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Vecchio 03-06-2017, 02:25   #1
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Secondo voi, siamo quello che pensiamo di essere, quello che vogliamo essere, o quello che gli altri pensano che siamo, che è di solito un parere più pratico e oggettivo? Ammetto che la domanda è ambigua e bisognerebbe chiarire anzitutto il concetto di essere, ma comunque, è più importante la soggettività, la nostra interiorità, o lo è più la nostra relazione con l'ambiente esterno? Io sono per l'individualismo, voglio dire ammesso che l'uomo abbia coscienza di se e del suo pensiero, allora quest'ultimo è la cosa più importante. In parole più semplici, se faccio un giudizio (in modo necessariamente convinto) verso una cosa (o persona), quella cosa (o persona) sarà il mio giudizio, quindi guardo e filtro il mondo esterno attraverso la mia mente. Per quanto vada alla ricerca della verità ci sarà sempre la mia mente a percepirla, quindi sarà inevitabilmente la mia mente a dare origine alla verità. E questo vale anche per il giudizio di noi stessi.
Ragionamento che può estendersi anche ad un livello più ampio: se un uomo vive in una condizione miserabile, però crede e crede fortemente che miserabile non lo è affatto, allora (per i suoi standard ovviamente, gli unici che hanno importanza secondo questo ragionamento) non è realmente miserabile.
Pirandello in uno,nessuno e centomila descrive esattamente questo, il rapporto tra l'individuo e l'ambiente circostante, fatto anche di persone, dicendo però l'opposto:

IV. Com’io volevo esser solo.
Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo.
Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza
me e appunto con un estraneo attorno.
Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?
Forse perché non riflettete bene.
Poteva già essere in me la pazzia, non nego, ma vi
prego di credere che l’unico modo d’esser soli veramente
è questo che vi dico io.
La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di
voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o
persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto
voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento
restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa
e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità
stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è
in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia
né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.
Cosí volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza
quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere.
Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente
di non poter piú levarmi di torno e ch’ero io
stesso: l’estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest’uno, o il
bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e conversare un po’ con
lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di
sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto
d’essere per me, chi ero io?
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio
naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei
occhi; all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via
dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi,
quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito
ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai
miei sentimenti, non potevo pensare.
Ma ora pensavo:
«E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per
gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti
hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo
d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono.
Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me,
nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso,
pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere
dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso?
Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione,
che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo
per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere.»
Cosí, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia:
che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli
atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedeva*no; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come
quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno
specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità
era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio
o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.

Potei averne la prova nell’impressione dalla quale fui
per cosí dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo,
camminando e parlando col mio amico Stefano Firbo,
mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio
per via, di cui non m’ero prima accorto. Non poté
durare piú d’un attimo quell’impressione, ché subito seguí
quel tale arresto e finí la spontaneità e cominciò lo
studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione
d’un estraneo che passasse per via conversando.
Mi fermai. Dovevo esser molto pallido. Firbo mi domandò:
– Che hai?
– Niente, – dissi. E tra me, invaso da uno strano sgomento
ch’era insieme ribrezzo, pensavo:
«Era proprio la mia quell’immagine intravista in un
lampo? Sono proprio cosí, io, di fuori, quando - vivendo
- non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo
sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi
conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo,
non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non
posso veder vivere se non cosí, in un attimo impensato.
Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no.»
E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato:
d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e
che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno
specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo;
quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo
conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo
volevo vedere e conoscere anch’io cosí come gli altri lo
vedevano e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo
estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser
io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò:
con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero
non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo
solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti
dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso,
uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo
specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi,
abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono
le mie incredibili pazzie.


Vediamo se a qualcuno viene la voglia di leggere i miei deliri notturni
Vecchio 03-06-2017, 10:32   #2
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siamo quello che decidono gli altri alla fine, c'è poco da fare
Vecchio 03-06-2017, 10:40   #3
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Quando la gente si è fatta una certa idea di te non c'è niente che tu possa fare per far vedere come sei realmente (secondo me)
Vecchio 03-06-2017, 13:03   #4
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Soggettività e oggettività non sono due cose distinte e indipendenti, o meglio, la soggettività non implica necessariamente mancanza di oggettività. Altrimenti non sarebbe possibile alcun tipo di conoscenza comune.
E' una cosa su cui si esprime chiaramente Jung in tipi psicologici quando tratta dell'introverso e della sua marcata soggettività che a volte diventa patologica negando l'oggettività(ecco che uno vive di fantasie). Da parte sua l'estroverso patologico tende a negare la soggettività. Credo che l'unione delle due cose avvenga in una persona in perfetto equilibrio tra i due tipi.
Vecchio 03-06-2017, 13:41   #5
Jai
Esperto
L'avatar di Jai
 

Soggettività ed oggettività son facce della medesima medaglia: l'oggetto cessa d'esistere nel momento in cui il soggetto non lo percepisce, così come il soggetto si dissolve nel momento in cui ogni sfumatura che caratterizza lo stesso viene meno lasciando il soggetto, divenuto mero oggetto, in balia di sé stesso.
Siamo soggettività in un sistema oggettivo, così come oggettività in interconnessioni soggettive... ma alla base v'è sempre un minimo comune multiplo, ciò che da sia corposità che sentimento a quella medaglia. Ogni aspetto di sé, fatto di materia e spirito, coesiste al medesimo tempo; una dualità in sincronia reciproca.

Piuttosto, è il disarmonico percepire tra l'io e l'altrui a decretarne le tiranniche distinzioni, come in un incessante strattonar la corda; preferire nettamente l'uno anziché l'altro piuttosto che il totale nel quale sono immersi...
Vecchio 03-06-2017, 13:55   #6
Esperto
L'avatar di alleny82
 

Siamo un mix di quello che siamo, di quello che vogliamo essere e di come ci percepiscono gli altri.
Ma si può cambiare idea a volte su noi stessi e su quello che vogliamo così come anche gli altri possono cambiare idea su di noi.
È tutto in continuo cambiamento tranne alcune cose a cui teniamo da sempre: quelle sono la parte di noi che non cambierà mai e che prima o poi, di solito cominciano a vedere chiaramente anche gli altri
Vecchio 03-06-2017, 16:01   #7
Banned
 

Quote:
Originariamente inviata da Itachi Visualizza il messaggio
Soggettività ed oggettività son facce della medesima medaglia: l'oggetto cessa d'esistere nel momento in cui il soggetto non lo percepisce, così come il soggetto si dissolve nel momento in cui ogni sfumatura che caratterizza lo stesso viene meno lasciando il soggetto, divenuto mero oggetto, in balia di sé stesso.
Siamo soggettività in un sistema oggettivo, così come oggettività in interconnessioni soggettive... ma alla base v'è sempre un minimo comune multiplo, ciò che da sia corposità che sentimento a quella medaglia. Ogni aspetto di sé, fatto di materia e spirito, coesiste al medesimo tempo; una dualità in sincronia reciproca.

Piuttosto, è il disarmonico percepire tra l'io e l'altrui a decretarne le tiranniche distinzioni, come in un incessante strattonar la corda; preferire nettamente l'uno anziché l'altro piuttosto che il totale nel quale sono immersi...
Quindi, l'oggettività e la soggettività sono fatte della stessa materia. A causa della coscienza che possediamo (da cui scaturisce il mondo soggettivo) facciamo inevitabilmente ma erroneamente distinzione tra un mondo interiore e uno esteriore quando sono in realtà entrambi espressione del tutto. Questo ragionamento mi sembra corretto, ma pone la prospettiva verso il tutto, non verso noi stessi. Mi spiego, dire che la nostra mente ( e quindi la nostra soggettività) sia espressione del tutto è corretto, ma noi non guardiamo dalla prospettiva del tutto, non possiamo farlo, guardiamo solo attraverso la nostra soggettività, potrei infatti affermare per assurdo che solo io esisto con certezza, mentre il resto potrebbe essere un sogno frutto della mia mente. Da questo punto di vista, la felicità di un uomo che vive nelle illusioni (che illusioni per lui non lo sono), è reale, e non un'illusione anch'essa. È per questo che si fa questa distinzione.
Dal punto di vista teorico funziona, non tanto nel pratico.
Perché un individuo per avere una posizione sociale ad esempio, deve necessariamente esternare le sue idee, che sono veicolate (ma anche vincolate) dalle azioni. Come hai detto tu la soggettività è una diversificazione del tutto, e quindi non esistono idee pensate e non espresse ma le idee pensate sono per forza espresse anche se solo nel nostro io (che è parte del tutto appunto) nonostante ciò mi si giudicherà non per l'idea che possiedo (impossibile da cogliere senza un mezzo comunicativo), ma nel modo in cui la esprimo all'esterno. Ed ecco il relativismo di Pirandello.
Però mi verrebbe da ribattere che i giudizi altrui non fanno parte di noi a meno che non siamo noi a volerlo.
Il più delle volte lo vogliamo, perché (a mio parere) consideriamo istintivamente le altre persone, che hanno tutto sommato un aspetto e delle idee simili alle nostre (anche dopo un'influenza da parte loro in precedenza chiaramente), parte di noi, per cui un loro giudizio diventa un nostro giudizio, una loro critica diventa una critica che noi facciamo a noi stessi.
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