Cos’è per voi la felicità? Cosa provoca in voi sentir parlare di felicità? Cosa succede quando osservate la felicità negli occhi e nei gesti altrui? E quando la percepite (se la percepite) in voi stessi?
A me la felicità crea imbarazzo, fastidio, scoramento. Perché so che non sono in grado di raggiungerla né tantomeno di mantenerla. Ciononostante, non provo alcuna invidia nei confronti di chi è felice, né desidererei mai trovarmi nei suoi panni (ho un senso dell’io troppo forte perché possa pensare di separarmi dalla mia condizione...sono un misero schiavo della mia individualità, per quanto brutta essa sia).
Col tempo sono arrivato a diffidare, anzi addirittura a temere e rifiutare l’idea che io possa essere felice, per via di almeno tre ragioni essenziali:
1) in primo luogo, la mia diffidenza nei confronti della felicità discende dal fatto che
non mi considero personalmente degno di essa. La felicità è nutrire sentimenti positivi nei confronti di sé stessi; ma come potrei sperare di nutrire sentimenti di tal genere, quando di fatto sono il primo a considerarmi un essere ributtante, una scoria dell’umanità, un lurido e spregevole verme la cui unica e legittima collocazione è quella di strisciare nell’oscurità dei più sordidi anfratti dell’esistenza? Io non dovrei nemmeno trovarmi in vita: non sono stato io a voler nascere, non ho chiesto a nessuno di mettermi al mondo. Eppure, una sera di ormai 28 anni fa ci sono stati due stron*i che hanno deciso ugualmente di concepirmi, e da lì sono cominciati (com’è ovvio e persino giusto) tutti i miei guai. Questo però non significa, attenzione, che io ce l’abbia a morte con la vita (se mi consentite il gioco di parole
). Semmai, ce l’ho a morte con me stesso, e soltanto con me stesso, perché vivere è una faccenda troppo grande per me, troppo difficile e astrusa, al di fuori della mia portata. Il problema per me non è la vita, ma la mia incapacità di viverla, l’inutilità della mia presenza in questo mondo. Al punto in cui sono non ho più particolari remore o imbarazzi a riconoscere questa mia incapacità, questa mia inutilità, a chiamarle col loro nome; ciò tuttavia non vuol dire che io sia disposto a perdonarmele. E quindi, se io sono capace soltanto di soffrire, è cosa buona e giusta che io soffra, e che soffra sino a creparne. Non vedo perché dovrei meritare altrimenti.
2) in secondo luogo, diffido della felicità in quanto col tempo ho sviluppato un particolare
gusto per l’autoflagellazione. Una volta trovai scritto su un libro di scienze che l’uomo può abituarsi a tutto, tranne che al dolore. Non so se sia davvero così, ho dei seri dubbi al riguardo, specie se penso alla mia condizione. Il fatto è che, a furia di masticare sofferenze e sentimenti negativi, il loro sapore diventa col tempo familiare, diventa rassicurante. E per quanto possa risultare amaro, arriva prima o poi il momento della scoperta che anche in esso si cela un non so che di sfizioso e di perversamente attraente. Quella scoperta è ciò che chiamo il gusto dell’io putrescente, dell’io che va in rovina. Dell’io, cioè, che proprio nel momento della sua disfatta, proprio nel momento in cui comincia a sentire il puzzo marcio della sua stessa carogna, avverte in qualche modo di stare esistendo, si rendo conto di esserci, e trova appunto in questo il senso potente della propria affermazione. E’ un io che si afferma distruggendosi. E’ un io che riesce a sfogare la sua vitalità solo contribuendo alla preparazione della propria fine, poiché tale atto è in fondo l’unico di cui si senta all’altezza.
Il sentimento dell’io, se ci facciamo caso, nasce sempre dalla sofferenza, e dalla sofferenza è continuamente alimentato, poiché essa scava intorno all’individuo un fossato che lo separa dagli altri, che lo spinge a concentrarsi sulla percezione del suo male e ritirarsi in sé stesso. Ecco quindi perché secondo me non è poi così incomprensibile né così raro che l’io giunga a volersi infliggere del male, a tormentarsi ed autoflagellarsi: l’io è figlio del male, e il male gli serve per continuare a sentirsi vivo. Non è che all’io piaccia la sofferenza. Semplicemente, gli piace sentirsi vivo (magari anche solo per una questione di istinto di sopravvivenza), e soffrire è l’unico strumento di cui a volte esso dispone per riuscire a farlo.
3) in terzo luogo, mi sono reso conto di rifiutare la felicità anche perché aspiro, nel mio intimo, a qualcosa di molto più elevato ed ambizioso:
il mio obiettivo ideale infatti non è di essere felice, bensì di essere sereno. A mio avviso c’è una grande differenza qualitativa tra i due stati. Essere felice significa generalmente riuscire a provare sentimenti positivi di appagamento e di fiducia in sé stessi nei vari campi dell’esistenza: salute, rapporti sociali e affettivi, lavoro, tempo libero, realizzazione della personalità. Così definita, la felicità costituisce uno dei poli entro i quali oscilla la condizione umana: da un lato la felicità, dall’altro il dolore e la sofferenza. Il problema è che la felicità, oltre ad essere estremamente difficile (seppur non impossibile) da raggiungere, è al contempo facilissima da perdere: bastano poche scosse accidentali (un lutto, una malattia, la perdita del lavoro, e via dicendo...) per far crollare a terra come burro anche la più solida delle roccaforti dei buoni sentimenti. Quante volte è successo anche a noi?
Ecco, proprio per questo io non aspiro assolutamente alla felicità. La felicità è effimera e illusoria, destinata ad essere soppiantata prima o poi dal suo funesto contraltare del dolore. Succede sempre, non dipende dalla nostra condotta, è un inevitabile fluttuazione dell’esistenza. La serenità, invece, si colloca su un piano ben diverso, e a mio avviso di gran lunga superiore. La serenità è l’accettazione dell’oscillazione umana tra felicità e dolore. E’ la consapevole, pacifica ed imperturbabile accoglienza non di uno soltanto dei due poli che caratterizzano la nostra condizione, ma di entrambe le polarità, della felicità come della sofferenza, del piacere come del dolore. La serenità è la massima sapienza, è trovare l’equilibrio pur in presenza delle continue disarmonie della vita. Si tratta sicuramente dell’obiettivo più difficile, ma è anche il più interessante, il più emerito, il più "sacro". Altro che la felicità.