Oggi presi la schedina, confrontai i miei pronostici con i risultati finali: 1 2 3... 8! Ho azzeccato tutti i match di calcio! 50 euro e rotti di vincita! Iuppi! Giubilo ed esaltazione.
Quindi scesi di casa stringendo la schedina vincente nella mano destra e mi avviai alla volta del centro scommesse ubicato al centro del paese.
Percorsi la strada principale costeggiata da negozi e abitazioni, districandomi affannosamente tra un via vai fenetico di persone e vetture. Poi lasciai la strada principale e traversai un giardinetto pubblico i cui prati erano cosparsi di un gran numeri di rifiuti, sino a giungere nei pressi di altre abitazioni. M’inoltrai tra due fila di case e proseguii con la mia solita andatura esitante, piuttosto pesante. Mi sembrava che non un solo movimento del mio corpo fosse giusto. Svoltai l’angolo e poco dopo m’imbattei in una ricevitoria di tabacchi dalla quale uscì un volto famigliare. I nostri sguardi si incrociarono, si scrutarono lungamente, ma mio padre non mi riconobbe. Mi venne meno il cuore.
Ma d’altronde io ero uno che è sempre passato inosservato. Non dovevo prendermela, bensì fregarmene. Al contrario i miei coetanei sembravano essere disposti a tutto pur di essere riconosciuti per strada. Il successo sembrava essere diventato una vera ossessione per loro. Nondimeno anche a me sarebbe piaciuto un giorno essere riconosciuto per strada. Se non dai fans, dai parenti stretti almeno! Giunto dinanzi il centro scommesse, ricominciai a vivere soltanto dopo che ebbi infilato l’entrata.
Una volta dentro al locale detti una veloce scorsa ai presenti - chi stava in fila davanti alle postazione, chi era seduto ai corner - allentai i denti e in un fiato dissi: “buongiorno!”, con foga. Molti abbandonarono le loro occupazioni e si voltarono. Tutti gli sguardi erano posati su di me, cagionandomi un vero tormento. “Buongiorno!” ripetè un ragazzo tra lo stupore generale. Erano le 8 di sera. “Buongiorno” ghignò un altro passandomi davanti e allontanandosi in una risata. Al che avrei voluto gridargli “buonasera!”, e poi indirizzargli improperi d’ogni genere, sacramentargli la madre, il padre e tutta la razza sua,
finché la rabbia non fosse sbollita, ma ritenni che non fosse carino alzare la voce in quel luogo affollato poiché avrei indisposto i presenti nei miei confronti. Cosicché dissimulai e mi trattenni dal rivolgermigli, abbassando il capo. Benché mi sentissi bruciare dalla rabbia, lo detestai in silenzio, nella testa. Questo vizio di tenere la rabbia cocente per sé, piuttosto che girarla agli altri. Questo vizio di trascinare la rabbia incandescente nella testa e farne oggetto della manipolazione della coscienza. Questo sporco vizio, così pericoloso e meschino. Serba, serba tutto dentro. Nella testa, trascina tutto nella testa. Ti aspettano belle giornate di rese dei conti, Complessato.
Ad ogni modo, me ne restai importuno sull’uscio ancora per un po’, ostacolando l’andirivieni degli avventori, raccolto in me stesso e con una spada di Damocle conficcata in testa, in urto con tutto quanto mi circondava. E la sensazione che volessi scappar via e che non vedessi l’ora di liberarmi da quella situazione così imbarazzante e penosa, e che allo stesso tempo restassi perché non stava bene andarsene dopo che si era appena entrati, rendeva la mia presenza ancor più importuna. Sicché strinsi i pugni per darmi lena e arrancai, strascicando leggermente la gamba destra irrigidita da uno spasmo muscolare, sino alla postazione libera più vicina.
Alla postazione numero due c’era una ragazza al computer, carina e ben curata. Mi avvicinai. Ero pallido, nervoso, imbarazzato e sentivo freddo. Mi avrebbe frainteso? In quello stato non potevo esprimere il mio vero io. La ragazza mi vide e allargò un meraviglioso sorriso, ma io non sostenendo il suo sguardo abbassai gli occhi e rimasi lì immobile, mentre di nascosto infilavo la mano nella tasca del pantalone e cincischiavo la schedina vincente. Lei continuò a fissarmi per un momento, poi diede un colpetto di tosse e azzardò: “ciao..”. Al che alzai lo sguardo e feci per salutarla anch’io. Aprii la bocca ma la voce non uscì. In quel momento il mio corpo era come una corda tesa. Mi sembrava di intravedere tutto attraverso una specie di sopore. Salvo poi riscuotermi allorché da dietro uno mi riprese con garbo: “Scusi buon uomo, se non sono troppo irrispettoso, vorrei porre alla sua cortese attenzione il fatto che lei ci stia mettendo un po’ troppo, e noi andremmo di fretta temo”. “UAGLIO'!!!! TE VU' SPICCIA'?! MANNAGGIA A CHI T'E' MUORT, MANNAGGiA!” fece eco un altro signore, levandosi furente dalla fila e inarcando un braccio verso di me. Incitato dunque dall’empatico e quantomai solidale signore, balbettai un flebile “ciao” alla ragazza, combattei nervosamente il pantalone affinché mi rendesse la schedina, estrassi quest’ultima e gliela accomodai facendola passare entro la fessura. Dopodiché le spiegai che ero venuto per ritirare la somma vinta risultante sulla ricevuta, parlandole velocemente e con foga quasi dovessi convincere prima me stesso dell’evento fortunoso. Allora lei afferrò la schedina e mi fece una smorfia di scherzoso rimprovero, come a voler rivelare uno spaccato di complicità tra noi, costringendomi a prorompere in una breve risata per allentare le fitte di emozione. Fu quello un momento di intensità tale da rasentare l’agonia.
Ciò nonostante ero contento, la contentezza mi si poteva leggere negli occhio immagino. La ragazza mi sorrideva ed io la guardavo trasognato. Quel viso porporino e quel sorriso cristallino. Era lì alla mia portata. La mia anima si levò d’impaccio e andò verso di lei. Ella sedeva come una regina soprannaturale nella dolcezza del suo sorriso.
Senonché poi i miei affastellamenti di fantasia vennero interrotti da una voce risoluta ed estranea. La ragazza richiamò la mia attenzione e mi disse che la schedina non era vincente, in quanto un pronostico non corrispondeva al risultato finale. La ragazza adesso era formale e monocorde nella voce, sorniona e noncurante nello sguardo. Tra me e lei si rendevano sensibili distanze che sembravo infinite. Non mi era vicino affatto. Non mi apparteneva più. A me sembrò di aver attraversato una specie di mondo fantastico sempre assorto in lei, da lei preso. Tutto doveva accendermisi nella fantasia prima che riuscissi a sentirlo come mio. Ed ero escluso dalla quotidianità, ero tagliato fuori dalla vita normale proprio a motivo dell’intensità dei miei sentimenti. Nondimeno ora la ragazza mi invitò con recisione a riprendere la mia schedina e a farmi da parte, di modo che il prossimo cliente sopravanzasse e avesse agio di fare la sua giocata.