Da bambino avevo paura quando c’era il compito in classe di matematica.Succedeva ogni giovedì.Il terrore iniziava la sera del lunedì,quando finivo di guardare Dallas.Se penso invece all’esame di maturità…ma questo lo dirò dopo.Comunque mi rivedo con affetto:ero pieno di speranza verso la futura vita.Sempre pulito,ben pettinato,il primo ad arrivare,timoroso ed educato,mi sedevo,dipendendo le mie cose con ordine e precisione,in attesa del maestro.
Ma avevo già allora difficoltà a concentrami,e mi lasciavo andare alla fantasia. Succedeva già a settembre,guardavo fuori dalla finestra della nostra classe al secondo piano l’autunno che arrivava. C’erano degli alberi alti,che sembravano ballare col vento,le prime foglie che cadevano nel cortile sopra dei scivoli ormai arrugginiti.Oltre si poteva ammirare la strada a scorrimento veloce dove passavano camion e auto per chissà dove.Volevo salirci su e andarmene per posti mai visti in quelle mattine col sole debole e stanco e il desiderio di far sparire tutti:il maestro che parlava,gli altri bambini che ascoltavano,l’intera scuola doveva essere distrutta.Io volevo essere solo un po’ felice.
Essere lasciato in pace.Andarmene per i boschi,per i prati,sedermi fra i fiori, correre nell’erba alta,salire sugli alberi secolari,costruirci la mia dimora e non pensare più a niente. E non avere paura di niente,nemmeno del compito di matematica.Catturare farfalle di ogni colore,per poi liberarle. Saltare.
A volte il maestro diceva di chiudere con le tendine le finestre.Si accendeva la luce. Fuori,a volte pioveva.Sentivo freddo e avrei voluto bruciare all’inferno.
Già alla scuola media cominciai a non andarci.Non come gli altri,che facevano sega insieme.Io me ne stavo da solo.Magari proprio davanti alla scuola.Guardavo il cancello chiuso.Le voci delle professoresse,le loro grida,i ragazzini che esultavano.Poi camminavo piano,me andavo su strade di periferia,verso la campagna,quella campagna degradata dall’industrializzazione selvaggia,mi sedevo su qualche pietra e guardavo gli acquitrini inquinati che riflettevano il colore del cielo. Rompevo il cielo con una mano,dentro l’acqua.Cosi avrei voluto distruggere l’intero pianeta.Come un dio.Come un dio infelice. I corvi e le civette erano i miei amici.Loro volavano.Loro non pensavano.
Allora prendevo qualche ramoscello e cominciavo a colpire l’erba,gli alberi,con furia ma senza una vera rabbia.
Ritornavo verso la scuola,passando per i vicoli del borgo antico,dove vedevo qualche vecchia seduta vicino alla porta,e si sentiva odore di salsa e di urina.
Sentivo la campanelle suonare e gli altri che uscivano contenti.Alcuni genitori venivano a prenderli con la macchina. A me non era venuto mai nessuno,nemmeno dai tempi della prima elementare.
Me ne andavo da solo,ma se qualcuno dei compagni mi raggiungeva gli dicevo che avevo passato una bellissima giornata divertendomi alla sala videogiochi.