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Elogio del suicidio
Il riscatto della vita
domenica 2 luglio 2006, di Alberto Giovanni Biuso - 9648 letture
Quando qualcuno decide oggi di porre fine ai propri giorni, le reazioni quasi ovvie vanno dallo sconcerto al fastidio, dalla pietà a un chiaro giudizio di patologia -“poverino; depresso; doveva avere molti e seri problemi”.
Quanto lontani siamo da una civiltà come quella romana, nella quale il porre fine alla vita era giudicato un atto di forza e di grande dignità umana, tanto che Plinio arriva persino a compiangere la divinità poiché essa non può uccidersi.
Quanto disperati e incapaci di riflettere sono gli umani che da un lato stanno sempre a lamentarsi degli innumerevoli problemi e sofferenze che l’esistere comporta e poi rimangono increduli e impauriti di fronte a coloro che ne traggono le logiche e pratiche conseguenze.
Il suicidio è in realtà un’espressione della vita che sa porre un limite alla propria decadenza, che è capace di sconfiggere persino la sofferenza quando essa diventa inguaribile.
Un antico saggio, Teognide, scrisse che «non nascere è per gli uomini la miglior cosa / né vedere i raggi acuti del sole / ma una volta che siamo nati varcare al più presto le porte dell’Ade / e giacere sotto un tumulo alto» (Elegie, vv. 425-428, trad. di F.Ferrari, Rizzoli 2000). E difficilmente si può negare l’evidenza del fatto «che nessuno è felice fra tutti gli uomini che il sole contempla» (Ivi, vv. 167-168).
Nietzsche riprende da par suo tale saggezza nella risposta che Sileno dà alla insistita richiesta del tracotante Mida, che voleva sapere quale sia per gli umani la cosa migliore: «il meglio è per te assolutamente inaccessibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa migliore, dopo di questa, per te è -morire subito». (La nascita della tragedia, Adelphi 1972, pag. 31). Cioran non può che ripetere la formula di Sileno: «Non nascere è indubbiamente la migliore formula che esista. Non è purtroppo alla portata di nessuno» (L’inconveniente di essere nati, Adelphi 1991, pag. 187).
Persino un libro biblico, il Qohélet sa che felice è chi «ancora non è stato» (4.3) o d’essere ha cessato (7.1). Ma come i Greci apollinei e solari, anche Qohélet sa trovare «una dolcezza nella luce» (11.7) e dal suo Canto si esce con la sensazione che l’infelicità sia un diritto dell’uomo ma la felicità sia il suo dovere (Qohélet, trad. di G.Ceronetti, Einaudi 1988).
Guardiamo quindi la realtà senza infingimenti. L’uomo non è soltanto avvolto dalla notte della morte e del nulla. Egli stesso è questa notte. Il nostro corpo può essere mirabile e insieme disgustoso, desiderato e repellente. La menzogna empirica, ideologica, usuale intesse di sé i nostri giorni. Le molteplici forme del conflitto, il nascosto inganno delle maggioranze, la pericolosa ma inavvertita potenza delle parole che devastano i sentimenti e creano mondi, il dominio planetario di immagini menzognere, la gratuita crudeltà verso gli altri animali, il tentativo reciproco, continuo e infaticabile di ingannarci in ogni istante, l’istinto omicida e l’impotenza speculativa delle masse...sono solo alcune delle forme esistenziali e politiche in cui s’esprime il quotidiano sforzo di sopravvivere.
E si vive tutti dentro l’invincibile muraglia della necessità. La morale è una grande fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (Céline, Viaggio al termine della Notte, Corbaccio 1995, pag. 459). L’urgenza della felicità è per noi una sorta di istinto, che rende assai raro un vero, integrale, dolore anche se la pena non ci lascia mai. In ogni caso, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento.
L’elogio più bello del suicidio è forse quello scritto da Fabrizio De Andrè in Preghiera in gennaio, nella quale il protagonista Luigi Tenco «ai suicidi dirà baciandoli alla fronte: “venite in paradiso là dove vado anch’io perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”». De Andrè difende la memoria e il senso di quei «morti per oltraggio che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio. Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai santi, Dio fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte».
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