Ciao a tutti,
è da qualche giorno oramai che osservo in silenzio questo forum. Sono una ragazza di 29 anni (romana), attratta dal comprendere a fondo cosa sia la sociofobia, in primis per conoscere veramente me stessa e per capire se anche io lo sono o se comunque ne ho sofferto (ma penso sicuramente di si, dato che il libro che sto leggendo a proposito di questo tema avalla del tutto i miei sospetti).
Non riuscirei a definirmi attraverso la descrizione di un’identità definita, che possa essere classificata come totalmente “normale” (ma esiste la cosidetta normalità?) oppure come totalmente “sociofobica”. L’essere umano ha poi così tante sfaccettature, ed è difficile definirlo perentoriamente!
Quello che posso dire è che mi sento una persona problematica, a mezza strada tra le due identità (normale e sociofobica), sempre sospesa in un equlibrio precario tra quello che sono stata un tempo e quello che potrei essere, se solo mi liberassi dalla mia paura del prossimo e lasciassi libero accesso all’espressione piena della mia interiorità e delle mie risorse.
In passato sono stata una bambina fortemente ansiosa, timorosa, timida, spesso oggetto di critiche altrui per questo. Ho sofferto tantissimo.
Il fatto di avere avuto un’infanzia turbolenta e contrastata (in casa e fuori di essa), mi ha paradossalmente lasciato addosso dei segni esterni ben riconoscibili: un viso e un corpo da bambina, quasi a testimonianza della mia tenace opposizione interiore alla possibilità o capacità di crescere del tutto. Non solo, ma è anche quell’aria trasognata - di chi vive costantemente tra le nuvole, sprovvista di quella malizia tipica di chi ormai “la sa lunga” - a farmi sentire e a rendermi ancora sempre un po’ bambina, nonostante custodisca preziosa dentro di me la lucida consapevolezza di ciò che sono, di quello che sono stata e dei miei vissuti.
Ho certo capito che la mia famiglia è stata determinante per la costruzione di un’immagine mentale negativa di me stessa, per via delle costanti critiche e della continua insicurezza di due genitori che mai sono riusciti ad afferrare il vero segreto della vita (l’armonia, la pace, la collaborazione, l’accettazione tollerante dei limiti altrui), soprattutto pronti ad investire i figli delle loro ansie, insicurezze, frustrazioni e fallimenti. Inoltre, ossessionati dall’idea che dovevo distinguermi dalla massa (seguace di un certo materialismo capitalistico-occidentale!!!!!!), hanno sempre cercato di rimarcare la mia distanza dagli altri, facendomi crescere con abitudini molto diverse da quelle altrui; tale diversità risultava, però, agli occhi della gente qualcosa di simile alla ridicolaggone incarnata: vestiti anni ’60-’70, smessi e usati (colloco i miei racconti tra gli anni ‘’80 e primi ’90), niente tv, niente oggetti figli della società del consumo (ossia barbie varie ecc) e di conseguenza impossibilità di condividere quelli che erano i miti di una generazione (cantanti, telefilm ecc)…insomma, tutte queste cose mi hanno sempre fatto sentire inadeguata rispetto al mondo; ma il bello è che lo ero anche rispetto alle aspettative di genitori!
Il problema era anche un altro: va bene educare i figli ad apprezzare il bello, ma se diventa coercizione o se il bambino avverte che questa ricerca del bello e del giusto si carica delle insicurezze e della aspettative di genitori desiderosi di riscatto sociale (perché il motore di tutte queste tensioni e ansie era appunto questo), allora lui non potrà mai essere sicuro nei panni calzatigli addosso a forza da educatori di questo tipo.
Insomma, ho vissuto un’infanzia all’insegna della diversità, dell’isolamento, sempre timorosa del giudizio altrui e del contatto col prossimo, anche se durante l’infanzia ho avuto comunque i miei legami di amicizia, cosa che è quasi del tutto mancata durante l’adolescenza (l’età più crudele, secondo me).
Devo dire che però, se da una parte i miei genitori mi hanno portato verso l’isolamento e sono stati la causa prima del mio estremo timore verso gli altri, devo anche dire che mi hanno offerto uno strumento inconsapevole per il riscatto: il senso della dignità, l’orgoglio di poter e dover costruire una personalità propria, scevra da stereotipi e da miti sociali di cui un’out-sider come Bridget Jones è costantemente all’inseguimento (che non sopporto appunt per questo) …
Poi, nel tempo, è cresciuta in me la passione per la letteratura (anche questo seme gettato da mia madre), che mi ha aiutato a rivalutare moltissimo quella prospettiva “strana” attraverso la quale io guardavo il mondo; non ero solo io quella a vedere il mondo da una prospettiva estraniata e solitaria, ma lo erano, assieme a me, tutti i più grandi pensatori, che sentivo quasi fratelli e compagni: e così ecco lo sguardo laterale di Sartre, grande filosofo esistenzialista francese che visse un’infanzia da emarginato a causa del suo occhio guercio, ma è stato proprio quello ad ispirargli tutta la sua filosofia dello sguardo. E così ecco Svevo-Zeno, che capisce come la salute, nella sua incapacità di vedere se stessa, sia più cieca della chiaroveggenza di chi, sentendosi malato, inetto, scava a fondo nelle contraddizioni della vita…ecco…le sorelle Bronte, che nel cupo silenzio della brughiera ventosa hanno sondato i misteri delle passioni umane, trascrivendone la violenza su carta. E poi ecco la solitudine aspra di Leopardi, l’infanzia traumatica del piccolo Berto (Saba), Sylvia Plath con i suoi umori altalenanti e la sua scrittura visionaria (soffriva di disturbo bipolare)…. E poi ecco tutti gli altri, capaci di offrirmi non le la sicurezza di una formula preconfezionata per imparare a vivere, ma nuova linfa vitale a nutrire quella folta schiera di domande riguardanti l’esistenza, capaci di farmi sentire non più sola di fronte al mistero del vivere e all’incessante-inquieto bisogno di farmi 1000 domande…”si legge per scoprire di non essere soli” diceva uno dei protagonisti di un film a me molto caro.
La mia passione per la letteratura, per il cinema e per il mondo fantastico dell’animazione mi ha creato una dimensione alternativa tramite la quale analizzare la realtà e sentirmi più sicura del mio modo d’essere, nonostante permanga tuttora in me una qual certa ritrosia verso il prossimo e un’ansia per molte situazioni sociali (e sporattutto quelle legate alle prestazioni di sé).
Oggi, posso dire di essere migliorata tantissimo, e questo grazie alle esperienze e alla possibilità di confronto con persone sensibili, in grado di capire il punto di vista di chi ha vissuto l’esclusione sociale e la diversità sulla sua pelle. All’università ho conosciuto persone splendide e affini (pochi ma buoni) e grazie alla possibilità di fare nuove esperienze anche con loro, mi sono “buttata” nel mondo e questo mi ha permesso di aprirmi e di scoprire il lato socievole e anche estroverso e loquace di me stessa (anche se tante cose le rifuggivo comunque e continuo a fuggirle tuttora se non c’è qualcuno al mio fianco).
Tornando al periodo universitario, mi sono sentita valorizzata dal prossimo e negli occhi dell’altro ho visto finalmente riflessa l’immagine di una me stessa che coincideva con quello che io sentivo di essere, senza quella distorsione di cui invece sono stata vittima ai tempi più crudeli della scuola, a causa della cecità e superficialità del prossimo. Nel tempo, grazie a ciò, la mia autostima è cresciuta, così come la mia capacità di ridimensionare la mia ottica “distorta e paranoica” sul mondo nonchè il mio egocentrismo negativo.
Penso che “gettarsi” nel vortice delle esperienze possa aiutare a migliorare e ad aprirci e riconosco di non essere più quella adolescente impaurita che ero sino a 10 anni fa, anche se di strada ne ho ancora tanta da percorrere.
Sono comunque convinta che esporsi alle situazioni possa aiutare a fortificare i punti deboli di chi ha il timore del prossimo e a farlo crescere, perché grazie “all’esposizione” ho imparato a fare cose che mai avrei immaginato prima, anche se devo ammettere di sentirmi come un funambolo su di una corda, in costante equilibrio precario, nel costante rischio di cadere nel baratro sottostante…
Ora ho iniziato a lavorare, e devo dire che l’impatto con la dimensione del lavoro è stata piuttosto devastante per me, e ha fatto risaltare fuori tutti quei fantasmi che pensavo si fossero finalmente dissolti nel tempo, e invece no…l’ansia è ritornata forte, così come il perenne senso di inadeguatezza di fronte alla ferocia del mondo; ho passato 2-3 mesi di depressione e di sconforto, ma ora sto cercando di vivere questo primo anno di lavoro sotto una prospettiva diversa: sfida ai miei limiti.
Ora vi saluto, ma volevo presentarvi il quadro di una ragazza che deve quotidianamente lottare per tenere a bada la propria ansia sociale, talvolta così simile ad un innuocuo spiritello dormiente in me, talaltra così simile ad un’infida bestia pronta a soffocarti nelle sue spire tentacolari…..la scuola è un bel banco di prova, ma non so se ce la farò…
Un caro saluto a tutti