figura abbia avuto prima una qualche forma più razionale, e che adesso sia semplicemente rotta. Ma pare che non sia così; almeno nulla lo fa ritenere; non si scorgono aggiunte né tracce di rotture; l’insieme appare privo di senso, ma, nel suo genere, completo. D’altra parte è difficile poter dire di più, perché Odradek è mobilissimo ed è impossibile acchiapparlo.
Egli soggiorna, secondo i casi, in soffitta, per le scale, nei corridoi, nel vestibolo. A volte non si vede per mesi, probabilmente si è trasferito in altre case; ma torna sempre inesorabilmente a casa nostra. Talora quando si esce dalla porta e lo si vede per l’appunto lì sotto, appoggiato alla ringhiera della scala, vien voglia di rivolgergli la parola. Naturalmente non gli si fanno domande difficili, ma anzi (a questo ci induce la sua stessa piccolezza) lo si tratta come un bambino. “Come ti chiami?” gli si chiede. “Odradek” egli dice. “E dove abiti?” . “Senza fissa dimora” risponde egli e ride; ma è una risata senza polmoni, come un fruscio di foglie secche. Con questo la conversazione generalmente ha fine. Del resto è anche abbastanza raro ottenere queste risposte; sovente egli tace a lungo, come il legno di cui pare fatto.
Invano mi domando cosa accadrà di lui. Può egli morire? Tutto ciò che muore ha avuto prima uno scopo qualsiasi, un’attività, ed è questo che l’ha consumato. Ma Odradek? Che egli debba continuare ad avvoltolarsi giù per le scale, trascinandosi dietro filacce fra i piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli? Certo egli non fa del male a nessuno; ma l’idea che egli possa anche sopravvivermi mi è quasi dolorosa.


Il cruccio del padre di famiglia- Franz Kafka

Ultima modifica di Josef K.; 24-11-2015 a 11:19.
Ringraziamenti da
Angus (24-11-2015), minunmaailmass (24-11-2015)
Vecchio 04-05-2016, 20:56   #17
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L’Estraneo

di H.P. Lovecraft

“Quella notte il Barone sognò molte sciagure,
E tutti i suoi ospiti guerrieri, in forma ed apparenza
Di streghe, larve e grassi vermi delle sepolture,
A lungo tormentarono i suoi sogni.”
(j. Keats)

Infelice chi dell’infanzia ha soltanto memorie di paura e tristezza. Sventurato chi, volgendosi indietro, non vede che ore solitarie trascorse in sale vaste e malinconiche, tappezzate di lugubri tendaggi e file esasperanti di libri antichi, o in desolate veglie in boschi crepuscolari fitti di immensi alberi grotteschi coperti da erbe, che agitano silenziosi in alto i rami contorti.
Tale sorte gli dèi hanno riservato a me… A me: l’attonito, il deluso; l’abbandonato, l’infranto. Eppure, stranamente pago, mi aggrappo in modo patetico anche a questi ricordi appassiti negli attimi in cui la mente minaccia di soverchiarli per richiamare l’’altro ricordo.
Non so dove sono nato: so soltanto che il castello era infinitamente antico e infinitamente orribile, pieno di ànditi oscuri e di alti soffitti ove l’occhio null’altro incontrava che ombre e ragnatele. Le pietre dei corridoi in sfacelo parevano sempre odiosamente viscide, e ovunque stagnava un lezzo esecrabile, come di cadaveri ammucchiati nell’avvicendarsi delle morte generazioni.
Non vi era mai luce, sicché solevo talvolta accendere qualche candela e contemplare la fiamma per trovar conforto. Né mai risplendeva il sole al di fuori, ché gli alberi giganteschi crescevano più alti della torre più elevata che fosse accessibile. Una sola torre, nera, si innalzava al di sopra degli alberi, riuscendo a penetrare il cielo sconosciuto: ma era diroccata all’interno e non si poteva ascendere se non arrischiando una scalata pressoché impossibile lungo la parete nuda, pietra dopo pietra.
In quel luogo devo aver vissuto per anni, ma non so misurarne il numero. Qualcuno di certo doveva provvedere a ciò che mi era necessario; tuttavia, non mi sovviene di altri esseri umani all’infuori di me, né di alcunché di vivo eccetto i topi silenziosi, i pipistrelli o i ragni. Credo che chi mi ha allevato dovesse essere paurosamente vecchio, giacché la mia prima idea di un essere vivente fu di qualcosa che mi rassomigliava in maniera caricaturale, ma che era deforme, avvizzito e cadente come il castello.
Non trovavo nulla di grottesco nelle ossa e negli scheletri che affollavano una parte delle cripte di pietra dei profondi sotterranei. Nella mia fantasia, accomunavo quelle cose agli eventi quotidiani, e le ritenevo assai più naturali delle immagini variopinte di esseri umani che scorgevo in molti dei libri ammuffiti. Da quei libri ho appreso tutto ciò che conosco. Nessun maestro mi ha mai stimolato o guidato, né rammento di aver mai udito voce umana durante quei lunghi anni, foss’anche la mia stessa voce; di fatto, benché dalle mie letture avessi appreso dell’esistenza del linguaggio, non mi è mai venuto in mente di parlare a voce alta. Anche il mio aspetto era al di fuori delle mie congetture, dato che nel castello non vi erano specchi, ed io per istinto mi consideravo simile alle figure giovanili che vedevo disegnate o dipinte nei libri. E che fossi giovane lo deducevo dalla esiguità dei miei ricordi.
Sovente uscivo a sdraiarmi oltre il putrido fossato, sotto i cupi alberi muti ove passavo ore ed ore a sognare di ciò che avevo letto nei libri; e con ardente desiderio mi figuravo tra folle di gente gaia nel mondo assolato che si apriva oltre la foresta infinita. Una volta tentai di fuggire da quella foresta ma, non appena mi fui allontanato dal castello, l’ombra si fece più spessa e l’aria più densa di insidie paurose; al punto da indurmi a tornare indietro, in corsa affannosa, per timore di smarrirmi in quel labirinto di notturni silenzi.
Così, tra crepuscoli infiniti, sognavo ed aspettavo, senza neppure sapere che cosa aspettassi. Finché, in quella solitudine fatta di ombre, la mia brama di luce divenne così intensa da non darmi più pace, e sollevavo le mani supplicanti verso la nera torre in rovina che, sola, valicava la foresta innalzandosi nel cielo sconosciuto. Alla fine, mi risolsi a scalarla anche a costo di precipitare, perché sarebbe stato certo preferibile scorgere il cielo e poi perire, piuttosto che vivere senza aver mai conosciuto la luce del giorno.
Nell’umida penombra, mi inerpicai su per la scala di pietra antica e consunta, quindi, giunto là dove si interrompeva, mi aggrappai pericolosamente ai piccoli appigli che conducevano in alto. Pauroso e terribile mi appariva quel cilindro di roccia, inanime e privo di scale; tetra, diroccata e desolata, la torre era resa ancor più sinistra dai pipistrelli spaventati che agitavano ali silenti. Ma ancor più paurosa e terribile era la lentezza con la quale procedevo; difatti, per quanto continuassi ad arrampicarmi, il buio che mi sovrastava non accennava a dissiparsi, e fui assalito da una sensazione nuova: un gelo malefico, come di una muffa spettrale e immensamente antica. Rabbrividii domandandomi perché non raggiungessi mai la luce, e fui tentato di guardare in basso, ma non osai farlo. Immaginai che la notte mi avesse sorpreso d’improvviso, e invano tastai il muro con la mano libera alla ricerca di una finestra dalla quale sporgermi a guardar fuori per cercare di farmi un’idea dell’altezza raggiunta.
All’improvviso, dopo un’interminabile cieca scalata su per il terribile precipizio concavo, sentii il mio capo urtare qualcosa di solido, e capii allora di essere infine giunto al tetto, o comunque ad una sorta di soffitto. Nelle tenebre, sollevai la mano libera e saggiai l’ostacolo, che si rivelò di pietra e inamovibile.
Intrapresi dunque un mortale circuito all’interno della torre, aggrappandomi ad ogni appiglio che la viscida parete mi offrisse, finché arrivai ad un punto che cedette alla pressione della mia mano. Mi volsi nuovamente verso l’alto e presi a spingere la lastra – o porta che fosse – con la testa, usando entrambe le mani per la terrificante ascesa. Non intravidi la più fioca luce sopra di me e, allorché portai le mani più in alto, compresi che per il momento la mia scalata era terminata.
La lastra era difatti una botola che conduceva ad una superficie di pietra di circonferenza maggiore di quella della torre sottostante. Indubbiamente, si trattava del pavimento di un alto e spazioso osservatorio. Con grande cautela mi infilai attraverso la botola e cercai di impedire che la pesante lastra ricadesse a chiudere l’apertura, ma non vi riuscii. E mentre, esausto, giacevo sul pavimento di pietra, udii l’eco spaventosa della sua caduta; mi augurai di riuscire a risollevarla se fosse stato necessario.

Convinto di trovarmi ormai ad un’altezza prodigiosa, molto al di sopra dei detestati rami del bosco, mi tirai su e, annaspando tutt’intorno, cercai una finestra dalla quale, per la prima volta, avrei potuto vedere il cielo, la luna e le stelle di cui avevo letto.
Dovetti disilludermi: le mie mani non trovarono che nicchie di marmo sulle quali erano disposte lunghe casse esagonali di dimensioni inquietanti.
Ero sempre più dubbioso, e mi chiedevo quali antichi segreti fossero racchiusi in quell’elevata dimora da tempo immemorabile separata dal castello sottostante; ad un tratto, inaspettatamente, le mie mani si posarono su un arco che sormontava un portale di pietra istoriato con bizzarre cesellature.
Lo tentai, e vidi che era chiuso; poi, con uno sforzo supremo, superai tutti gli ostacoli e riuscii ad aprirlo tirandolo verso di me. Subito fui pervaso dall’estasi più pura che abbia mai conosciuto, perché, rifulgente di un quieto bagliore, attraverso una grata di ferro arabescata e al termine di una breve scalinata che risaliva dal varco appena trovato, v’era raggiante la luna piena, che non avevo mai visto prima, se non nei sogni e in quelle visioni confuse che non osavo chiamare ricordi.
Immaginando di aver raggiunto il pinnacolo più alto del castello, presi a salire di corsa i gradini che avevo scorto oltre il portale; ma una nuvola velò improvvisamente la luna e inciampai, per cui dovetti proseguire nel buio con maggior cautela.
Le tenebre erano ancora fitte quando giunsi alla grata. Mi provai a spingerla con prudenza, trovandola non serrata. Decisi comunque di non forzarla, temendo di precipitare da quell’altezza vertiginosa alla quale ero asceso. Quand’ecco, che la luna riapparve.
Il più demoniaco di tutti gli sconvolgimenti, è quello che unisce il profondamente inatteso con il grottescamente incredibile. Nulla di ciò che avevo sofferto fino a quel momento poteva paragonarsi al terrore che scaturiva dalla bizzarra prodigiosità della visione che ora si apriva dinanzi ai miei occhi, e all’assurdo che essa implicava.
La scena in se stessa era semplice, e al tempo stesso sbalorditiva, perché si riduceva a questo: invece di una vertiginosa prospettiva di cime d’alberi viste da una elevatissima altura, al di là dell’inferriata si stendeva tutt’intorno, al mio stesso livello, nient’altro che il solido terreno, una compatta superficie di terra interrotta da lapidi marmoree e adorna di colonne anch’esse di marmo, sovrastate dall’ombra di un’antica chiesa di pietra la cui guglia diroccata riluceva spettralmente nel chiarore lunare.
Semincosciente, aprii il cancello e, barcollando, m’incamminai lungo il bianco sentiero di ghiaia che si diramava in due diverse direzioni. La mia mente, pur stordita e confusa, conservava tuttavia il desiderio febbrile della luce, e neppure la scoperta incredibile che avevo fatto avrebbe potuto fermare i miei passi.

(continua)
Vecchio 04-05-2016, 20:57   #18
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(parte 2)

Non sapevo, né mi premeva saperlo, se l’avventura che stavo vivendo fosse un sogno, magia, oppure frutto della follia. Non aveva importanza alcuna per me, che ero più che mai deciso a contemplare ad ogni costo lo splendore e la gioia. Non sapevo chi fossi, né che cosa fossi, e neppure a quale mondo appartenessi; tuttavia, mentre avanzavo solitario incespicando ad ogni passo, nacque in me la coscienza di una sorta di spaventosa memoria latente che rendeva il mio procedere non del tutto casuale.
Passai sotto un arco che delimitava quella estensione di lapidi e colonne, e mi ritrovai così a vagare in aperta campagna. Talvolta seguivo la strada visibile, ma a tratti me ne allontanavo, seguendo una strana ispirazione, per percorrere prati nei quali ruderi scheletrici testimoniavano l’antica presenza di una strada dimenticata. Attraversai a nuoto il fiume che correva rapido e vi scorsi muscose rovine diroccate, vestigia di un ponte da lungo tempo caduto.
Dovevano esser certamente trascorse più di due ore, quando giunsi a quella che sembrava fosse la mia meta: un antico castello ricoperto d’edera che sorgeva in un parco fitto di alberi. Mi appariva assurdamente familiare, eppure era dotato di sconcertanti stranezze.
Osservai che il fossato era stato riempito e che alcune delle torri erano state demolite, mentre nuove ali erano state aggiunte all’edificio per disorientare l’osservatore. Ma ciò che contemplai con sommo interesse e diletto furono le finestre aperte, magnificamente ravvivate dalla luce, dalle quali si udiva provenire l’eco della baldoria più gaia.
Mi accostai ad una di essa e guardai dentro: una compagnia di persone curiosamente abbigliate si divertivano e parlavano allegramente tra di loro. Per quel che ne sapevo, non avevo mai udito prima d’allora il linguaggio umano, sicché potevo soltanto intuire quel che dicevano. Alcuni di quei volti recavano espressioni che richiamavano alla mia memoria reminiscenze incredibilmente remote, laddove altre sembianze mi risultavano del tutto estranee.
Scavalcai allora la bassa finestra e penetrai nella sala inondata dalla luce più splendente e, ciò facendo, passai dall’attimo di suprema e fulgida speranza allo spasimo più oscuro della disperazione e della rivelazione. L’incubo fu lesto a venire: allorché fui nella stanza, si verificò immediatamente una delle più terrificanti reazioni che mai avessi concepito.
Avevo appena varcato il davanzale, che su tutta la comitiva si abbatté un improvviso e inatteso terrore di spaventosa intensità, tale da sfigurare ogni volto e indurre ogni gola ad emettere le urla più orribili. Tutti fuggirono all’impazzata, e in quell’ondata di panico e confusione, alcuni caddero in terra svenuti e furono travolti dai compagni che scappavano in preda al delirio. Molti si coprivano gli occhi con le mani precipitandosi in una fuga cieca e impetuosa, durante la quale rovesciavano mobili e andavano a cozzare contro i muri, prima di riuscire a guadagnare una delle numerose porte.
Le grida erano raccapriccianti; ed io, rimasto solo e inebetito nella sala splendidamente illuminata, raggiunto dall’eco della urla che si allontanavano, tremavo al pensiero della minaccia invisibile che forse si celava in agguato presso di me.
Ad una prima occhiata superficiale, la stanza mi parve deserta ma, allorché avanzai verso una delle alcove, mi sembrò di avvertirvi una presenza: un movimento furtivo oltre la porta incorniciata da un arco dorato che sembrava dare accesso ad un’altra stanza identica alla prima.
Mentre mi approssimavo all’arco, cominciai a percepire quella presenza in maniera sempre più distinta; fu allora che, col primo e ultimo suono che la mia gola abbia mai emesso – un ululato spaventoso che mi sconvolse nel profondo quasi quanto ciò che lo aveva provocato – contemplai nella sua più piena e terrificante vivezza l’inconcepibile, indescrivibile e indicibile mostruosità che, al suo solo apparire, aveva trasformato una festosa compagnia in un branco di fuggiaschi deliranti.
Quella cosa, non posso neppure tentare di descriverla. Era un miscuglio di tutto ciò che è immondo, innaturale, ripugnante, abnorme e detestabile. Era lo spettro demoniaco della putrefazione, della decrepitezza e della dissoluzione; la marcia, stillante effigie delle rivelazioni più empie, l’orrenda esibizione di ciò che la terra misericordiosa dovrebbe tenere per sempre celato. Dio sa che non apparteneva a questo mondo o meglio non vi apparteneva più – eppure, con immenso orrore, riconobbi nei lineamenti corrosi dai quali affioravano le ossa, la parodia aberrante e perversa della forma umana, e in quell’insieme putrido e disfatto, scorsi qualcosa di indicibile che mi agghiacciò ancor di più.
Ero pressoché paralizzato, cionondimeno riuscii a trovare la forza per un pietoso tentativo di fuga; arretrai vacillando di un passo, ma non infransi l’incantesimo nel quale il mostro muto e innominabile mi teneva prigioniero. I miei occhi, stregati da quelle orbite vitree che li fissavano disgustosamente, rifiutavano di chiudersi ma, offuscatisi misericordiosamente dopo il primo sguardo, scorgevano ora quella cosa terribile in maniera indistinta.
Mi provai a sollevare la mano onde celare quella visione, ma i miei nervi erano così storditi che il braccio non seppe obbedire appieno alla mia volontà. Il tentativo fu però sufficiente a farmi perdere l’equilibrio, sicché, ondeggiando, avanzai di alcuni passi per evitar di cadere. Allora fui improvvisamente e angosciosamente consapevole della vicinanza di quell’essere-carogna, del quale mi parve di udire il sordo e odioso respiro.
Ormai prossimo alla follia, fui tuttavia capace di allungare una mano per respingere la fetida apparizione che mi incalzava così dappresso, quand’ecco che, in un istante di orrore cosmico e di evento infernale, le mie dita toccarono la putrida zampa del mostro tesa al di sotto dell’arco dorato.
Non urlai, ma tutti i demoni malvagi che cavalcano i venti della notte urlarono per me, allorché, in quello stesso istante, fui travolto da un’improvvisa e compatta valanga di ricordi che mi annientarono l’anima. Seppi allora tutto ciò che era stato; il ricordo valicò gli alberi e il castello spaventoso e riconobbi l’edificio, pur trasformato, nel quale mi trovavo. Ma, più terribile di tutto ciò, riconobbi l’empia abominazione che mi ghignava davanti mentre ritraevo dalle sue le mie dita insozzate.
Per fortuna nel cosmo, accanto all’amarezza, vi è anche il balsamo per alleviarla, e quel balsamo è il nepente. Nell’orrore supremo, l’oblio mi soccorse, e l’esplosione di quegli oscuri ricordi svanì in un caos di immagini degradanti.
Come in un sogno, fuggii dal maledetto castello stregato e corsi via in silenzio nella luce della luna. Quando tornai al cimitero marmoreo antistante la chiesa e discesi i gradini, non mi riuscì di smuovere la botola di pietra, ma non ne fui rattristato, sì tanto avevo odiato gli alberi e l’antico castello.
Adesso corro con demoni beffardi nel vento della notte, e di giorno mi trastullo tra le catacombe di Nephren-Ka, nella valle cupa e sconosciuta di Hadoth presso il Nilo. So che la luce non è per me, eccetto quella della luna sulle tombe rocciose di Neb, e neppure per me è la gaiezza, eccetto quella delle abominevoli feste di Nitokris ai piedi della Grande Piramide; eppure, nella mia nuova e sfrenata libertà, accetto quasi con gioia l’amarezza dell’alienazione. Perché, pur se l’oblio del nepente ha lenito la mia sofferenza, ugualmente so di essere un estraneo, uno straniero in questo secolo e tra coloro che sono ancora uomini. E lo so da quando ho proteso le dita verso quell’obbrobrio entro la grande cornice dorata: da quando ho proteso le dita e ho toccato la fredda e dura superficie di uno specchio.
Vecchio 23-09-2019, 04:56   #19
Banned
 

«Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, perché le parole le immiseriscono, le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più di questo vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov'è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore secondo me, quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti, ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.»

("Il corpo", S. King)
Vecchio 23-09-2019, 07:33   #20
XL
Esperto
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"I fatti comuni sono schierati nel tempo, allineati lungo il suo corso come su un filo. Là essi hanno i loro antefatti e le loro conseguenze, che si affollano e si susseguono senza tregua né interruzione. Ciò ha la sua importanza anche per la narrazione, la cui anima sono la continuità e la successione.
Che fare, invece, degli avvenimenti che non hanno il loro posto nel tempo, degli avvenimenti verificatisi troppo tardi, quando ormai l'intero tempo è stato distribuito, suddiviso, ripartito, e che ora sono rimasti in certo modo per aria, non incolonnati, sospesi, vaganti e senza dimora?
Che il tempo sia troppo ristretto per tutti gli avvenimenti? Possibile che tutti i posti nel tempo siano stati esauriti? Preoccupati, percorriamo l'intero treno degli avvenimenti, preparandoci ormai al viaggio.
Per amor del cielo, che non esista una specie di bagarinaggio dei biglietti per il tempo?... Controllare!
Calma, calma! Senza fretta eccessiva, sbrigheremo la faccenda senza chiasso tra noi. Il lettore ha mai sentito parlare di linee parallele del tempo in un tempo a doppio binario? Sì, esistono tali diramazioni secondarie, un po' illegali a dire il vero e problematiche, ma quando si introduce di contrabbando, come facciamo noi, un avvenimento in soprannumero da non classificare, non si può fare troppo i difficili. Proviamo, dunque, a lasciar diramare a un certo punto della storia una via secondaria, un binario morto, per dirottarvi questi avvenimenti illegali. Niente paura. Ciò accadrà senza che ci se ne accorga, il lettore non avvertirà la minima scossa. Chissà, forse mentre ne stiamo parlando questa oscura manovra è già stata compiuta alle nostre spalle e noi viaggiamo ormai su un binario morto."

Bruno Schulz, L'epoca geniale

Mi ha colpito questo brano perché ho sempre pensato che c'è una parte immaginaria in noi, in tutti, che non trova mai spazio. La realtà è una linea chiusa nel suo ordine, noi aspiriamo e siamo in un certo senso un piano, se non di più, e ad essere incastrati qua dentro si vedrà alla fine solo un pezzo di questo piano che viene schiacciato in un esistente ristretto.
L'idea un po' folle che oltre ai fatti schierati lungo questo corso temporale, c'è anche altro, e questo di più semplicemente non riesce a trovare spazio per andarsi a ficcare nei loculi appositi mi divertiva.
Ho provato sempre una sorta di tensione tra quel che è\era\sarà possibile, che immaginiamo, concepiamo e pensiamo, e quel che è ed avviene effettivamente.
Poi insomma l'idea dell'avvenimento verificatosi troppo tardi anche mi divertiva.
A quanto ammonta questo "troppo tardi"? Se non sta nella linea temporale dovrà andarsi a posizionare "dopo" tutto il tempo infinito trascorso già.
E viene fuori un'altra idea che qua è là è stata usata, con l'immaginazione si può in un certo senso superare anche l'infinito, che lo stesso si scoprirà poi non essere abbastanza capiente per contenere, appunto, questi fatti, avvenimenti, idee in sovrannumero.

Ultima modifica di XL; 23-09-2019 a 09:03.
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