Ci ho provato e infatti sono migliorato tantissimo, 10 anni fa manco potevo uscire di casa.
Ma basta solo vedere 4 anni fa, quando ho iniziato il mestiere che faccio tutt'ora: timidino e non spiaccicavo parola coi colleghi (per giunta avevo un capo paranoico che mi insegnava a diffidare di tutti perché la gente voleva sempre inchiappettarti
).
Adesso scherzo e rido coi colleghi e mi ritengono finanche simpatico.
Quote:
Originariamente inviata da Moonwatcher
Ma il punto non è quanto, è *cosa*?
Cioè mi sembra che a volte parliate di problemi emotivi come se fossero problemi pratici.
Si risolvono facendo delle *cose*? Se sì, *cosa*?
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La mia esperienza empirica mi porta a credere che in alcuni casi basti "fare" delle cose per ottenere dei risultati. Basta superare la propria comfort zone e applicarsi con un minimo di sforzo, e lo sforzo mano a mano diventerà meno pesante.
Ma non sempre è così, e l'ho provato sulla mia pelle.
Pertanto ho elaborato un modello. Nel mio modello, le persone stereotipizzano modelli comportamentali sulla base dei propri blocchi e delle proprie esperienze.
Molte volte i blocchi evaporano da loro, ma il modello comportamentale oramai è forgiato e continua ad autoalimentarsi. Con uno sforzo plastico è possibile modificare il proprio comportamento, inducendolo ad allargarsi e a prendersi i nuovi spazi disponibili.
Talvolta invece i blocchi rimangono, e qualsiasi sforzo risulta vano. Si riesce magari a fare quella singola attività fuori dalla propria consuetudine, ma doverla ripetere sarà difficile come la prima volta, non importa quante volte si tenta.
Anzi a volte insistere troppo peggiora la situazione.
Posso fare un esempio: ci sono due persone "normali", non fobiche e mediamente estroverse. Le convinciamo che iniziando a parlare con gli sconosciuti otterrebbero un certo numero di vantaggi. Uno inizia, si sente a disagio all'inizio, ma poi prende confidenza: diventa molto più spigliato ed estroverso di quando ha cominciato.
L'altro inizia, ma ad ogni tentativo si sente profondamente a disagio. Man mano che iniste comincia ad avvertire segnali di malessere, che si ripercuotono anche in chiave psicosomatica: tachicardia, brividi. L'altro non se lo ricorda, ma da piccolo ha avuto delle esperienze che l'hanno portato a diffidare dagli sconosciuti. Non era mai venuto a contatto con quel blocco prima di allora, e pertanto non ne era consapevole.
Pertanto se volesse proseguire su quel percorso (decisione che spetta solo a lui, mica è costretto!) è necessario prima che rompa o sciolga quel blocco, prendendo consapevolezza della sua origine e rimodellando i pensieri disfunzionali che attualmente alimentano quel blocco.
Tuttavia, anche il primo ragazzo, se non si fosse sforzato a fare qualcosa al di fuori del suo comportamento ordinario, sarebbe rimasto uguale e senza alcun "miglioramento".
Per questo sono un accanito sostenitore della terapia analitica combinata a un percorso cognitivo-comportamentale. Ritengo che l'una o l'altro, da soli, possono fare solo il 50% del lavoro.